San Paolo dimenticato

di Adriano Prosperi
da Repubblica, 25 novembre 2008

Ieri in Italia, oggi in Spagna. Rovesciando la celebre frase che Carlo Rosselli pronunziò nell ́appello dalla radio di Barcellona il 13 novembre 1936 avremo la fotografia del rapporto storico fra Italia e Spagna nella questione della presenza dei crocifissi nelle aule. La questione ha avuto un preambolo italiano. Qualcuno ricorderà la discussione che si accese in Italia nel 1988 intorno al caso di un’insegnante che in provincia di Cuneo aveva tolto dall’aula scolastica il crocifisso. In quell’occasione il quotidiano dell’allora Partito comunista italiano, l’Unità, ospitò un denso e commovente intervento di Natalia Ginzburg dal titolo significativo: «Non togliete quel crocifisso: è il segno del dolore umano». Il crocifisso fu riappeso nell’aula. Il linguaggio dell’umanità offesa, del dolore e della morte poteva ancora parlare con simboli cristiani. Questa la ragione che allora apparve persuasiva, al di là delle convenienze di partito e delle ipocrisie politiche e civili.

Oggi la situazione è diversa. Il crocifisso ci viene presentato come un promemoria identitario, l’insegna di un’Europa che da qui dovrebbe prendere coscienza della sua diversità per affrontare lo scontro con altre culture e altre religioni. Nel repertorio storico delle immagini elaborate dalla tradizione cristiana del passato, ci sono precedenti molto eloquenti di un uso del genere: la croce era dipinta sulle sopravvesti dei crociati nelle guerre per la riconquista della Terra Santa e sulle tuniche di quei Crocesignati che andavano a caccia di eretici al servizio del tribunale dell’Inquisizione. Un uso aggressivo, come aggressivo è il linguaggio del corsivista dell’Osservatore Romano quando definisce chi propone di toglierlo dalle scuole come uno scorpione che si uccide col proprio veleno.

Eppure una considerazione più pacata della storia che abbiamo alle spalle dovrebbe ricordare al corsivista i tempi in cui in nome dell’identità cristiana e sotto il simbolo della croce furono maturati i delitti più terribili dell’intolleranza religiosa. Nell’”auto da fé”, il teatro della fede che celebrava i suoi riti sulla Plaza Mayor di Madrid durante i secoli dell’età moderna, i condannati bruciavano sul rogo in una piazza dominata da grandi croci portate in processione.

Non è questa l’identità europea che vorremmo riproporre ai bambini delle nostre scuole. E non vorremmo essere costretti a discutere della presenza o dell’assenza di un simbolo religioso assistendo agli schieramenti strumentali di partiti politici che amano riscuotere l’appoggio delle autorità ecclesiastiche. La storia è lunga e dall’epoca dei roghi di eretici e di ebrei convertiti a forza ci divide la nascita di stati moderni che hanno diviso nettamente l’ambito dei diritti del cittadino da quello delle convinzioni religiose. Una durata ben più che secolare è quella che ci separa dalla
formula famosa di Cavour: libera Chiesa in libero Stato. Sarà bene che i governanti del nostro paese lo tengano presente.

L’imposizione del crocifisso nelle scuole è realtà tarda. In Spagna data dal 1930 ma, anche se i capi di governo giurano fedeltà alla costituzione davanti a un crocifisso, la costituzione del 1978 ha garantito il carattere non confessionale dello Stato. L’Italia repubblicana lo aveva fatto molto prima. E alle spalle della riforma Gentile e della lunga notte fascista c’era stata l’epoca dello Stato liberale: fu allora che dalla scuola e per la scuola nacquero libri che oggi riteniamo dei classici della letteratura dove si cercherebbe invano la menzione di simboli e di riferimenti religiosi: si pensi a Cuore di De Amicis o a Pinocchio di Collodi (anche se tra il burattino di legno e il Cristo dei Vangeli c’è chi ha trovato qualche analogia).

Oggi il nesso creato nei decenni del regime fascista tra i simboli statali e quelli religiosi è stato ereditato dalla Repubblica. Il risultato è che nella scuola pubblica di un paese moderno dove vige la norma costituzionale della libertà religiosa si insegna una sola religione, per opera di insegnanti delegati dai vescovi cattolici. L’Italia dei nostri giorni guarda al caso spagnolo da una posizione arretrata, come un paese stanco e impoverito.

Come ci ricordano i terribili casi di studenti che muoiono per i crolli degli edifici scolastici, il problema immediato della scuola non è tanto quello dei simboli appesi alle pareti scolastiche ma quello della solidità delle pareti e della tenuta delle strutture edilizie. Un problema antico, oggi aggravato dalle sordità legislative e dalle carenze finanziarie con cui il governo si trova a fronteggiare l’emergenza. È più facile cancellare con un tratto di penna le scuole di montagna, i maestri in soprannumero, le cattedre di ogni tipo, che affrontare i problemi strutturali dell’insegnamento. Ma una cosa deve essere chiara: tra i problemi strutturali non c’è solo quello della solidità delle mura e della stabilità dei soffitti.

C’è anche quello di rispondere alla domanda se la nazione debba riconoscersi in un unico simbolo religioso ? la nazione tutta, fatta di cattolici e di protestanti, di mussulmani e di buddisti, di agnostici e di atei, devoti o meno che siano: fatta di cristiani che amano rievocare lo spirito delle Crociate e di cristiani che mal tollerano l’esibizione pubblica in luoghi impropri di immagini e pensieri che custodiscono nel cuore e nella mente e a cui danno un valore di fraternità e di accoglienza verso il mondo intero.

Perché questo è il punto: chi vuole annettere il simbolo del cristianesimo a una specifica cultura dimentica l’originario carattere universale dell’annuncio del cristianesimo. San Paolo rivolgeva la sua predicazione “a tutti i popoli”(Rom. 1, 5) e ricordava che davanti al suo Dio non c’era distinzione di ebrei, greci o romani, né barriere di lingua o di cultura.