La giustizia dimezzata

di ETTORE BOFFANO
da www.repubblica.it

“Vergogna”, grida il pubblico nell’aula. Come a luglio, per il verdetto sulle violenze nella caserma di Bolzaneto. Un’altra sentenza “dimezzata” dove si dice che, in quella Scuola Diaz, accadde di tutto: si sfiorò la tortura e si tentò di ingannare la giustizia creando prove false, nascondendo delle bombe molotov portate dentro dai poliziotti nel tentativo di giustificare l’assalto, i pugni, i calci e le manganellate. Ma i giudici si rifiutano invece di pronunciare ciò che la logica dei fatti e delle responsabilità pretenderebbe: che tutto questo fu ordinato e deciso da chi comandava le forze dell’ordine, in quella notte feroce e sbagliata del 21 luglio 2001.

Spariscono dal processo i vertici della polizia, rimasti in carriera nonostante quelle imputazioni gravissime, promossi e chiamati a nuove responsabilità sia negli anni del centrodestra che in quelli del centrosinistra.

Ma che giustizia è allora questa di Genova? Dove per anni un gruppo di pm ha ricostruito, pezzo per pezzo, il grande puzzle di quelle giornate di straordinaria violenza, di sospensione improvvisa dei diritti costituzionali e del concetto stesso dell’habeas corpus. Ma dove poi i collegi giudicanti hanno dato pieno corso alle loro richieste solo nel caso del dibattimento contro i dimostranti giudicati per le distruzioni e gli assalti. “Dimezzata” invece la sentenza per i fatti di Bolzaneto, “dimezzata” ieri sera quella della Scuola Diaz: solo chi stava lì, chi picchiava e chi truccava le carte delle prove penali è stato condannato. nessuno dei capi, invece, pagherà. Una giustizia che sembra far pensare, inevitabilmente e aldilà della stessa volontà dei giudici, che forse qualcuno resta più uguale degli altri. E con quel morto di piazza Alimonda, Carlo Giuliani, per il quale mai nessuno è stato obbligato a raccontare la verità.

——————————————————-

Il vuoto del diritto

di GIUSEPPE D’AVANZO
da www.repubblica.it

Come per Bolzaneto, la sentenza del processo per i pestaggi nella scuola Diaz è una sentenza pessima, quali saranno le motivazioni che la sosterranno. È soprattutto una sentenza imprudente e pericolosa. Vengono condannati soltanto i “picchiatori” del Reparto Mobile di Roma, il comandante, il suo vice, i capisquadra.

Con loro, condannati i due poliziotti che s’inventarono, trasportandole nella scuola, le due bottiglie molotov che avrebbero dovuto giustificare la “perquisizione” diventata massacro di 93 persone sorprese nel sonno. Come per Bolzaneto, questa sentenza avrebbe dovuto spiegare come, perché, con la responsabilità di chi, nasce in una democrazia un “vuoto di diritto” che liquida le regole del diritto penale e le garanzie costituzionali e consegna la nuda vita delle persone, spogliata di ogni dignità e diritto, a una violenza arbitraria, indiscriminata, assassina.

La risposta del tribunale è stata, più o meno, questa: c’è stato un gruppo di esaltati che è andato oltre il lecito, tutto qui, e due disgraziati che per metterci una pezza, a frittata fatta, hanno manipolato una prova. L’intera catena di comando, a cominciare dal capo della polizia (nel 2001, Gianni De Gennaro) si è fatta prendere la mano e ingannare come l’ultimo del più sprovveduto dei gonzi. Così il Dipartimento della pubblica sicurezza è stato convinto a stilare un comunicato in cui non c’è una frase che non risulti falsa o controversa.

E’ fuor di dubbio che la ricostruzione dell’accusa ne esca a pezzi. L’assoluzione dei “vertici apicali” della polizia (Giovanni Luperi e Francesco Gratteri) smentisce il lavoro dei pubblici ministeri. Avevano sostenuto che l’”operazione Diaz” fu “decisa, pianificata e organizzata dal vertice del Dipartimento della pubblica sicurezza”; che “l’iniziativa era diretta al riscatto dell’immagine delle forze di polizia gravemente compromessa dall’inefficace azione di contrasto alle violenze e degenerazioni dell’ordine pubblico durante le manifestazioni di protesta contro il vertice del G8”.

Al contrario, per il tribunale non c’è stata alcuna pianificazione del Dipartimento e le violenze brutali, i fermi e gli arresti illegali sono farina del sacco di un pugno di subalterni che non sono riusciti a controllare il loro odio. L’esito minimalista del processo non spiega troppe cose (le perquisizioni arbitrarie, la costruzione di false prove, “la totale inosservanza delle regole del diritto”, quella notte e nei giorni successivi) e soprattutto non “chiude” lo strappo creato tra le istituzioni e una generazione che, in quei giorni, si riaffacciava sulla scena politica dopo un lungo letargo.

Quale che siano le motivazioni della discutibile sentenza, è su questo vulnus tra lo Stato e la società che bisogna riflettere perché i pestaggi della Diaz e le torture di Bolzaneto pongono questioni che sarebbe dissennato accantonare o anche soltanto trascurare. Qual è il mestiere delle polizie in questa congiuntura politica? E quali sono le garanzie che venga svolto in modo corretto?

