LADRI DI FUTURO

di Paolo Bonetti
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La scuola italiana ha bisogno di riforme, non ci si può opporre alle riforme, non si può dire sempre e soltanto no: questo ripetono, quotidianamente, gli uomini politici della destra, i loro fiancheggiatori intellettuali, e perfino qualche voce autorevole che vorrebbe riaprire un canale di dialogo fra le forze politiche. In realtà, soltanto un pazzo irresponsabile potrebbe affermare che la scuola italiana va bene così com’è. La malattia delle nostre istituzioni scolastiche è, da molti anni, sotto gli occhi di tutti, e si è venuta progressivamente incancrenendo per incuria, insipienza e mancanza di coraggio dei medici che avrebbero dovuto ordinare e mettere in atto la giusta terapia, dopo averne fatto una diagnosi realistica e impietosa.

Ma il punto vero della controversia che agita oggi l’intera società italiana sulla questione scolastica (non solo professori e studenti, magari per semplici ragioni corporative) è se la diagnosi e la cura proposta dal governo Berlusconi siano tali da cogliere le vere cause della malattia e, soprattutto, da avviare l’ammalata a una guarigione che non sia puramente apparente. Già il precedente governo Berlusconi aveva tentato, con la ministra Moratti, una riforma che presentava un carattere di organicità certamente maggiore di quello che può vantare la riforma Gelmini , ma il tentativo si era concluso con un rigetto che non ammetteva repliche.

La pretesa di razionalizzare l’ordinamento scolastico italiano senza avere nessuna idea chiara circa la funzione educativa e culturale che la scuola esercita sull’intera società, non poteva che concludersi con un malinconico fallimento. Altrettanto fallimentari, però, si sono rivelati, negli ultimi decenni, i progetti di riforma elaborati dall’altra parte dello schieramento politico, sempre in ritardo sulle trasformazioni della società, spesso affannosamente impegnati a inseguire modelli di scuola già da tempo in crisi là dove ne era stata tentata l’attuazione.

Nell’incapacità a riformare davvero la scuola si manifesta pienamente la crisi culturale che, almeno degli anni Settanta dell’altro secolo, ha coinvolto tutti i partiti italiani: poiché essi non sanno bene, dopo le illusioni e le delusioni del primo centro-sinistra, quale tipo di società realizzare, a maggior ragione non riescono a concepire chiaramente quale potrebbe essere una scuola all’altezza delle esigenze di una popolazione scolastica sociologicamente e culturalmente troppo cambiata rispetto ai vecchi modelli.

È così che, in questi ultimi decenni, si è oscillato fra populismo e tecnocrazia, velleità iperdemocratiche e patetici richiami all’ordine. Fino al punto che qualcuno sta ormai pensando di abbandonare la scuola pubblica e l’università statale al suo degrado, confidando che tutto questo apra la strada a una “salvezza” proveniente dal privato. La riforma Gelmini, più o meno consapevolmente, si muove secondo questa logica perversa, poiché non parte da una concezione organica del ruolo della scuola nella società, per poi magari procedere a riforme anche severe e dolorose; ma pone, come premessa ineludibile e del tutto esterna al sistema scolastico, la necessità di tagli drastici alla spesa pubblica, adottando di conseguenza provvedimenti che non tengono conto di ciò che, nella scuola, non è spreco, ma legittima aspettativa individuale, familiare e sociale.

È quanto mai significativo, a questo proposito, che si aggredisca la scuola elementare, quella di maggiore qualità nel nostro ordinamento, o si taglino i finanziamenti alla ricerca con l’alibi che ci sono indubbie situazioni di spreco e di scarsa razionalità e meritocrazia nella gestione degli stessi.

Le battaglie contro sprechi e corporazioni, ben presenti nel sistema scolastico e universitario italiano, sono sacrosante, ma bisognerebbe farle partendo da una qualche idea forte di quello che deve essere il ruolo della scuola e dell’università nello sviluppo complessivo del Paese, e non subordinando meccanicamente questi settori all’esigenza di tagliare comunque una spesa pubblica esorbitante. I soldi per la scuola e per la ricerca possono anche essere spesi male, come troppo spesso accade, ma la soluzione del problema non può consistere nella semplice e automatica riduzione dei fondi ad esse destinati.

I giovani, in particolare, hanno capito immediatamente che si vuol far pagare ad essi il prezzo di una crisi economica destinata purtroppo ad aggravarsi nei prossimi mesi. E giustamente si ribellano a questo scippo cinico e indifferente del loro futuro di uomini e cittadini. Essi vedono che, nonostante le quotidiane, narcisistiche esibizioni televisive del ministro Brunetta e le mirabolanti promesse di un federalismo che non si capisce bene in che cosa davvero potrà consistere, l’uso irrazionale e parassitario del pubblico denaro continua imperterrito i tanti settori dello Stato e del parastato, a livello periferico non meno che centrale.

E cominciano a dubitare, soprattutto i migliori, che la Gelmini e i suoi superiori abbiano in testa una qualche idea coerente di scuola e di ricerca scientifica per un’Italia che ha bisogno di tornare a sperare e a crescere.