Economia – Il punto di non ritorno

Riccardo Milano (Banca Popolare Etica)
fonte: www.mosaicodipace.it

Come definire il dramma della crisi dei mercati che stiamo vivendo? Perdita di una battaglia o di una guerra da parte delle attuali dottrine monetaristiche/liberiste che dagli anni settanta circa governano il mondo, anche con il famoso Washington Consensus?

Il dibattito è aperto e le correnti di pensiero sono due: da una parte chi si ostina a credere e a dire che la crisi è solo di un uso/abuso di strumenti finanziari e, quindi, di “malefatte” di alcuni soggetti (persone e istituzioni creditizie); risolti i problemi sorti con nuove regole e nuovi ordinamenti (ma chi li scriverà? Con quale delega?) tutto potrebbe tornare meglio di prima e la libertà dei mercati rafforzerà l’economia, anche perché in fondo tale libertà è stata, di fatto, molto limitata (sich!). Dall’altra c’è chi sostiene che siamo vicini alla fine di un’era storica con il fallimento delle politiche liberiste del più esteso laissez-faire (da mettere logicamente da parte quando si può approfittare di sussidi protezionistici: decisamente la coerenza non è il forte di chi crede nel liberismo del mercato capitalistico!) e bisogna ricominciare a impostare un nuovo modello di sviluppo col concorso di una nuova teoria generale economica condivisa (che oggi non c’è) e che sia in grado di governare la globalizzazione unitamente a una riproposizione di nuove politiche per i popoli per integrarli e non per emarginarli, come di fatto sono oggi. In questo secondo aspetto c’è anche la necessità di un nuovo forte stimolo a lavorare per l’ambiente che, immanente, è ad altissimo rischio.

Tra Keynes e Von Hayek

Il “cosa fare?” e a quale dottrina economica attingere è il compito dei tanti summit e tavoli da lavoro che si stanno svolgendo sia tra gli stati e sia tra le autorità monetarie: c’è chi dice che, esattamente nostalgico come un vecchio comunista quando è crollato il Muro, bisogna estendere ancor più il mercato e restringere lo stato in quanto, come sopra detto, è stato poco utilizzato; e c’è chi sta ricominciando a riprendere in mano le dinamiche delle teorie di Keynes, anche se Keinesiano non è mai stato, utilizzando un intervento ancor più massiccio dello stato (anche di quanto diceva Keynes): in pratica meno privatizzazioni e più nazionalizzazioni, controlli, razionalizzazioni del sistema, politiche fiscali nuove, ecc..

Vedremo cosa succederà e, in ogni caso, è bene non illudersi più di tanto: si sa che quando si toccano i beni e gli stili di vita dei ricchi, la loro risposta, per non perdere alcunché, è sempre incontrollata, pericolosa e drammatica…
Insomma, in carenza di nuove idee si torna all’antico, con l’annoso e passato schierarsi tra Keynes e Von Hayek (che è colui che ha influenzato i programmi di M. Thatcher e R. Reagan, come si faceva tra Coppi e Bartali (capisco che molti dei lettori sono digiuni di alcuni di questi nomi e teorie, ma informarsi adeguatamente anche su ciò è importante, nda).

Io, che ho vissuto professionalmente prima nel mercato capitalistico e attualmente in quello sociale nella finanza etica, logicamente propendo per un mercato sociale (quello, per intenderci della scuola economica italiana del 1700 dei vari Genovesi, Muratori, Verri, Beccaria, ecc. e non quello capitalistico post Smithiano) in cui lo stato e la politica siano importanti: le conseguenze del crollo delle borse e dei mercati sono e saranno più durature e profonde rispetto alla crisi del 1929 anche perché la popolazione occidentale non è oggi abituata a soffrire e a tirarsi su le maniche così come allora.
Il dramma ambientale poi, che ha termini e ripercussioni che non possono non essere prese in seria considerazione, aumenta la necessità che occorre costruire un nuovo modello di sviluppo (qualcuno usa il termine decrescita).

