Il diritto di essere un bambino. Storia di una donna palestinese, madre di cinque figli, nel campo di Beit Jibrin

di Caterina Donattini
da peacereporter.net

Amal è madre di cinque figli. Due femmine e tre maschi. Amal è madre di un sesto figlio morto prima d’esser nato: successe durante la prima Intifada, nella sua casa irruppero i gas lacrimogeni israeliani e nulla poterono le pareti del suo ventre di fronte alla guerra. Fu così che al quinto mese di gravidanza i gas lacrimogeni la fecero abortire, là a Betlemme, vicino a dove si dice sia nato il bambino Gesù.

Amal è palestinese e vive a Beit Jibrin, uno dei tre campi rifugiati di Betlemme. Ero con lei giovedì 30 ottobre, di sera, quando le forze armate israeliane hanno accerchiato il campo rifugiati. Io e una delle sue figlie siamo andate tra i vicoli del campo, nell’umido della pioggia, tra il fumo e gli spari, per rintracciare il fratello minore e trascinarlo a casa. Era in un angolo, di fianco ad un mucchio di pietre, insieme a tanti altri ragazzini come lui, convinti di poter sfidare quei soldati che venivano armati a ricordare l’occupazione ad un popolo oppresso. Quando siamo rientrati la madre lo ha coperto di improperi. Nel campo rifugiati ci sono collaborazionisti: “Guarda i tuoi fratelli! Vuoi finire anche tu in prigione? Cretino!”. Amal ha tre figli maschi: uno di 18 anni, adesso in prigione; uno di 27, uscito di prigione l’anno scorso; e poi Moeyyed, 15 anni, ancora sano e salvo, a casa.

La preoccupazione di Amal non era infondata. Il pomeriggio seguente l’Autorità Palestinese ha bussato alla sua porta: “Tuo figlio Moeyyed è ricercato, insieme a lui altri quattro quindicenni nel campo”. Sono stati tutti interrogati e poi rilasciati il giorno dopo. Il 3 novembre 2008 alle 3 del mattino si odono colpi violenti alla porta di casa. Amal accorre terrorizzata e apre la porta: un fucile la spinge da un lato mentre altri 7 fucili spianati entrano in casa; 8 soldati israeliani a volto coperto nel cuore della notte, nuovamente, nel suo salotto. Tutta la famiglia viene riunita in una stanza, i soldati frugano ovunque, rovesciano gli scaffali, aprono gli armadi. Poi uno ldi loro chiede: “Chi è Moeyyed?” Dopo un lungo silenzio Amal lo indica: è lui, quel suo figlio quindicenne in calzini e maglietta, con gli occhi ancora segnati dal sonno. “Vi scongiuro, cosa ha fatto, è un bambino, non portatemelo via!”

Oggi non si sa nulla di Moeyyed. Per 12 giorni verrà interrogato a bastonate. La legge israeliana prevede che Moeyyed possa essere interrogato e detenuto per 12 giorni senza conoscere l’accusa contro di lui, senza consultare un avvocato e senza che i suoi genitori sappiano dove si trovi e possano visitarlo. La prassi israeliana prevede comunemente l’arresto di minorenni. L’Ong a sostegno dei detenuti palestinesi, Addameer, riporta che il 30 ottobre soldati israeliani sono entrati in una scuola superiore del campo rifugiati di Aroub nella zona di Hebron picchiando, ammanettando, incappucciando ed infine arrestando 10 ragazzini, tutti sotto i 16 anni. A volte la loro colpa è quella di lanciare pietre contro i carri armati israeliani, ma spesso il loro arresto serve ad ottenere indicazioni su persone coinvolte nella resistenza, ultimamente anche con la collaborazione dell’Autorità Palestinese. I bambini infatti hanno minore resistenza durante gli interrogatori. Il semplice fatto di far parte di un partito costituisce nei territori occupati un motivo sufficiente per rimanere in prigione fino a due anni.

La Convenzione Internazionale sui Diritti dei Bambini ribadisce il diritto all’assistenza legale e chiede di evitare la detenzione dei bambini. Nonostante questo i diritti dei bambini palestinesi sono costantemente violati. Secondo uno studio dell’Unrwa condotto nel 2004 in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, quasi la metà dei bambini residenti in questi territori (48%) ha subito violenza diretta o indiretta. Il 93% dei bambini dichiara di sentirsi vulnerabile ed esposto a subire violenze. Il 59% degli adolescenti tra i 13 e i 17 anni ha dichiarato di ritenere i propri genitori incapaci di proteggerli. Dall’inizio del 2000 fino al 2005 più di 756 bambini palestinesi sono stati uccisi, 2500 bambini sono stati imprigionati. Secondo Defence for Children International “circa il 95% dei bambini arrestati e/o detenuti sono stati soggetti ad abuso fisico e/o psicologico, spesso risultante in chiare forme di tortura”. Anche il Comitato Internazionale contro la Tortura si è detto preoccupato per le denuncie di “tortura e maltrattamenti subiti dai minori palestinesi detenuti”.

Nella legislazione israeliana la definizione di bambino cambia a seconda che si tratti di un soggetto palestinese o israeliano: nel primo caso si è bambini fino ai 16 anni, nel secondo fino ai 18. Questa madre palestinese che piange con gli occhi di una donna cui troppi figli sono stati strappati, rivendica ogni giorno da quando le hanno portato via Moeyyed il diritto di chiamarlo “bambino”