UN PRETE DENUNCIA: I SEMINARI CI FORMANO PER ESSERE FUNZIONARI DI UNA CHIESA SONNOLENTA

da: Adista Notizie n. 67, 4 Ottobre 2008 (http://www.adistaonline.it/)

ROMA-ADISTA. Qualche tempo fa (vedi di seguito), raccontavamo la vicenda di un seminarista – Cristian Leonardelli – che, per poter diventare prete aveva dovuto trasmigrare dalla sua diocesi – Trento – fino a Livorno. Motivo: il suo “eccessivo” spirito critico, unito alla lettura di una stampa considerata non “edificante” per un aspirante presbitero, come quella di Adista, aveva suggerito al vescovo di Trento, mons. Luigi Bressan, di soprassedere all’ordinazione. Ebbene, qualche giorno fa don Cristian ci ha scritto, per precisare ulteriormente la sua vicenda e inserirla all’interno della più generale questione di come avviene oggi la formazione dei nuovi preti. La riproduciamo qui di seguito (v. g.)


Cara Adista,

sono don Cristian e scrivo in relazione all’articolo del n. 45 di Adista, intitolato: “Hai spirito critico? Leggi Adista? Allora non puoi fare il prete.”

In esso si racconta brevemente della mia traversia nella diocesi di Trento conclusasi poi con l’ordinazione nella diocesi di Livorno. Ci tenevo a far sì che quanto mi è accaduto non si riducesse ad una faccenda personale tra me e il vescovo, ma desse l’opportunità per una riflessione di più ampio respiro, magari su Adista, riguardo i criteri di selezione dei candidati al sacerdozio.

Penso infatti che questi criteri siano lo specchio di come oggi vive e ragiona la nostra Chiesa. Quale prete vogliamo oggi? E quale Chiesa sogniamo? Sono due facce della stessa domanda. La mia esperienza mi dice che nella “recluta” e nella formazione dei preti ben difficilmente sono “premiate” quelle persone leali, vere e dotate di quello spirito di amore per la ricerca e per la critica costruttiva.

Quasi sempre sono preferite persone conformiste, inquadrate nei ranghi e che raramente sollevano questioni: è ovvio sono più funzionali alla nostra sonnolenta istituzione Chiesa che preferisce non aver a che fare con “rompiscatole” che potrebbero mettere in discussione modi di fare e di pensare. Difficilmente trovano spazio quelle persone che portano avanti “visioni” differenti da quelle ufficiali, coloro che manifestano dissenso, anche se affettuoso e creativo, fanno fatica ad esprimersi… come mai?

Quale idea di Chiesa e, ancora più profondamente, quale idea di Dio nasconde questo modo di fare e di agire? Forse che arruolando nel clero (o tra i cristiani con responsabilità ecclesiali) persone appiattite nel sistema, prive di “spina dorsale”, di capacità critica, di amore per la verità, si pensa di portare elementi di pace? Penso che scansare problemi, evitare i riscontri, negarsi la realtà non siano elementi di pace ma piuttosto il modo per introdurre conflitti più ampi.

Rinviare il confronto significa accumulare equivoci, frustrazioni, voglia di rivalsa. La pace di Cristo è proiettata nel futuro e non può crescere e realizzarsi finché ci sono ipocrisie in agguato, pronte a rivangare problemi accantonati. Pensare secondo Dio, uscire dall’individualismo, cercare il bene comune anche a rischio di generare conflitti: ecco il Regno di Dio.

Infatti sovente nella storia i seguaci di Gesù sono stati perseguitati, e non soltanto da chi militava su fronti avversi, ma anche da appartenenti all’ambiente cristiano, da coloro che usano strumentalizzare il nome di Cristo per adattarlo a interessi di governo e di potere. L’indicazione è sempre la stessa: non chi dice “Signore Signore” rischia persecuzioni, ma “chi fa la volontà del Padre” (Mt 7,21).

