Franzoni e la chiesa dei poveri

di Marco Simoni
da l’Unità di sabato 8 novembre 2008

Si chiama «Il laboratorio di religione» la riunione di Giovanni Franzoni con i bambini, la domenica prima della messa. Non c’è alcuna dottrina da imparare, piuttosto da riflettere sul significato della scelta di fede e delle responsabilità che porta con sé.

Ho un ricordo di ore veloci, passate ad ascoltare e discutere sui temi più diversi. Una volta Giovanni, come sempre l’abbiamo chiamato in comunità mentre per alcuni è sempre dom Franzoni, ci spiegava la distinzione tra profeti autentici, vicini alle persone semplici, e i profeti pagati dal principe, dal potere.

Anche da bambino, ero interessato al mio tempo e non capivo perché Dio avesse mandato profeti solo nell’antico Israele. Giovanni accolse l’obiezione e passammo alcune settimane a farci raccontare e leggere di profeti contemporanei: tra gli altri, don Milani, monsignor Romero, Martin Luther King. Giovanni Franzoni siede certamente tra loro, anche se è ben più giovane compiendo solo ottant’anni in questi giorni. Nessuno tra quelli che la conoscono avrebbe dubbi sul valore profetico della sua vita, della sua fede, del suo pensiero.

Nella Comunità di base di San Paolo a Roma, di cui è tra i fondatori, la messa è servita collettivamente. Ci sono molte voci autorevoli, ma ogni voce ha il suo spazio, anche se appena arrivata. Non c’è un pastore fisso, o una gerarchia strutturata. Chi vuole può alzarsi e condividere le sue preghiere o il suo pensiero sulle letture della Bibbia e sui fatti del tempo corrente. Naturalmente

si recita il Padre Nostro e si spezza il pane, come fanno i cristiani in tutto il mondo. La comunità, mi spiega Giovanni Franzoni, è parte della Chiesa, ma sta ai suoi margini. È appena tollerata dalla Curia romana, ma ha molti amici e fratelli sparsi in tutto il mondo.

Da quando, nel 1974, si è dimesso da abate di San Paolo fuori le mura, una carica che ha il rango di delegato diretto del Papa, la comunità si riunisce in dei locali molto semplici al 152 di via Ostiense a Roma.

La riflessione del Concilio Vaticano II, punto di partenza di questa esperienza, aveva un senso carico di valore per l’impegno politico e sociale. La chiesa dei poveri non poteva non porsi il problema delle cause che generavano marginalità e oppressione. Non bastava più la purezza dogmatica, era necessaria l’azione. Era il tempo della teologia della liberazione, dei cristiani di base, esperienze che più recentemente hanno contribuito al movimento «Noi siamo Chiesa» che chiede alle gerarchie maggiore partecipazione, apertura e tolleranza, il sacerdozio femminile.

Vivere col Vangelo in una mano e il quotidiano nell’altra, era uno dei motti tipici degli esordi. Eppure i cattolici in politica, osservo, sono associati ai conservatori, alla destra. Non è vero, mi corregge Giovanni Franzoni, Joe Biden, il vice di Obama, per esempio è un cattolico aperto e progressista. Tuttavia, insiste, è giusta una grande prudenza nell’usare la propria fede come una bandiera. Noi non vogliamo strumentalizzare l’aggettivo «cristiano» per una posizione politica.

La scelta di fede non è razionale, ma deriva da una esperienza religiosa personale. L’esperienza di fede porta all’assunzione di responsabilità, mala responsabilità politica e sociale va impiegata laicamente, anche perché il percorso sarà condiviso con persone di altri fedi o nessuna.

A ottant’anni Giovanni Franzoni continua ad essere impegnato come sempre. Sta lavorando al quarto volume della sua opera omnia, porta avanti un progetto per costruire una centrale fotovoltaica ed eolica in un ospedale di Gaza. C’è poi la comunità e il laboratorio con i bambini.

Gli chiedo di dire qualcosa alle persone che lo hanno ascoltato e letto, rimanendone ispirate e mosse. Non sono per l’amore da ricambiare, mi dice, sono per l’amore solare. Sono per l’irradiazione e non il circolo chiuso. Se qualcosa ho dato, vorrei che chi ha ricevuto trovi il modo di dare a sua volta.

Dice: bisogna rievocare le motivazioni, coltivare l’autonomia personale, e la maturazione delle proprie scelte. In questo tempo dominato dalla paura e dall’angoscia, non abbiamo bisogno di leader, ma di responsabilità. A ottant’anni si pensa a quando si verrà meno, conclude sorridendo.

Spero che ciò non abbia alcun impatto sull’impegno collettivo, il cui motore deve ormai essere indipendente da me. Come esseri umani dobbiamo cercare di costruire qualcosa di positivo, sempre ridendo, e rimanendo capaci di ascoltare la felicità della natura.