EXTRA PAUPERES NULLA SALUS

da “Esodo” n. 3 del luglio-settembre 2008

1. Oggi molti di noi faticano a riconoscersi nell’affermazione “extra ecclesiam nulla salus”, un’affermazione che viene già messa in crisi nel vangelo, là dove Gesù contesta quanti presumono di avere la salvezza per aver fatto miracoli o profetato nel suo nome, per appartenenze religiose. E invece dichiara di essere stato soccorso da colui, che, pur non conoscendolo, ha soccorso un fratello.

Da dove dunque la salvezza? Se esco dalle astrattezze, devo riconoscere che la spinta alla conversione non mi è venuta dai documenti, ma dall’incontro con persone. In primis con creature che dal territorio della loro povertà mi riportavano al vangelo sine glossa, scrostandolo dalle incrostazioni con le quali lungo i secoli lo abbiamo addomesticato, fino al punto che si stenta a volte a riconoscervi il volto del Gesù della storia. Loro, i poveri, mi hanno raccontato il volto di Gesù, restituendogli la sua luminosità delle origini, la sorprendente novità del vangelo. Mi hanno insegnato che la salvezza non sta nel salvare la vita, ma nel perderla.

Penso come, per molti di noi, sia stata grazia di autentica conversione a Gesù e al suo vangelo la teologia della liberazione, penso alla forza che veniva dai teologi che avevano scelto un’altra cattedra, quella dei poveri del mondo, e soprattutto alla testimonianza di coloro che nei territori segnati dalle ingiustizie si sono fatti poveri con i poveri. Il sangue che ha dato forza alle nostre vene esaurite è venuto di lì, l’aria finalmente pulita l’abbiamo respirata incontrando loro. Ancora in questi giorni, ascoltando in una celebrazione uno di questi testimoni, osservando il suo volto smagrito, la tonaca che non aveva quasi corpo da contenere, un corpo che sembrava volare, perdendomi nei suoi occhi accesi e veri, ho misurato tutta l’artificiosità e la distanza di tante nostre istituzioni e, insieme, la bellezza e l’autenticità della chiesa dei poveri, la benedizione che ce ne viene ogni volta che l’incrociamo.

2. Prete minore, che significa? Il significato più immediato, ma forse il meno profondo, nasce dalla mia collocazione ecclesiale. “Minore” dice la non appartenenza ai gradi alti della gerarchia ecclesiastica. Quando parli, sei voce piccola, non hai titoli, se non quello del vangelo e della gente con cui cammini. La stessa tua fedeltà al vangelo e alla gente è fedeltà che senti “minore”. Ci vorrebbe ben altro per sentirsi fedele al vangelo e al popolo di Dio.

La qualifica “minore” prende subito un’accezione dunque più profonda, interiore. Un sentirsi “minore” dentro, sentirsi “meno” dentro, “piccolo” dentro.

3. Quale origine? Il vangelo, Francesco d’Assisi, esperienze di vita? Penso che nell’anelito a essere prete minore entri in gioco una sorta di affascinamento da più orizzonti. Il vangelo, innanzitutto, con quella parola dimenticata: “Non così dovrà essere tra di voi”; “I capi della nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra di voi, ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo e colui che vorrà essere il primo, si farà vostro schiavo, appunto come il Figlio dell’uomo che non è venuto per essere servito ma per servire” (Mt 20,25-28). Schiavo, l’ultimo di tutti. L’ultimo non ama i troni e i palazzi. I troni e i palazzi li abitano i dominatori del mondo.

C’è tutto un apparato ecclesiastico che fa a pugni con questa dimensione della minorità, dell’essere “ultimo”. Se ci è rimasto il timore di dissacrare le parole evangeliche svuotandole del loro sapore, possiamo forse con sincerità chiederci se la chiesa oggi viva nel mondo cercando veramente l’ultimo posto. Ma non per esibire la santità di chi, grande come è, dall’alto della sua presunta perfezione, si degna di dirsi minore, ma con la consapevolezza interiore, l’intima persuasione, di essere in realtà “poco”, di essere briciola, di essere vuoto. Uguale e non diversa dalla moltitudine dei piccoli della terra.

