La promessa americana

di Paolo Naso
da www.confronti.net

“Ma questa volta l’America cambierà davvero”? La domanda è il frutto di quel diffuso scetticismo che, soprattutto in certi ambienti di sinistra, accompagna ogni considerazione relativa agli Stati Uniti, alla loro politica e al ruolo che svolgono nella comunità internazionale. In realtà è una domanda, se non retorica, almeno pregiudiziale: la risposta sottintesa è che gli USA non possono cambiare perché sono una grande potenza e perché sono e saranno come sono sempre stati. Uguali a se stessi. E’ un approccio certamente ideologico alla storia e alla cultura di questo paese ma è assai diffuso e ricorrente.

Quando poi si provi a contestare questo assunto affermando che Roosevelt non è Nixon, che Kennedy non è Bush (padre o figlio) e che Martin Luther King non è la stessa cosa del Ku Klux Klan si replica che la “vera America” è sempre una – conservatrice – e che questo dato di oggettiva realtà non è contraddetto dall’emergere di alcune grandi figure che di americano avrebbero “ben poco”. Sbagliato, sbagliatissimo: King non è meno americano di Kennedy e l’America” delle canzoni di Woody Guthrie, dei graffiti di Keith Harris o dei romanzi di Tony Morrison non è “sorella minore” dell’altra.

Il confronto con il pregiudizio antiamericano, del resto, è una costante della cultura politica italiana, e non solo negli ambiti della sinistra radicale. Nel nostro paese è stata storicamente antiamericana la destra figlia della retorica e dell’ideologia autarchica, ostile ad ogni processo di globalizzazione ed a ogni forma di democrazia federale che indebolirebbe la forza dello Stato. Al tempo stesso nel nostro paese ha lungamente pesato un pregiudizio antiamericano di matrice cattolica, che denunciava i pericoli di protestantizzazione e di modernismo insiti in un rapporto troppo ravvicinato con il Nuovo Mondo.

E’ del 1899 l’enclica Testem Benevolentiae di Leone XIII con la quale il papa intese avversare e liquidare ogni tendenza “americanista” interna alla chiesa d’oltreoceano. Il cattolicesimo era e doveva restare romano anche in America. Altrettanto ideologico dell’antiamericanismo che ha lungamente animato le culture politiche storicamente rilevanti nel nostro paese, appare il filamericanismo di chi rinuncia a cogliere la complessità e le contraddizioni del sistema politico e sociale degli USA: essi costituirebbero il modello di società democratica e libera per eccellenza, per definizione non criticabile e non contestabile se non a prezzo dell’accusa di vetero antimperialismo.

Un corollario di questo schema di pensiero è il tentativo di partiti e leader politici italiani di legittimarsi vantando un rapporto diretto ed esclusivo con la grande potenza atlantica: è la strategia delle pacche sulle spalle all’”amico George”, lungamente perseguita da Silvio Berlusconi; ma anche l’improbabile e sfortunata assunzione dello slogan “Yes we can” che ha fatto da refrain della campagna elettorale di Walter Veltroni. “Chi è il più americano del reame” sembra essere il tema di una nuova competizione che si è aperta tra gli schieramenti politici italiani all’indomani del grande successo elettorale di Barack Obama e del suo partito nelle elezioni del 4 novembre.

Un processo già avviato

Per ragionare degli USA, allora, lasciamo stare l’Italia. Raffronti e associazioni hanno il sapore del provincialismo o della improbabilità. Oltretutto ci costringerebbe a dire il nostro sconforto di fronte a un premier che, nel momento in cui negli USA accade una cosa così eccezionale e storica come l’elezione di un afroamericano alla Casa Bianca, non riesce a dire niente di più intelligente di ciò che è stato ampiamente riportato dalla stampa internazionale. Stiamo negli Usa, insomma, e convinciamoci che il risultato elettorale ha svelato un eccezionale cambiamento negli equilibri politici, sociali e culturali del paese.

Ho passato un semestre negli USA mentre si avviava la campagna per le nomination e mi ero convinto che il prossimo presidente sarebbe stata Hillary Clinton. Che i repubblicani fossero in una crisi di ruolo e di immagine dopo il crollo della popolarità di George W. Bush e della sua politica, era evidente da mesi. Nessun candidato, neanche l’ottimo McCain – che stile nel difendere Obama dalle accuse di islamismo e di antipatriottismo, o nell’ammettere la sconfitta e nel dichiarare la sua fiducia nel presidente eletto! – poteva ribaltare un risultato scritto nei fallimenti sociali (uragano Katrina), militari (Iraq) ed economici (crolli finanziari) addebitati al presidente uscente.

Quanto ai democratici, John Ewards aveva una bella piattaforma di politiche sociali ed una grande storia personale e familiare – la moglie ammalata di cancro che lui sosteneva ricambiato nel cuore di una difficile campagna elettorale: un messaggio importante per chi soffre e combatte contro le durezza del sistema sanitario americano. Ma era un politico locale e non poteva diventare una star nazionale. Barack Obama appariva una stella di prima grandezza della scena politica ma appariva troppo giovane, con pochi mezzi e scarsa esperienza internazionale. Buono per un sogno, non per vincere le elezioni. O almeno queste elezioni.

Hilary Clinton aveva invece tutto dalla sua parte: notorietà, mezzi finanziari, il sostegno di importanti strutture del Democratic Party e del potentissimo sindacato. Persino la benedizione di autorevolissimi esponenti della comunità afroamericana che si erano spinti a definire il marito Bill “il primo presidente nero degli Usa”. Ed all’inizio della campagna elettorale fior di intellettuali e leader african-american sponsorizzarono Hillary piuttosto che il “fratello” Barack. Oltretutto Obama era un afroamericano particolare: non era un ragazzo dei ghetti che aveva fatto carriera grazie allo sport come Magic Johnson; né un figlio della media borghesia di colore che aveva investito negli studi come Condoleeza Rice.

