IL SIGNIFICATO DI MUMBAI

di Justin Raimondo
da www.antiwar.com

Il massacro di Mumbai arriva nel momento in cui gli USA nella dichiarata guerra “generazionale”al terrorismo, stanno per spostare il campo di battaglia dal Medio Oriente all’Asia meridionale. Mentre spostiamo le nostre forze verso est in Afghanistan ed inevitabilmente, in Pakistan gli avvenimenti di Mumbai accendono lo scenario geopolitico come un lampo a mezzanotte, facendo presagire un nuovo e forse maggiore pantano di quello che ci stiamo presumibilmente lasciando alle spalle in Irak. Dimentichiamoci delle differenze tra i Sunniti e gli Sciiti. Quello è un capitolo chiuso. Adesso nella rivalità tra Indiani e Pakistani abbiamo a che vedere con una vera e propria guerra di civiltà, che scaglia i Musulmani contro gli Induisti.

L’11 settembre indiano: lo chiamano così, e il paragone è calzante per alcuni aspetti, particolarmente per quanto concerne i preavvisi. Dopo il più grande attacco terroristico della storia degli USA, è venuto alla luce che il governo statunitense aveva ricevuto informazioni che avrebbero potuto indurlo ad essere più vigile o a prendere determinate misure preventive. Nel caso di Mumbai comunque, gli avvertimenti erano piuttosto specifici: gli Indiani erano stati apparentemente informati che fosse imminente un attacco da parte di terroristi con postazione in acqua sugli hotel di Mumbai – compreso il Taj Hotel, dove ha avuto luogo molto dell’azione. Il dato più indicativo è senza dubbio il fatto che la polizia indiana è semplicemente scappata per mettersi al riparo, anche se è difficile credere quello che se ne può dedurre. Può essere davvero possibile che un avvertimento così specifico possa essere stato ignorato?

A seguito: ”Nell’Asia meridionale si addensa una strana tempesta” ( M.K. Bhadrakumar, Asia Times);

Si spera che l’analogia con l’11 settembre non comprenda anche la ripetizione della nostra reazione al più grande attacco terroristico della nostra storia – l’inizio di una guerra senza fine, che ci ha trascinato nelle terre selvagge del Waziristan ed ora, nelle impenetrabili profondità della divisione tra Musulmani e Induisti.

Ulteriori paralleli con l’11 settembre – se ricorderete la reazione immediata del “War Party” [Partito della Guerra] fu di collegare gli attacchi al World Trade Centre e al Pentagono con l’Irak di Saddam Hussein. Oggi la risposta riflessiva degli stessi dichiarati “esperti” è di puntare il dito contro il Pakistan. Si potrebbe immaginare che il ridimensionamento del nesso Saddam-Osama potrebbe frenarli, ma no davvero. La fabbricazione di un fondamento logico a giustificazione della guerra procede con stupefacente celerità.

Secondo il rapporto degli Indiani i terroristi hanno lasciato un telefono satellitare a bordo dell’imbarcazione che hanno dirottato. Sono stati identificati cinque individui che hanno effettuato chiamate, di cui almeno tre sono associati a Lashkar-e-Taiba, un gruppo fondamentalista musulmano che cerca di “liberare” il Kashmir dalla dominazione indiana. Ciononostante gli Indiani hanno un elenco di sospetti molto più lungo, 20 in tutto. Il Wall Street Journal riferisce:
v “L’India ha inoltre detto al Pakistan che gli attacchi sono stati approvati da Hafiz Mohammed Saeed, capo di Jamaat ud Dawa, l’organizzazione madre di Lashkar-e-Taiba. Saeed ha negato l’accusa che il suo gruppo fosse coinvolto. Durante un’intervista rilasciata alla GEO News, un canale televisivo privato pakistano Saeed ha detto‘l’India mi ha sempre accusato senza prove’”.

Nell’attribuire la responsabilità per gli orrori di Mumbai, entriamo in un nebuloso mondo di ambivalenze. Lashkar-e-Taiba è ritenuto affiliato in qualche vago modo ad elementi “corrotti” dell’intelligence pakistana, che è a sua volta connessa ai talebani, protettori e alleati di al-Quaeda. Il “War Party” sfodera la sua genealogia del terrorismo come fosse una scienza esatta la cui precisione tuttavia, viene messa in serio dubbio quando si guarda un po’ più da vicino tale presunta “organizzazione madre” di Lashkar-e-Taiba – che a quanto pare non era un’organizzazione terroristica quando era impegnata a lavorare accanto alle truppe di soccorso americane per aiutare le vittime del terremoto che ha devastato Pakistan ed India nel 2005.