Insomma un punto di non ritorno, in un mondo divenuto globale e con l’abbattimento del fattore tempo per le comunicazioni e i saperi (che però sono – guarda il caso! – sempre più controllati).

Una nuova tabella di marcia

Quindi occorre una tabella di marcia nel riscrivere le regole che tenga conto di tante variabili: a pensarci bene è come il percorso che ha portato i Padri Costituenti a scrivere la nostra Costituzione Italiana; perché tale modalità non può essere presa, ad es., nel riscrivere il nuovo ordine economico mondiale (oggi si parla sempre più di dar luogo a una nuova Bretton Woods)? Detto in altri termini: chi si occuperà di ciò? Chi scriverà le nuove regole? Non è che saranno sempre i soliti, compresi quegli economisti neoclassici e liberisti che hanno concorso a questo sfacelo? O quei politici che si sono ben guardati sia di regolare con leggi appropriate non solo i mercati (es. la Tobin Tax), ma anche i Paradisi Fiscali, i dazi per i P.V.S., l’abolizione dei sussidi agricoli per i Paesi ricchi del Nord, i problemi dei brevetti, l’estinzione del concetto di beni comuni come l’acqua, ecc.?

Su questo la comunità internazionale deve interrogarsi e battersi (chiaramente in modo nonviolento, magari e cominciando, finalmente, a “votare con il portafoglio”!) affinché i rappresentanti autorevoli, anche dell’economia civile, siano presenti ai “tavoli dei cambiamenti”…

Il clima odierno è sconcertante e preoccupate (basti vedere in Italia il nuovo Libro Verde del welfare: si sono escluse tutte le realtà dell’economia civile e del terzo settore; lo stato continua a riferirsi solo ad alcuni interlocutori, i sindacati e Confindustria). Bisogna mobilitarsi fortemente e far sentire la nostra voce a tutti i livelli. Nessuno può tirarsi indietro!

Un dato è certo: chi ci sta rimettendo anche ora – come sempre! – sono i poveri, quelli di vecchia data e quelli nuovi (il ceto medio) e coloro che (i giovani e le donne) non hanno dinanzi ai loro cocchi neanche il più piccolo barlume di futuro che finora s’intravedeva. Penso anche a tutte quelle persone che perderanno il lavoro per la chiusura delle attività a causa della crisi o che, a causa dell’età, non saranno più utilizzabili. Per spendere di meno si privilegerà sempre di più di costruire le fabbriche in luoghi dove la mano d’opera costerà i meno, anche a costo di non lavorare in un bacino/distretto imprenditoriale (chissà che tra poco non si guarderà all’Africa con nuovi occhi…. sempre meno umani e sempre più capitalistici e per costruire nuove aziende…!).

Una lunga gestazione

La crisi attuale ha una lunga gestazione che è stata sempre più ignorata e, al limite, benevolmente nascosta, anche dalle autorità monetarie preposte: dall’emissione di futures, derivati, mutui subprime, ai Cto, Cts, ecc. (per non parlare dell’enorme diffusione delle vendite a rate, alle carte di credito, ecc.) alle possibilità date alle banche di finanziare oltre le loro possibilità cauzionali con l’autorizzazione di effettuare operazioni fuori bilancio, agli studi d’accreditamento delle Società di Certificazione, di rating, di sempre più limitati poteri delle Società di Controllo Borsistiche si è arrivati a mettere in ginocchio il mondo.

In fondo doveva prima o poi finire così: la finanziarizzazione dell’economia era marcia in partenza e ha continuato di male in peggio, ma illudendo fortemente tutti; in più non si è (volutamente?) curato sia il risparmio (quello vero) e sia il risparmiatore (quello vero) in quanto lo si è promosso, senza esami, a investitore… con tutti i risvolti che si conoscono.

Ora saremo tutti più poveri: forse non sarà un male se saremo capaci di farci sentire per costruire qualcosa di nuovo. In fondo l’invito di Don Tonino Bello: “In piedi, operatori di Pace!” non è sempre valido?