La dittatura a sud di Lampedusa

di Gabriele Del Grande
da www.peacereporter.net

La Tunisia, per i migranti, è un inferno. Nell’indifferenza dell’Unione europea che tratta Ben Alì come un grande statista

Sindacalisti arrestati e torturati, manifestanti uccisi dalla polizia e giornalisti in carcere. La cronaca degli ultimi dieci mesi in Tunisia mostra il lato nascosto di un paese visitato ogni anno da milioni di turisti e ogni anno abbandonato da migliaia di emigranti. Per scriverla ho dovuto raggiungere clandestinamente la città di Redeyef, cuore della rivolta, nel sud ovest del Paese, e incontrare i testimoni chiave di quello che i circoli democratici di Tunisi definiscono già come il movimento sociale più importante e duraturo degli ultimi 20 anni

Si tratta di una cittadina di 37.000 abitanti, costruita un secolo fa dai francesi nel bel mezzo del bacino minerario di Gafsa. La regione ha un aspetto desolante. Ricorda un paesaggio lunare. Ma sotto le spoglie montagne grigie tra Moulares, Redeyef, Mdhilla a Metlaoui si trova un vero e proprio tesoro: 600 milioni di tonnellate di fosfato. Lo estrae una società pubblica, la Compagnia dei fosfati di Gafsa (Cpg). Nel 2008 il prezzo della tonnellata è raddoppiato per la crescente domanda di fertilizzanti di Cina e India.

La Tunisia è il quinto produttore mondiale e ha riserve per 100 anni. Eppure la regione di Gafsa è una delle più povere. La modernizzazione degli impianti ha tagliato il 55% dei posti di lavoro, passati in 20 anni da 11.000 a 5.000. E ha provocato una grave crisi economica nelle città dei minatori, costruite ex novo dai coloni francesi per ospitare la manodopera agli inizi del Novecento. Oggi la disoccupazione colpisce il 40% dei giovani. Giovani che spesso non vedono altra via d’uscita se non bruciare le frontiere, come si dice in arabo. Harrag. Direzione Lampedusa. È da loro che è nata la protesta.

Inizia tutto il 5 gennaio 2008, a Redeyef, una città di 37.000 abitanti. La Cpg pubblica i risultati di un concorso pubblico per 80 posti di lavoro. Ma la lista è giudicata fraudolenta. I giovani disoccupati si ribellano e occupano per protesta la sede regionale del sindacato dei minatori (Ugtt), ritenuto coinvolto nella truffa. Presto sono raggiunti da 11 vedove che chiedono il rispetto delle quote assegnate ai figli dei morti sul lavoro.

La base della protesta si allarga. Le parti pulite del sindacato si uniscono alla denuncia. E intanto a Tunisi nasce un comitato nazionale di sostegno al popolo delle miniere. Il 4 aprile si tiene a Tunisi una giornata di solidarietà. Vi partecipano dei sindacalisti di Redeyef. Ma al loro ritorno, la mattina del 7 aprile, vengono arrestati insieme a decine di attivisti. Tra loro c’è anche Adnan Hajji, segretario del sindacato degli insegnanti di Redeyef.

Lo stesso giorno gli insegnanti della città sospendono le lezioni e poco dopo viene indetto uno sciopero generale che si protrae per tre giorni. Il 9 aprile una trentina di donne scendono in piazza chiedendo la liberazione dei mariti. La città si unisce alla manifestazione che arriva fin sotto la prefettura. Il giorno dopo, i sindacalisti vengono rilasciati. Al loro ingresso in città, sono accolti da un bagno di folla. Più di 20.000 persone acclamano il loro nuovo leader, Adnan Hajji.

Intanto in Francia si moltiplicano le iniziative di solidarietà animate dagli emigrati tunisini, soprattutto a Nantes, dove vive una numerosa comunità originaria di Redeyef, che fonda un comitato di solidarietà e scende in piazza. Nel bacino minerario però le proteste non accennano a diminuire. Il 6 maggio 2008, Hicham Ben Jeddou muore fulminato dai cavi dell’alta tensione in un generatore elettrico, a Tabeddit, mentre con un gruppo di disoccupati tentavano di bloccare gli impianti della Cpg. È la prima vittima delle proteste. I testimoni accusano la polizia di aver riallacciato la corrente sapendo che lo avrebbero ucciso.

Da Tunisi, vengono inviati rinforzi. Polizia e esercito controllano ogni accesso a Redeyef. E agenti in borghese sorvegliano gli attori principali della protesta. Il sei giugno la polizia spara sui manifestanti. Hafnaoui Maghzaoui, muore sul colpo. Altri 27 ragazzi sono feriti. Uno di loro, Abdelkhaleq Aamidi, morirà il 14 settembre, in ospedale. Nel giro di poche settimane vengono arrestate duecento persone. Sindacalisti e gente comune. La notte tra il 21 e il 22 giugno viene di nuovo arrestato il leader della protesta: Adnan Hajji.

Il movimento è decapitato. Nessuna donna però è stata arrestata. Sono loro, le mogli dei sindacalisti e dei militanti detenuti a tornare in piazza, il 27 luglio, per chiedere la liberazione dei detenuti. In mezzo a loro c’è anche Zakiya Dhifaoui. Classe 1966, giornalista e insegnante. È venuta da Kairouan per scrivere un reportage su Redeyef sul giornale di opposizione Muatinun. Ma il reportage non sarà mai pubblicato. Perchè quello stesso giorno Dhifaoui viene portata in carcere. Il suo è un arresto simbolico.

Un messaggio a tutti i giornalisti tunisini, di non recarsi a Redeyef e di non scrivere sulle rivolte. È l’altro lato della repressione: il controllo totale dell’informazione. Dhifaoui è stata condannata a quattro mesi e mezzo di carcere. Ma non è l’unica giornalista dietro le sbarre. A finire sotto processo è la stessa libertà di espressione.

I siti di Youtube e Dailymotion, dove dall’estero sono stati caricati i video delle manifestazioni, dei comizi, e delle violenze della polizia, sono oscurati dal novembre 2007. Masoud Romdhani, portavoce del movimento nazionale di solidarietà, viene malmenato da agenti in borghese a Tunisi. Amor Gondher, corrispondente da Redeyef del giornale di opposizione Tareq al Jadid, viene pestato da due poliziotti la sera del 26 giugno, a Nefta.

Fahim Boulqaddous, giornalista della tv El Hiwar – che aveva diffuso i video di Redeyef sul canale satellitare italiano Arcoiris, poi diffusi anche da Al Jazeera – scappa di casa il 5 luglio, per sfuggire al mandato d’arresto. L’autore di quei video, Mahmoud Raddadi, era stato arrestato due settimane prima. Raddadi e Boulqaddous saranno presto giudicati insieme ad altri 38 imputati, tra cui 14 sindacalisti, con l’accusa di associazione a delinquere. Il dibattimento inizierà alla fine di novembre presso il tribunale di Gafsa. Subito dopo i festeggiamenti del 7 novembre per il ventunesimo anniversario della presidenza Ben Ali.