Le splendide storie sfornate da chi fa propaganda di guerra per razionalizzare gli atti di sterminio di massa sono una parte importante di qualsiasi campagna mirata a far scoppiare un conflitto, quindi devono essere minimamente convincenti, o perlomeno credibili. Eppure la storia raccontata dal governo indiano è francamente incredibile. I terroristi avrebbero lasciato un telefono satellitare convenientemente piazzato accanto alla salma del capitano della nave, che era stato sgozzato, con i numeri dei loro addestratori registrati in memoria. Molto conveniente. Tuttavia è ancor meno convincente l’asserzione che Ajmal Kasab, unico sopravvissuto del gruppo dei terroristi abbia continuato a ricevere messaggi dai suoi addestratori anche dopo essere stato catturato. Questa piccola aggiunta, a mio parere rovina lo spettacolo. Si aggiunga a questo il ruolo dell’apparato di sicurezza indiano stranamente impreparato – se non negligente a livello criminale, e l’intera faccenda puzza di marcio. Dire “inverosimile” è dire poco.

L’effetto del massacro di Mumbai sulla politica indiana è un’altra possibile analogia con l’11 settembre, che ha dato potere ai neocon ed ha catapultato i peggiori guerrafondai all’apice della burocrazia della sicurezza nazionale. Nel caso dell’India dove si terranno presto le elezioni, siamo preparati alla vittoria elettorale del movimento politico più agguerritamente nazionalistico e sciovinistico della nazione, il Bharatiya Janata Party (BJP).

Il BJP è l’espressione politica del movimento Hindutva, una versione fondamentalista dell’Induismo tradizionale che fa risalire la genealogia della “razza” indiana alle vecchie incursioni degli Ariani dal nord. Secondo gli ideologi dell’Hindutva la loro razza avrebbe avuto origine dal Polo Nord ed era originariamente – nella sua forma “pura”- una tribù di Ariani biondi con occhi azzurri. Di conseguenza il leader della loro organizzazione centrale ovvero la Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS) deve essere un biondo Saraswat Brahmin dagli occhi azzurri. L’obiettivo di questo movimento come pure di tutti gli altri movimenti fascisti ovunque, è il recupero della gloria perduta di un passato quasi mitico, e nella fattispecie la restaurazione dell’antico impero indù.

Il grande problema del governo indiano è stato la mancanza di coesione del paese. L’incapacità del Congress Party di unire la nazione secondo un modello secolare-federalistico e il persistere del separatismo locale ha aperto la strada al BJP per unire la nazione su un’altra base: il nazionalismo estremo fomentato dal fanatismo religioso, ossia il fondamentalismo induista.
v Il BJP ha guadagnato importanza grazie alle sommosse popolari provocate dalle bande guidate dal partito [stesso] che hanno portato alla distruzione di una moschea locale. Il governo municipale del BJP ha demolito le rovine dell’edificio costruendo un tempio induista in quel luogo, creduto il luogo di nascita del dio indù Ram. Tali disordini pubblici hanno causato la morte di 1200 persone, per lo più musulmani, uno schema di violenza comune che si riaffermerà di certo dopo Mumbai. Temo che anche il BJP si riaffermerà: dopo aver perso l’incarico quattro anni fa, i pazzi del BJP marceranno di nuovo al potere e questa volta molto probabilmente con una maggioranza decisiva. Nell’ultimo governo a cui hanno partecipato il ministro della difesa Gorge Fernandes, ha apertamente vantato che l’India avrebbe “vinto” uno scontro nucleare con il Pakistan, dichiarando:
v “Potremmo subire un attacco, sopravvivere e poi passare al contrattacco. Sarebbe la fine per il Paki
stan. Non temo realmente che la questione nucleare figuri in un conflitto”

Il governo del primo ministro Manmohan Singh si sta arrabattando per spiegare la propria passività di fronte a quello che sembra un attacco da parte di forze esterne. Singh è un tecnocrata pacato e introspettivo, il cui punto forte è stato lo scioglimento della soffocante rete del colosso burocratico del suo paese, come pure l’aver dato nuovo vigore al motore dell’economia. Tuttavia di fronte a questa crisi si trova a dover affrontare maggiore pressione da parte del crescente movimento nazionalista di destra indiano. C’era ancora il fumo a Mumbai quando i politici del BJP si sono presentati sulla scena.