4. Il nome “minore”, che noi riserviamo nella sua bellezza più alta a Gesù di Nazaret, lui il “minore”, evoca in noi l’affascinamento di molti altri volti: in primis di Francesco d’Assisi. A volte mi chiedo perché il fascino di Francesco d’Assisi rimanga inalterato nel tempo, e perché non avvenga altrettanto per altri volti di santi, canonizzati nella nostra stagione ecclesiale. Non sarà anche, mi chiedo, perché in essi è meno riconoscibile, questa “minorità” evangelica, che richiama immediatamente il volto di Gesù di Nazaret, che “ha spogliato se stesso assumendo la condizione di servo”? (F1 2,7).

Una minorità che fa dire: passa il vangelo. Con questo uomo, con questa donna, passa il vangelo. Posso sbagliarmi, ma a volte penso che se tanti, forse troppi, “spettacoli” ecclesiastici più non ci turbano, è perché evitiamo la memoria di Gesù: sono spettacoli dove onorata è la grandezza mondana, onorato è il titolo di “maggiore”. Dove vanno gli onori della chiesa? Ce lo domandiamo? E dunque ancora per una fedeltà evangelica ci urge l’invito a essere minori.

5. Essere minori è caratteristica di tutti i cristiani. Se essere cristiani significa stare dietro a questo Maestro, Gesù di Nazaret, e non ad altri, stare dietro al “minore”.

Se poi mi si chiede se ci furono esperienze che mi aprirono gli occhi su questa parola essenziale del vangelo, potrei dire: tante. Una tra tutte quella di una bambina che un giorno mi chiese: “E ora chi mi parlerà sottovoce di Dio?”. Il sottovoce di chi si sente minore, a fronte della declamazione potente di chi si sente maggiore.

6. Che significa per la chiesa essere minore? Mi sembra significhi sentirsi “relativa” e non un assoluto. Non importante, relativa. Relativa a un Altro. Importante è un Altro che la chiesa è chiamata a indicare, un Altro di cui vorrebbe affascinare il cuore delle donne e degli uomini del suo tempo. Per la chiesa vuol dire sentirsi nella cerchia dei discepoli, non un gradino più su. E non farsi chiamare maestra, fedele al monito, purtroppo dimenticato, di Gesù, che diceva: “Ma voi non fatevi chiamare rabbì, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli” (Mt 23,8).

Ancora significa prendere l’ultimo posto e servire, lavare i piedi, i piedi gonfi di stanchezza di una moltitudine di fratelli e sorelle. Non i piedi già lavati e profumati di coloro che sono chiamati alla lavanda dei piedi del giovedì santo, ma quelli sporchi di sabbia di coloro che camminano ogni giorno con noi.

7. Chiesa povera, chiesa dei poveri? Chiesa povera è una chiesa che confida solo nel suo Signore. Anzi, proprio la sua povertà è segno luminoso che essa confida in Dio e non nell’oro, non nella protezione dei potenti. Altrimenti è strabismo: è dire, a parole, che la propria fiducia è in Dio e, nella prassi, circondarsi di sicurezze mandane.

Sto esagerando, ma oggi il sostantivo “povertà” riferito alla chiesa , l’aggettivo “povera” detto della chiesa sembrano usciti dal vocabolario ecclesiastico, quasi non se ne parla. I tempi, in cui al Concilio alcuni Padri si riunirono per proporre a se stessi e alla chiesa una dimensione evangelica autentica di povertà, sembrano lontani anni luce, molto lontani. Sembrano i tempi di un’utopia cancellata. Dove l’immagine della chiesa povera, visibilmente povera, se non in poche minoranze? In territori di margine, se non di esilio?