Non era neanche il povero ragazzo senza mezzi che era riuscito a darsi un futuro arruolandosi nell’esercito come Colin Powell. Obama aveva un padre africano – non afroamericano e la cosa fa molta differenza, anche nella black community degli USA – e una madre statunitense; aveva vissuto in Kenya e in Indonesia e ha un età per cui, negli anni in cui Martin Luther King sfidava la polizia e le bombe dei razzisti, imparava a sillabare. Non era neanche un pastore come Jesse Jackson o Al Sharpton. La chiave di ciò che Barack Obama sarà nei prossimi quattro anni alla Casa Bianca sta nel processo politico che ha saputo catalizzare conquistando prima la maggioranza nel suo partito e poi nell’elettorato in generale.

Tre strategie

Alla ricerca delle linee guida della sua strategia mi pare si possano individuare tre elementi fortemente innovativi, rispetto alle campagne politiche tradizionali: una speciale attenzione ai giovani; la capacità di parlare a tutti, senza preclusioni o steccati; un marcato schieramento. Gli Usa sono una società certamente più giovane di quella europea: hanno un tasso di natalità del 14 per mille a fronte di quello italiano o tedesco attestati intorno al 9; le progressioni di carriera avvengono soprattutto nei primi anni e con un dinamismo che in Italia fatichiamo a immaginare.

E’ evidente che la crisi economica colpisce le aspettative di crescita soprattutto di questa fascia di popolazione che, diversamente che in altre epoche, sembra reagire in chiave individualistica, rifuggendo dalla politica piuttosto che scommettendo su di essa e sulla possibilità di un cambiamento. Barack Obama ha puntato proprio su queste fasce sociali, sui figli di una crisi finanziaria senza precedenti, assolutamente estranei alle effimere illusioni yuppies degli anni ’80 e ’90 ma anche disillusi rispetto alle grandi battagli degli anni ’60
e ’70.

Li ha cercati su internet, con youtube e con le email, realizzando la prima campagna fortemente telematica della storia politica dell’Occidente. Li ha trovati e loro hanno risposto. In secondo luogo il presidente eletto ha voluto parlare a tutti, anche oltrepassando recinti solitamente preclusi al partito democratico ed in particolare alla sua componente più liberal: da assiduo frequentare di una chiesa protestante qual è, ha parlato per “parabole” raccontando storie di vita vissuta della vastissima provincia americana – la donna del Kansas, il veterano del Maine, il farmer dell’Ohio – e costruendo attorno ad esse ragionamenti politici diretti ed eloquenti.

Ottenuto il consenso della grande stampa liberal, dal New York Times al Los Angeles Times, ha capito che quella poteva essere una semplice illusione ottica. L’America vera era altrove, leggeva altri giornali e bisognava inseguirla, quartiere per quartiere, città per città, stato per stato. In questa prospettiva, tra le mosse più importanti vi è stata l’attenzione al “voto di Dio” e cioè a quei milioni di voti che negli ultimi anni sono stati sostanzialmente monopolizzati dalla Destra religiosa.

Obama non ha temuto il confronto con questo mondo e, anche avvalendosi di esponenti evangelical moderati stanchi del radicalismo teoconservatore, ha avviato dialoghi inediti con un mondo che sta scoprendo i limiti e rischi di un rapporto troppo stretto e soffocante con il partito conservatore. Infine Obama non ha fatto ciò che tradizionalmente accade in tutte le campagne elettorali particolarmente difficili: “spostarsi al centro”. E’ più che evidente che le nostre categorie politiche sono inadeguate a interpretare la situazione americana che ha espressioni e modalità peculiari.

Tuttavia è utile sottolineare che, alla ricerca del voto “moderato”, Obama non ha diluito i contenuti della sua piattaforma, dalla difesa delle legge sull’aborto all’intenzione di finanziare e promuovere la ricerca sulle cellule staminali embrionali; dal ritiro dall’Iraq all’intervento pubblico per sostenere la ripresa economica. Se proprio vogliamo ricavare una lezione da quello che è accaduto in questi mesi negli USA, possiamo quindi affermare che il voto non si conquista “moderando” e “mediando” tra spinte diverse ma, al contrario, caratterizzando la propria proposta politica, delineando un progetto chiaro e mostrando di poterlo perseguire con coerenza.

La fine di un ciclo

Basterà tutto questo a cambiare l’America? Domanda sbagliata: l’America è già cambiata. Il 4 novembre aveva una speranza di cambiamento, il 5 mattina si è svegliata con una proposta di cambiamento. E’ cambiata perché, con la mesta uscita di scena di George W. Bush, si chiude un lungo ciclo caratterizzato dalla convergenza di grandi interessi economici e di una piattaforma etico religiosa di segno chiaramente conservatore. Sono stati gli anni del petrolio, della guerra e dei teocons.

Ed ora? Che anni saranno? Certamente anni di un maggiore multilateralismo nelle relazioni internazionali; di una politica militare più pragmatica e meno ispirata da suggestioni teologiche e missionaristiche, di un maggiore ruolo dello Stato e di minore fiducia nel mercato; di una nuova attenzione ai bisogni sociali dei ceti più esposti ai cascami della crisi finanziaria. Il cambiamento è già avvenuto. Vedremo se basterà a rinnovare quella “promessa americana” per la quale gli americani hanno cambiato rotta e mandato un afroamericano alla Casa Bianca.