Le pressioni per cementare un’alleanza tra l’India e l’America aumentano da diverso tempo e si prevede che accelerino. Tanto per cominciare, l’India ha una relazione speciale con Israele che è seconda [per importanza] solo a raffronto con la nostra. In secondo luogo, la promessa del nuovo presidente eletto Obama di intensificare la guerra in Afghanistan e persino di estenderla al Pakistan corrisponde ai piani del War Party indiano, che sta aspettando dietro le quinte per prendere le redini in mano e affrontare Islamabad.

L’argomentazione che dobbiamo mettere fine alla guerra in Irak per poterci concentrare sul nemico “reale”, un’amorfa ed esagerata al-Qaeda che presumibilmente si nasconde nei territori selvaggi delle zone tribali del Pakistan, ci sta portando verso un conflitto ancora più ampio e senza confini, talmente esplosivo da poter causare uno scontro nucleare tra Pakistan e India.

Per quanto cattivo fosse, neanche George W. Bush si è mai incasinato così tanto. Si può quasi sentire il sospiro di sollievo collettivo ora che si sta avvicinando il giorno in cui un ignorante facilmente manipolabile non sarà più a capo della politica estera americana. Ma potrebbe essere ancora più pericoloso un presidente molto intelligente che crede che lui e i suoi consiglieri ne sappiano più di quanto realmente sanno.

Lo spostamento strategico dell’equilibrio delle forze USA nella regione, via dall’Irak e in direzione est verso Afghanistan e Pakistan sembra essere stato concepito quasi per confermare le lamentele delle forze anti-americane della regione, ossia che gli USA e i suoi alleati hanno iniziato una crociata per eliminare l’Islam dalla cartina geografica. Visto da questa prospettiva lo schema è del tutto chiaro: avendo terminato i propri sforzi in Irak, l’Occidente colpisce ora da un’altra direzione, in alleanza con l’India. Al centro geografico di tutto questo, come avrete notato, c’è l’Iran, che può rallegrarsi di essere circondato da entrambe le parti.

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NELL’ASIA MERIDIONALE SI ADDENSA UNA STRANA TEMPESTA

di M. K. BHADRAKUMAR
da http://atimes.com

Non appena a Mumbai le armi hanno smesso di sparare e la carneficina ha avuto fine si è avviata un’intensa mischia diplomatica tra India, Pakistan e Stati Uniti. Le due potenze dell’Asia Meridionale sono infatti entrate in gara per portare dalla propria parte gli Stati Uniti.

Per gli Stati Uniti, però, non si tratta più di agire come mediatori imparziali e neutrali. Oggi Washington partecipa a tutti gli effetti e con i propri interessi ai rapporti strategici sud-asiatici grazie alla guerra in Afghanistan, che sta attraversando una fase critica. Di fatto il garbuglio sud-asiatico non potrebbe essere più strano.

Come direbbe “Il Vecchio” nel Macbeth di Shakespeare,

“Settant’anni io posso ben ricordare:
in un giro di tempo come questo ho visto
ore tremende e cose strane: ma questa notte atroce
ha ridotto a un’inezia tutto quello che sapevo finora”.*
Washington sembra comprendere che l’intensificazione delle tensioni in Asia Meridionale può sfuggirle di mano. Secondo gli ultimi indizi, il Segretario di Stato Condoleezza Rice giungerà a New Delhi mercoledì in missione di mediazione.

Ancora una volta il Mossad osserva nell’ombra. I fidayeen (guerriglieri) apparentemente pakistani che hanno attaccato Mumbai sono stati particolarmente attenti a prendere di mira degli ebrei, cittadini israeliani inclusi, per sottoporli alle violenze più raccapriccianti. Tra le vittime ci sono nove ebrei. A Mumbai sono giunti esperti israeliani. La furia di Israele non conosce limiti.