Certo non è utile nessuna contrapposizione conflittuale, ma solo un paziente, deciso e perseverante lavoro di trasformazione, per poter continuare a credere che al ripetersi della domanda: “Ma il figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8), ci sarà qualcuno che risponderà: “Eccomi !”.

don Cristian Leonardelli

P. S. Dalla lettera di don Milani a don Coccio (3/2/1961):

“La vocazione di don Abbondio (cioè quella che in un seminario viene presentata come perfezione sotto il falso nome di Prudenza, Umiltà, Sottomissione) non era la vocazione dei Martiri che han fatto la Chiesa. E se l’essere cristiano non implicasse automaticamente l’opposizione alle autorità costituite, ai benpensanti, ai potenti, Gesù non sarebbe stato condannato a morte e nessuno degli altri suoi martiri che vennero dopo di lui. Dunque dai seminari così come sono ora non può in nessun modo uscire un cristiano cioè un chiamato alla persecuzione dei potenti (compresi i potenti ecclesiastici) e se è necessario al martirio”.


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da: Adista Notizie n. 45, 14 Giugno 2008

TRENTO-ADISTA. Domenica 18 maggio a Coredo (in Val di Non, provincia di Trento), suo paese d’origine, don Cristian Leonardelli ha celebrato la sua prima messa. Nulla di strano, se non fosse che don Cristian, dopo il diaconato, per diventare prete ha dovuto attendere ben sei anni e – soprattutto – ha dovuto lasciare la diocesi di Trento, dove aveva vissuto, dove aveva frequentato tutti gli anni di seminario e dove sperava di essere incardinato.

La storia di don Cristian, e delle ragioni per cui – in un’epoca di inarrestabile calo delle vocazioni – ha dovuto penare tanto per essere ordinato, è stata raccontata dal quotidiano l’Adige, sul numero del 28 maggio scorso, all’interno di un lungo articolo-intervista, in cui il prete trentino, che oggi ha 34 anni, ricostruisce le tappe della sua traversia: “Entrai in seminario a Trento dove mi dimostrai una persona costruttivamente critica”. “Dopo essere stato ordinato diacono, prima del sacerdozio, mi presentai al vescovo con una lettera, come di norma. Gli scrissi della mia sensibilità per gli ultimi e diedi la mia disponibilità a lavorare in punti di incontro o di recupero di tossicodipendenti”. Il vescovo, mons. Luigi Bressan, “lo recepì come un rifiuto da parte mia a vivere in una comunità parrocchiale, ma io parlavo di possibilità, vedendo figure come don Dante Clauser o don Luigi Ciotti”. L’ordinazione era prevista per il mese di giugno del 2005, “ma alla fine di marzo fui convocato dal vescovo. Mi presentò un dossier. Avevano investigato su di me”: “Mi venivano attribuite affermazioni false, tendenziose e del tutto decontestualizzate. Un esempio su tutti? Il celibato dei preti, che tra l’altro io vivo serenamente. In qualche occasione avevo detto di essere aperto alla possibilità che le famiglie potessero collaborare con il ministro celibe. Fui accusato di essere contrario al celibato, di rifiutare la dottrina. Lo stesso valse per altre questioni, come l’omosessualità, il ruolo della donna nella Chiesa e la figura di Gesù: il senso originario delle mie parole venne distorto”. Dopo questo primo colloquio, racconta Leonardelli all’Adige, “incontrai monsignor Bressan altre quattro volte”, nelle quali, tra l’altro, “mi venne contestato il fatto di essere abbonato a riviste non ufficiali come Adista”.

Alla fine, la tegola sulla testa. Bressan – racconta don Cristian – “mi disse che non sarei mai stato ordinato in Trentino e che non mi avrebbe dato la possibilità di
lavorare come diacono. Senza quell’incarico non avrei potuto autosostenermi”. Nella parrocchia di Gardolo, dove don Cristian era allora diacono, “stavamo programmando assieme la pastorale per l’anno seguente, dissi loro che purtroppo non ci sarei stato: inizialmente la presero come una burla, poi capirono. Chiesero se ci fosse qualcosa di sbagliato nel nostro cammino assieme, ma non ottennero risposte né dal parroco di Gardolo né dal vescovo, per cui scrissero numerose lettere ai giornali, che diedero grande spazio alla notizia”. Cristian rinunciò a fare ricorso al tribunale ecclesiastico appellandosi al diritto canonico “per il quale un diacono ha diritto ad essere ordinato prete se non incorre in disordini morali o rinnega la fede”. Preferì trovare un vescovo che lo accogliesse e accettasse di fargli proseguire il cammino iniziato in Trentino. Trovò accoglienza nella diocesi di Livorno, presso mons. Diego Coletti. Lì, racconta “ho continuato a fare quello che facevo qui, ho continuato ad essere quello che sono”. E è stato ordinato prete in Santa Maria del Soccorso.

Valerio Gigante