La politica dei tempi non viene mai considerata un anello importante nella catena delle riforme

di Ileana Montini
da www.womenews.net

L’indagine Istat sull’uso del tempo del 2003 ha evidenziato, di nuovo, la marcata divisione del lavoro di genere tra produzione domestica e produzione per il mercato.

L’Italia si conferma il Paese più arretrato in fatto di politiche di conciliazione tra lavoro domestico o di cura e lavoro nell’ambito pubblico. Quando si forma una coppia l’aspetto più rilevante è che l’incremento nelle ore lavorate grava soprattutto sulle donne.

Luisa Rosti della Facoltà di Economia dell’Università di Pavia, ha scritto recentemente (Neodemos 30.10.08) che “il tempo complessivamente dedicato al lavoro dalle nubili non è molto maggiore di quello dedicato al lavoro dagli scapoli (18,0% contro 17,4 %), ma aumenta in maniera differenziata dopo il matrimonio, diventando il 33% e il 24% della giornata, rispettivamente, di una donna e di uomo.”

In perfetto accordo con il sociologo Maurizio Ferrera (Il fattore D, ed. Mondadori 2008), l’autrice afferma che la società sopporta un costo come conseguenza della mentalità che impone alle donne un sottoutilizzo delle loro capacità.

In Italia lavora il 46 % delle donne di cui una buona parte nella scuola e mentre negli altri Paesi dell’Europa l’occupazione aumenta al crescere dell’età dei figli, in Italia diminuisce.
Soltanto il 30% di donne riprende a lavorare dopo aver avuto un figlio; fenomeno più diffuso nel Sud e tra le donne con livelli d’istruzione bassa.

Quando una donna entra nel mercato del lavoro ufficiale, il suo lavoro entra nel PIL, perché la retribuzione sarà una delle grandezze conteggiate dalle statistiche.
In Svezia e Danimarca i tassi di occupazione femminile si sono quasi allineati a quelli maschili e il contributo in termini di PIL è stato più importante dell’aumento degli investimenti in capitale o della produttività.
E’ curioso che i nostri politici preoccupati dell’andamento critico –recessivo- dell’economia italiana, non facciano mai riferimento all’occupazione femminile in termini di crescita economica.

M.Ferrera ci spiega come la famiglia in cui entrambi i partner lavorano, sia una grande consumatrice potenziale di servizi. E poiché i servizi generano altri servizi, la famiglia a doppio reddito agisce come un volano di attività economiche e anche di posti di lavoro.
Nel 1999 Kathy Matsui, ricercatrice della Goldman Sacchs, coniò il termine womennomics , per indicare l’economia delle donne che funziona come un lievito perché “espande il volume della torta senza bisogno di aggiungere altri ingredienti.”

Fuor di metafora il lavoro delle donne agisce sull’occupazione, sui consumi, sugli investimenti e sull’innovazione.
E’ un’occupazione che porta altra occupazione perché le famiglie a doppio reddito acquistano molti più servizi. Le statistiche ci dicono che l’Italia ha un forte deficit di occupati proprio nel settore dei servizi alle famiglie, con un 20% di meno rispetto a Paesi come gli Usa, l’Olanda, l’Inghilterra, ecc.

La “scarsità di servizi è collegata alla bassa partecipazione femminile, che a sua volta è collegata alla scarsità di servizi”.
In Italia ci si lamenta per la crescita vicino allo zero a causa della bassa natalità e le trovate degli enti locali di Destra sono quelle di regalare un bonus alle coppie per invogliarle a fare figli.

Come recentemente la nuova amministrazione di Destra a Brescia che ha varato 1000 euro alle coppie residenti, escluse quelle straniere in quanto non avrebbero bisogno di incentivi: loro i figli li fanno, eccome. Una manovra tipicamente cattolica perché è implicito il carico fisico e morale conferito alle donne, perché si appella all’aspetto donativo totale, letto magari anche come un vivo desiderio: “quando le donne possono, preferiscono stare a casa con i figli piccoli!”