Nel frattempo la Cina si sta cautamente avvicinando all’occhio del ciclone. Sabato il Ministro degli Esteri cinese Yang Jiechi ha discusso a telefono la crisi con la sua controparte pakistana, Shah Mehmood Qureshi. Hanno naturalmente condannato gli attacchi terroristici di Mumbai. Ma poi Yang ha anche espresso la speranza che “il Pakistan e l’India possano continuare a rafforzare la cooperazione, mantenere vivo il processo di pace e intensificare i legami bilaterali in modo stabile e salutare”, per citare l’agenzia di informazione Xinhua.

Yang ha detto: “Queste misure sono nel fondamentale interesse di entrambi i paesi”. Curiosamente, Yang e Qureshi hanno “promesso sforzi congiunti per promuovere i legami bilaterali”. Essenzialmente, Yang ha espresso solidarietà con il Pakistan e ha consigliato moderazione da parte dell’India. Non è chiaro se Washington abbia suggerito a Pechino di usare i propri buoni uffici per calmare le acque o se Pechino abbia voluto sottolineare la propria rilevanza per la sicurezza sud-asiatica.

Ma una cosa è chiara. Mentre a Mumbai il bilancio dei morti continua a salire e sta per superare le 200 vittime innocenti, l’India è percorsa e travolta da ondate di dolore e di rabbia. Il governo di Delhi è stato scosso fino alle fondamenta dallo sdegno dell’opinione pubblica per il colossale fallimento della dirigenza politica. Il partito di governo, il Congresso Nazionale Indiano, che è il vecchio grande partito che guidò la lotta per l’indipendenza, si trova di fronte a una grave minaccia per il suo futuro sulla scacchiera della politica interna indiana. I rappresentanti di tutte le correnti politiche si sono riuniti per ore, fino alla mezzanotte di domenica, nella residenza del Primo Ministro alla ricerca di un modo per affrontare nuovamente la luce del giorno e un’opinione pubblica che sta perdendo rapidamente fiducia in loro e nei loro intrighi.

Il Ministro degli Interni è stato costretto dalla leadership del partito a dimettersi, assumendosi l’enorme responsabilità di non aver saputo impedire ai fidayeen di attaccare con tale impunità la capitale finanziaria indiana. Curiosamente, non mancavano informazioni di intelligence sul fatto che bisognasse prevenire esattamente un simile attacco dal Mare Arabico.

La testa dell’azzimato ministro è caduta, ma l’opinione pubblica non ne è impressionata. Le ferite prodotte nella psiche indiana sono profonde. E c’è una crescente possibilità che la rabbia possa portare a una selvaggia oscillazione dell’opinione pubblica verso il nazionalismo di destra nelle elezioni per il rinnovo delle assemblee provinciali e nelle prossime elezioni parlamentari.

Il governo punta il dito contro il Pakistan, sospettando che da lì sia partito l’attacco accuratamente pianificato dei fidayeen. La percezione popolare in India è che debba esserci stato un sostanziale grado di coinvolgimento di elementi della dirigenza politica pakistana per permettere un’operazione così meticolosamente orchestrata e con un supporto logistico tanto preciso.

Il governo mantiene faticosamente la posizione ufficiale, che distingue tra gruppi terroristici che fanno base in Pakistan e potrebbero aver compiuto l’attacco e il governo pakistano in quanto tale. L’opinione pubblica non crede a questa distinzione, ma il governo non ha molte possibilità di scelta.

Di fatto, la dirigenza indiana non sembra convinta di quello che dice quando assolve gli organi di sicurezza pakistani da un coinvolgimento negli attentati. L’alternativa
per il governo equivarrebbe però a chiamare l’attacco con il suo nome: un atto di guerra, date le sue proporzioni gigantesche, compiuto dell’establishment pakistano. Ma questo obbligherebbe l’India a rispondere militarmente a quella che percepisce come un’aggressione, il che è impensabile perché significherebbe giungere rapidamente al punto critico dello scontro nucleare.

Il fatto è che il rapporto tra India e Pakistan, con le sue correnti sotterranee di sospetti e reciproche accuse e irto di innumerevoli rancori che sconfinano nell’ostilità, si trova in un equilibrio così precario che in poche ore potrebbe degenerare in una situazione di conflitto solo a causa di un passo falso, pur essendo mascherato da strati di cordialità come lo è stato negli ultimi tre o quattro anni.