Suonano lontane le parole con cui il Concilio interpellava la chiesa, e non solo i singoli credenti, nella costituzione Lumen gentium: “Come Gesù ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza”. Prendere la stessa via! Del Gesù povero e perseguitato.

Non si vuole qui accreditare per la chiesa fenomeni di pauperismo, ma non si vuole neppure accedere all’opinione che la povertà sia un fatto marginale, una questione tutt’al più di stile, e quindi no
n essenziale. Poco ci si ferma a pensare che, a volte, lo stile fa tutt’uno con il messaggio: uno stile potente, ricco, supergarantito, è tradimento dell’immagine del Dio che si spoglia. Questa sì notizia buona, notizia che racconta la discesa di un Dio che ama e annulla la distanza, di un Dio che dice beati i poveri in spirito. Uno stile potente, ricco, supergarantito è tradimento della notizia buona del vangelo per la quale i poveri ora passano avanti, perché i criteri di Dio sono diversi. Una chiesa che siede con i potenti, che cerca protezioni, che insegue riconoscimenti e glorie terrene, che notizia potrebbe rappresentare per il mondo? Non farebbe che riprodurre ossessivamente stili di pensiero e di vita ampiamente abusati, i vecchi criteri dei dominatori del mondo, modi di sentire che tutti purtroppo conosciamo e sui quali, per giusto doveroso pudore, dovremmo tacere il nome di Dio.

Passata l’immagine di una chiesa trionfante sulla terra, instrumentum regni, basterebbe che ci chiedessimo quali sono le immagini che si accendono nell’immaginario collettivo al pronunciarsi della parola “chiesa”. Immediatamente vengono a occupare la ribalta le figure del Papa, dei Cardinali, dei Vescovi, le immagini prepotenti delle assemblee prestigiose e colorate, delle celebrazioni spettacolari. Quando mai la parola “chiesa” evoca la chiesa “minore”? Quella che vive nel silenzio delle parrocchie, quella che cammina ogni giorno con la gente, condividendo gioie e tristezze, fatiche e speranze, chiesa dell’ascolto prima che della parola, chiesa che, come il suo pastore, prova compassione, che non ha nulla a che fare con coloro che caricano di pesi insopportabili i poveri e gli oppressi, chiesa che ne rivendica la dignità, perché ogni essere vivente porta in sé l’immagine di Dio, chiesa che non ha la fretta dei documenti, ma conosce l’arte di rallentare il passo, perché porta nel suo cuore la fatica dell’ultima pecora, quella gravida e quella ferita. Solo una chiesa minore potrà essere con i minori, la chiesa maggiore potrà solo dettare pronunciamenti dall’alto.

8. A volte ci chiediamo, con un po’ di tristezza, che cosa sia rimasto di quel brivido di profezia, di quell’anelito prorompente a un ritorno al vangelo, che ci fece vibrare intensamente nella stagione del Concilio. Ci chiediamo se i nostri non siano diventati i giorni di uno spietato spento realismo. Non vogliamo negare che in quegli anni in parte forse ci abbia anche sedotti una certa dose di ingenuità, ma ora sembriamo navigare tra parole spente e mondane. Anche la chiesa sedotta dalla sicurezza. Cancellando così la lezione dei poveri, detti beati perché loro la sicurezza la mettono in Dio.

Ricordo che un giovane prete, mio amico, in questi giorni in cui si fa un gran parlare di sicurezza, mi confidava di aver posto alla sua gente, una domenica, questa domanda: “ma secondo voi, la parola sicurezza è una parola evangelica?”. I poveri ci insegnano altro. Ma noi i poveri purtroppo li abbiamo ricondotti all’immagine di persone da assistere, lontani dall’immagine di “minori” da cui apprendere, da ascoltare, perché ad essi, se ancora diamo credito alle parole di Gesù, sono stati rivelati i segreti del regno (cfr. Mt 11,25-28). E dunque sai dove scavare per trovare i segreti del regno. Nei minori. A qualsiasi terra appartengano.

don Angelo