In uno “Stato legislativo”, dove quel che conta è la legalità e chi esercita il potere agisce “in nome della legge”, le burocrazie sono “neutrali”, uno strumento puramente tecnico che serve orientamenti politici diversi e anche opposti, e le polizie hanno una funzione meramente amministrativa di esecuzione del diritto. Questo governo, in carica anche nel 2001, ha inaugurato la sua stagione “riformatrice” con ben altre convinzioni. Non vuole essere l’anonimo esecutore di leggi e norme. Non intende governare in nome della legge, ma in nome della “necessità concreta”. Pretende che si muova dietro le “emergenze” (autentiche o artefatte, che siano), dietro le “situazioni” che ritiene prioritarie. Berlusconi s’immagina alla guida di uno “Stato governativo” che si definisce per la qualità decisiva che riconosce al comando concreto, applicabile subito, assolutamente necessario e virtualmente temporaneo, sempre conflittuale perché esclude e differenzia.

In questo scorcio di legislatura si sta creando così un paradigma istituzionale “duale” che affianca alla Costituzione una prassi di governo che vive di decreti con immediata forza di legge e trasforma il comando in un ininterrotto “caso d’eccezione” (immigrazione; sicurezza; Alitalia; rifiuti di Napoli; riforma della scuola).

Nello “stato d’eccezione”, le polizie hanno un ruolo essenziale. Berlusconi evoca con regolarità un “diritto di polizia” e un uso della violenza o minaccia poliziesca quando i suoi obiettivi appaiono non condivisi o in pericolo (contro gli immigrati, contro i napoletani incivili, contro le proteste negli aeroporti, contro le manifestazioni degli studenti). Chi, nelle burocrazie, non sta al gioco, va a casa. Come è accaduto ieri al prefetto di Roma, Carlo Mosca, custode di una concezione di burocrazia professionale che, alla decisione politica (impronte per i bambini rom), oppone il rispetto della legge e della Costituzione.

Mosca è stato “licenziato” perché Berlusconi chiede – al contrario – che le burocrazie condividano la capacità di assumersi il suo stesso rischio politico, come fossero un’élite politica e non istituzionale e non neutrale. E’ una novità di cui bisogna tener conto. E’ quel che esplicitamente chiede alle polizie Francesco Cossiga con la sua “ricetta democratica”.

Cossiga ha spiegato come distruggere l’Onda, il movimento degli studenti: “Bisogna infiltrare gli studenti con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine, mettano a ferro e fuoco le città. Dopodiché, forti del consenso popolare, le forze dell’ordine non dovrebbero avere pietà
e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano”.

Cossiga (un uomo che sarebbe sciagurato considerare soltanto uno spericolato irresponsabile) dice quel che altri, nella destra di governo, pensano soltanto. Le polizie, nello “Stato governativo” preteso dalla destra, non dovrebbero più avere soltanto una funzione di mera esecuzione del diritto, ma farsi agenti attivi della sovranità del governo, muoversi in quell’area indifferenziata tra violenza e diritto che sempre definisce, nel caso d’eccezione, il comando del sovrano e il potere delle polizie.

Ora quel che si paventa per il domani è già accaduto ieri, a Genova, durante i giorni del G8. E’ accaduto proprio nelle forme augurate oggi da Cossiga. Black Bloc che distruggono la città senza alcun contrasto. Black Bloc che si allontanano indisturbati mentre appare la polizia che si avventa contro i manifestanti inermi, pacifici, a braccia alzate e, nella notte, contro i 93 ospiti della scuola Diaz che si preparano al sonno o nel garage Olimpo di Bolzaneto dove vennero ancora umiliati e torturati. Con il risultato che una generazione che, per la prima volta, scopriva la dimensione politica fu consegnata alla paura, alla solitudine, alla disillusione.

Dopo sette anni, la situazione non è diversa. Il governo è lo stesso, solo più lucido, determinato e coeso intorno alla figura del leader carismatico. Nelle strade c’è un nuovo movimento di giovani che rifiuta un progetto di ordine sociale che annuncia esclusioni e differenze, che si oppone alla caduta di ogni garanzia di eguaglianza. Che cosa faranno le burocrazie dello Stato? Che cosa faranno le polizie sospinte nello spazio stretto tra la politica e il diritto, tra la violenza e la legge? Il processo di Genova ci dice che in uno Stato che si presenta come questurino c’è chi è disponibile a un’illegalità criminale quando il dissidente diventa un “nemico” da annientare.

Sono buone ragioni per non accontentarsi di una sentenza, per non chiudere il “caso Genova” nel perimetro di un’aula giudiziaria. In un tempo di aspri conflitti sociali, già inquinati da un estremismo fascista che minaccia l’informazione, il sindacato dei lavoratori, le proteste sociali e le forme di dissenso, il Paese deve sapere se può contare su una polizia fedele alla Costituzione o dovrà fare i conti anche con una burocrazia della sicurezza gregaria di un governo che prevede il rischio assoluto, il conflitto continuo, lo “sfondamento”, una polizia sottomessa a un ordine capace di riservare all’interno del Paese la stessa ostilità che si riserva a un minaccioso “nemico” esterno.

Anche ora che la sentenza di Genova circoscrive le responsabilità a pochi “fuori di testa”, dalle forze dell’ordine dovrebbero giungere all’opinione pubblica limpide e inequivoche rassicurazioni. Chi ha a cuore la Costituzione, nelle istituzioni, nella società, nella politica, dovrebbe invocarle. Perché le sentenze per la Diaz e Bolzaneto più che rasserenare, inquietano. Più che medicare le ferite, le fanno ancora sanguinare.