Islamabad, naturalmente, respinge ostinatamente tutte le accuse di coinvolgimento nell’attacco terroristico. Messa sotto pressione da Washington, ha accettato frettolosamente l’idea che il Tenente Generale Ahmad Shuja Pasha, direttore generale dell’Inter-Service Intelligence (ISI), i servizi segreti pakistani, si rechi in India per discutere della questione.

Ma questa decisione, frutto di una conversazione telefonica tra Rice e il Presidente pakistano Asif Ali Zardari, sembra essere stata uno scaltro tentativo di arginare diplomaticamente la crescente rabbia indiana ed è stata successivamente annacquata dall’esercito pakistano. Evidentemente il capo dell’esercito pakistano, il Generale Pervez Kiani, già capo dell’ISI, ha pensato che fosse potenzialmente demoralizzante per l’esercito essere visti vacillare sotto le pressioni indiane.

I riflessi si stanno irrigidendo da entrambe le parti. Nel clima politico interno indiano, con le elezioni nazionali alle porte, per il governo è un suicidio politico farsi vedere debole perfino nei tentativi di persuadere Islamabad a dialogare. Se i partiti indiani di sinistra hanno messo da parte le acrimoniose divergenze con il governo e hanno fatto appello all’“unità nazionale”, i politici di destra non sentono l’impulso di fare altrettanto giacché intravedono la possibilità di essere catapultati al potere da un’ondata popolare di sdegno nazionalistico.

Nel frattempo Delhi chiede aiuto a Washington. E, prevenendo ulteriori pressioni da parte degli Stati Uniti, l’esercito pakistano ha cominciato a minacciare velatamente che a meno che Washington e Delhi non facciano marcia indietro la sua partecipazione alla “guerra al terrorismo” in Afghanistan è in dubbio. Questo può aver messo in difficoltà Washington, e spiega forse l’affrettato viaggio di Rice nella regione.

L’esercito pakistano sa fin troppo bene che mettendo in gioco il “fattore Afghanistan” i calcoli cambiano completamente. Con una presenza stimata di 32.000 soldati statunitensi sul campo e una forza di combattimento e supporto di più di 20.000 uomini forse già in arrivo su richiesta dei comandanti in Afghanistan, il gioco per Washington si fa rischioso.

Dalla prospettiva di Washington la crisi si presenta in un momento delicato, con vari dipartimenti e organi dell’amministrazione degli Stati Uniti impegnati a elaborare una nuova strategia per la guerra in Afghanistan: il coordinatore della Casa Bianca per l’Iraq e l’Afghanistan Generale Douglas Lute, il comandante di CENTCOM Generale Petraeus, il capo dei Joint Chiefs of Staff (Comandi Congiunti del Personale) Ammiraglio Mike Mullen, il Dipartimento di Stato e la CIA devono ancora portare a termine il loro compito.

Il fattore afghano influisce sugli interessi statunitensi in vari modi.
Innanzitutto, in caso di intensificazione delle tensioni tra India e Pakistan nei prossimi giorni e settimane, gli Stati Uniti devono aspettarsi che il Pakistan decida di spostare le sue divisioni scelte dalle regioni che confinano con l’Afghanistan, per un totale di circa 100.000 uomini, per posizionarle al confine occidentale con l’India. La dinamica della guerra in Afghanistan ne risentirebbe quasi immediatamente.

In un recente discorso a Washington il Generale David McKiernen, comandante supremo delle forze NATO in Afghanistan, ha sottolineato quanto sia importante che l’esercito pakistano continui così in Afghanistan. Ha detto che Kiani era atteso a breve a Kabul e ha aggiunto: “abbiamo cominciato con il parlarci e oggi coordiniamo la cooperazione a livello tattico lungo il confine”.

McKiernen ha poi detto che vedeva “un cambiamento nel modo di pensare delle autorità pakistane, che si stanno convincendo che l’insorgenza è un problema che minaccia l’esistenza stessa del Pakistan e che devono occuparsene forse in modi che non avevano contemplato anni fa sul loro lato del confine. Dunque vedo una volontà e una capacità, anche se devono fare ancora molta strada nelle operazioni di contro-insorgenza sul lato pakistano del confine”.