M.Ferrera ci ricorda che il tasso di fecondità dovrebbe mantenersi costante intorno al 2,1 figli per donna. Noi siamo ben al di sotto di questa percentuale che garantirebbe il declino demografico del Paese. Chiara Saraceno da tempo sostiene che siamo affetti da un “familismo ambiguo”: ponendo al “centro” della società la famiglia, mentre le politiche di welfare si mantengono lontane dal sostenerne le funzioni.
In Scandinavia ci sono gli asili aperti 24 su 24 ore. In Francia è molto avanzata la politica degli asili aziendali.
I nostri politici conoscono il modello Lego?

Il modello Ford, ci spiega sempre Ferrera, ruota intorno alla grande fabbrica che mette al centro il lavoratore maschio con l’obiettivo di sussidiare il non lavoro tramite indennità e pensioni: in caso di malattia, disoccupazione, invalidità e vecchiaia. Il modello Lego mette al centro gli individui, dunque le donne e i bambini sostenendo l’intero ciclo di vita, con particolare attenzione all’infanzia.

E’ stata una donna, una studiosa di Montreal di nome Jane Jenson, a rilevare che è ora di superare il modello fordista.
Nel modello Lego ( dei pezzi Lego dei giochi per bambini) l’apprendimento ha un ruolo fondamentale in tutte le fasi della vita. E dà molta importanza al lavoro delle donne e alle politiche di sostegno alle famiglie a doppio reddito. Con la convinzione che frequentare l’asilo fa bene prima di tutto ai bambini, mentre dalle nostre parti sono visti con sospetto (cattolico): “ i figli starebbero meglio a casa con le loro mamma e dunque (questa è la conclusione spesso implicita del ragionamento) il lavoro delle mamme toglie qualcosa ai figli“.

Da noi le giovani donne continuano a sentirsi in colpa quando desiderano mantenere il lavoro alla nascita di un figlio. Anche perché comunque a rincarare la dose ci pensano mamme suocere e, più spesso di quanto si pensi, psicoanalisti/e psicoterapeuti.

La legge Gelmini della scuola prevede un taglio occupazionale di 87.400 insegnanti in meno di tre anni. Ora, dato che le donne costituiscono l’81,1 degli insegnanti, vorrà dire diminuzione ulteriore dell’occupazione femminile.
La concentrazione di donne nell’insegnamento è una” segregazione occupazionale” che ha garantito maggiori possibilità di conciliazione. Pertanto, i tagli all’orario scolastico (l’art.4 prevede 24 ore settimanali) avranno come conseguenza ricadute pesanti sulle donne con figli. Il tempo pieno, tra l’altro, significava un punto di partenza paritario tra i coniugi: se si riduce ci sarà bisogno di una persona che si occupi dei figli. Un secco ritorno al passato.

In questi giorni le giovani donne studentesse nelle università stanno riunendosi in “collettivi” di genere. perché si rendono conto che le conseguenze dei tagli ricadrà più pesantemente sul loro futuro. Ma i politici – a sinistra- sembrano ignorare le differenze di genere e d’altronde una vera politica, per superare il fatto che solo undici bambini su cento vanno al nido in Italia e che nel Sud la disponibilità di nidi copre il 2%, non è mai stata messa seriamente in cantiere.

In altri termini “la politica dei tempi” non è mai stata considerata un anello importante nella catena delle riforme. Segno evidente che la mentalità familistica che pone la donna madre-moglie come perno essenziale del mantenimento dei “valori” è ancora centrale.
In una trasmissione recente in TV dopo che Katia Belillo (unica tra i presenti) aveva spiegato l’influenza negativa della Chiesa in fatto di occupazione femminile, il ministro ex Dc Rotondi intervenne offeso (in quanto cattolico) dicendo che la religione Cattolica è l’unìca ad aver posto al centro una figura femminile.
Appunto, la Madonna è stata usata proprio per incentivare l’oblatività femminile .

Non sarebbe male che le psicoanaliste e le psicoterapeute ( a proposito di recenti articoli su Il Paese delle donne), nel loro proposito di riprendersi in mano le teorie dei padri Freud, Jung, Lacan e compagnia, tenessero in conto la formazione degli psicologi così aliena a fare i conti con la
realtà sopra descritta.
Ovvero: anche le addette ai lavori della mente tendono a fissarsi sull’intrapsichico come dato immobile, astratto; snobbando una formazione sociologica, politica e antropologica.