Apocalisse Congo

di Simona Pari
da: (testo giunto tramite e-mail)

Che vengano allora, che prendano Goma. È l’attesa che snerva, è questa guerra infinita. Maman Beatrice non ha rinunciato ai sabot con mezzo tacco e al completo nero con i fiori rossi. Ma è stanca, anche solo di pensare. E ha paura, nella Goma polverosa e stranita, con i negozi mezzi chiusi, il traffico intermittente e la gente che si blinda in casa appena fa buio con il coprifuoco imposto dal governatore del Nord Kivu. Tutti aspettano con il fiato sospeso che governo e ribelli raggiungano una tregua credibile. E magari la pace. Intanto i ribelli sono a pochi chilometri dal centro, dove si sono fermati il 29 ottobre, dopo giorni di combattimenti, mentre le forze armate congolesi rompevano le posizioni e scappavano verso Goma. L’arrivo in città dei militari, noti per la loro efferatezza, ha gettato la popolazione nel panico. Migliaia di persone sono fuggite. Ed è arrivata la notte più terribile di Goma.

Soldati fuori controllo sono entrati nelle case per saccheggiare, uccidere e stuprare. Le sparatorie sono durate fino all’alba. Una battaglia senza guerra, perché erano i civili sotto attacco e non il nemico. Con l’avanzata della linea del fronte, la popolazione del Rutshuru, la maggior parte già sfollata, è scappata verso Goma. Altri verso la regione del Grand Nord. Altri ancora hanno cercato protezione nei paesi vicini, come Uganda e Ruanda. Secondo alcuni rapporti, anche i campi sfollati sono stati saccheggiati e distrutti. “Vivevamo da mesi in un campo”, spiega Gloire, 25 anni, con un bambino nel sacco di tessuto colorato sulla schiena e un altro nella pancia, “poi sono iniziati i combattimenti, c’è voluto un giorno di cammino per arrivare qui”. Gloire vive in una scuola di legno con il pavimento di lava a Kibati, con migliaia di persone accampate in case di conoscenti, chiese, scuole o nel vicino campo sfollati.
Con lei una decina di donne, solo qualche pentola, un piatto di banane e una cinquantina di bambini. Si dorme sulle pietre. Al freddo e all’umido della stagione delle piogge. “È la quinta volta che sono sfollata”, continua Gloire, “e non posso tornare al mio villaggio, ho paura. Non mangiamo da quattro giorni”.

Dalla fine di agosto, quando i combattimenti tra le forze armate e i ribelli del Cndp (Congresso nazionale per la difesa del popolo) di Laurent Nkunda e altri gruppi armati sono ripresi, solo nella provincia del Nord Kivu, 250 mila persone hanno abbandonato i villaggi. Nella regione del Nord Kivu, a est del Congo, ci sarebbero più di un milione di sfollati.

Se qualche aiuto arriva in alcune zone, ci sono altri territori dove manca la sicurezza minima per le organizzazioni umanitarie. Ed è lì che sono concentrati la maggior parte degli sfollati. Manca tutto: è emergenza colera, acqua e cibo. È lunga l’attesa tra le piccole e umide capanne di foglie di banana nel campo sfollati. “Vogliamo solo la pace per tornare a casa, coltivare e poter mangiare. Abbiamo abbandonato tutto, mia moglie possiede solo i vestiti che indossa”, spiega Faustin, che vive in un campo vicino a Goma.

Per ora, il cessate il fuoco unilaterale tiene. Ma è troppo fragile per pensare al futuro. Nonostante l’accordo di pace firmato a Goma dal governo e dai principali gruppi ribelli congolesi lo scorso gennaio, i combattimenti non si sono fermati. Anzi sono aumentati. I gruppi e le forze armate continuano ad arruolare bambini, a utilizzare le bambine come schiave, a uccidere gli uomini che tornano nei villaggi per trovare cibo, a distruggere case e saccheggiare villaggi.

Secondo le Nazioni Unite, da gennaio 2008 più di 18 mila donne in Congo hanno subito violenza sessuale. Gli stupri denunciati rappresentano forse solo un decimo della realtà. Le donne terrorizzate non vanno nemmeno a farsi medicare. Paura della vendetta dei gruppi armati, paura dello stigma e dell’abbandono dei loro mariti e familiari. Paura di essere obbligate a sposare il loro violentatore in cambio di una capra, per riparare il danno. E gli stupratori continuano a violentare di villaggio in villaggio. Mentre le vittime scopriranno un giorno di avere l’Aids, oppure non lo scopriranno, perché mai avranno accesso a un ospedale. Alcune non sopravvivono neanche, violentate per giorni da decine di uomini, oppure struprate con bastoni, fucili e mutilate.

Nella Repubblica Democratica del Congo, un paese immenso, grande quanto l’Europa occidentale, con infrastrutture minime, una democrazia appena nata con le elezioni nel 2006, la Momuc, la missione delle Nazioni Unite in Congo è la più grande al mondo, con 17 mila caschi blu, un mandato che autorizza l’uso della forza per disarmare i gruppi armati e proteggere la popolazione civile. Un mandato vasto, ambizioso e, soprattutto, irreale per alcuni analisti. Molti pensano che si possa fare di più per proteggere i civili. Nelle scorse settimane, manifestazioni anti-Onu si sono trasformate in violenti scontri.

Il rappresentante del segretario generale delle Nazioni Unite nella Repubblica Democratica del Congo ha richiesto più uomini e sostegno al Consiglio di sicurezza. Una ’surge’ fatta di forze speciali ben addestrate. La Francia, alla presidenza dell’Unione europea, propone l’invio di una forza militare europea. Mentre la diplomazia internazionale, Unione europea e Stati Uniti, sta facendo la navetta tra la Repubblica Democratica del Congo e il Ruanda, accusato di sostenere la ribellione del Cndp. Il governo congolese, invece, è accusato da quello ruandese di appoggiare le forze ribelli di origine ruandese, le milizie Fdlr, e di non aver agevolato un accordo per il disarmo delle milizie, firmato a Nairobi un anno fa. In molti temono che il conflitto in Nord Kivu possa degenerare in una crisi regionale. E le tensioni legate alla proprietà terriera e allo sfruttamento illegale delle risorse naturali continuano ad alimentare il conflitto. Il Congo è uno dei paesi più ricchi di minerali al mondo: cassiterite, coltan e oro. Un circolo vizioso tra sfruttamento delle risorse e guerra. Le iniziative diplomatiche, a questo punto, sono determinanti, ma la radice del conflitto deve essere risolta, se la comunità internazionale vuole davvero la pace in Congo.