Ha espresso “cauto ottimismo” a proposito della guerra, in considerazione della disponibilità dell’esercito pakistano a collaborare. Adesso la peggiore paura di McKiernen sarà che la leadership militare pakistana dica che vuole sì combattere al-Qaeda e i taliban, ma non dispone delle risorse e della capacità per farlo a causa della necessità urgente di schierare le truppe al confine con l’India.

Un secondo fattore che peserà sugli Stati Uniti sarà la pressione che il tutto potrà esercitare sulle vie di rifornimento alle truppe in Afghanistan. Circa il 75% dei rifornimenti per i soldati americani passa per il Pakistan e non ci sono rotte alternative praticabili – oltre all’Iran – per rifornire i reparti posizionati nelle critiche regioni meridionali e sud-orientali dell’Afghanistan.
In terzo luogo, se l’appoggio pakistano verrà a mancare i taliban si scateneranno nelle regioni di confine. E le perdite per la NATO aumenteranno, il che avrà gravi conseguenze politiche per le capitali europee.

Dunque il primo compito di Washington sarà quello di raffreddare gli animi ed evitare un confronto diretto tra i due avversari nucleari sud-asiatici. Sarà l’ultima grande mossa della politica estera dell’amministrazione Bush e un’interessante prova generale per la presidenza entrante di Barack Obama.

Il Pakistan è interessato a imporre agli Stati Uniti un ruolo di mediazione al fine di “contenere” l’India. L’esercito pakistano è innervosito dalla rapida evoluzione del partenariato strategico USA-India e vorrebbe da Washington una politica sud-asiatica imparziale. Curiosamente l’attacco dei fidayeen a Mumbai sottolinea efficacemente proprio l’affermazione pakistana secondo cui Washington non può isolare la guerra afghana senza affrontare le questioni centrali delle tensioni tra India e Pakistan.

Ma tutto ciò non tiene conto della possibilità che l’esercito pakistano possa avere un grande motivo per alimentare le tensioni con l’India proprio in questo momento, e cioè trovare un alibi per sbrogliarsi dalla partecipazione alla “guerra al terrorismo” in Afghanistan. Il fatto è che l’esercito pakistano ha brutti presentimenti sulla politica afghana dell’amministrazione Obama. Obama ha lasciato intendere più volte che userà la linea dura con l’esercito pakistano per la sua doppia politica di combattere la guerra e contemporaneamente usare i taliban come strumento di influenza geopolitica in Afghanistan.

L’attuale linea di pensiero degli Stati Uniti tenderebbe ad armare delle tribù pashtun per farle combattere contro i taliban e al-Qaeda. È una mossa controversa che preoccupa l’esercito pakistano, poiché potrebbe innescare violenze nelle regioni pashtun all’interno del Pakistan e alimentare le pretese del Pashtunistan. Inoltre Obama ha ammonito duramente che ordinerebbe alle Forze Speciali americane di colpire il territorio del Pakistan se la situazione lo richiedesse. Queste mosse sarebbero uno smacco per l’esercito pakistano.

Ciò che più sconcerta l’esercito pakistano è la probabilità che la “strategia di usc
ita” di Obama incoraggi la rapida formazione di un esercito nazionale afgano di 134.000 uomini. Si tratta di un’idea cara al Segretario della Difesa Robert Gates e può ampiamente spiegare la decisione di Obama di confermarlo nell’incarico.

Comunque, non appena un esercito nazionale afghano entrerà a regime, per l’esercito pakistano entrerà in azione la legge di riduzione dei profitti. Il futuro esercito afghano sarà certamente comandato da ufficiali di etnia tagika. Attualmente i tagiki costituiscono più dei tre quarti del corpo ufficiale afghano. Ma i tagiki sono sempre stati fuori dei confini dell’influenza pakistana, perfino durante il jihad afghano negli anni Ottanta. Il nazionalismo tagiko sfida le aspirazioni del Pakistan a controllare l’Afghanistan. Riassumendo i dilemmi che si porranno all’esercito pakistano, l’ex Ministro degli Esteri del Pakistan Najmuddin Sheikh ha recentemente osservato: “Con [la politica afghana di Obama] si avvererebbero in effetti le peggiori paure del Pakistan in materia di sicurezza”.

*Macbeth, Atto II, scena 4. Traduzione di Mario Praz.