Il Vaticano, le leggi italiane e l’autonomia dello Stato

di Stefano Rodotà
in “la Repubblica” del 5 gennaio 2009

Lo Stato della Città del Vaticano ha voluto ridefinire le proprie regole sulle fonti del diritto, dunque
sulle norme che costituiscono il suo ordinamento giuridico, e la relativa legge è entrata in vigore
all’inizio di quest’anno. L’operazione è di grande importanza, come sempre accade quando uno Stato
sovrano stabilisce il perimetro della legalità, e anche perché si tratta di una materia particolarmente
rilevante dal punto di vista politico e culturale (al tema delle fonti ha recentemente dedicato una
riunione l’Associazione italiana dei costituzionalisti). Ma la mossa vaticana ha suscitato attenzione e
polemiche perché contiene una rilevantissima novità nei rapporti tra Stato e Chiesa, tra la
legislazione della Repubblica Italiana e quella della Città del Vaticano. Fino a ieri questi rapporti
erano fondati sul principio della recezione automatica, che portava con sé l’applicabilità delle norme
italiane nell’ordinamento vaticano, recezione «solo eccezionalmente rifiutata per motivi di radicale
incompatibilità con leggi fondamentali dell’ordinamento canonico», com’è accaduto per leggi come
quelle sul divorzio e l’aborto. Ora, invece, «si introduce la necessità di un previo recepimento da
parte della competente autorità vaticana», come sottolinea esplicitamente sull’Osservatore Romano
il presidente della Commissione che ha preparato la nuova legge, José Maria Serrano Ruiz. Non più
automatismi, dunque, ma un filtro, una valutazione preliminare della compatibilità con
l’ordinamento canonico di ogni singola legge italiana.
Questa è una innovazione che non può essere adeguatamente valutata ricorrendo al tradizionale
criterio dell'”indebita ingerenza vaticana” o guardando solo alla spicciola attualità politica, e quindi
interpretandola solo come una reazione a qualche specifica vicenda italiana, come un avviso a
questo o a quel partito. Siamo di fronte ad una strategia impegnativa, che si proietta al di là di
questa o quella occasione, e che va compresa e valutata proprio in questo suo orizzonte più largo.
Non risultano convincenti, quindi, i tentativi di ridurre la portata della nuova legge che qualcuno,
anche da parte vaticana, ha voluto fare, dicendo che la novità è di poco conto, visto che già prima il
filtro vaticano aveva operato nei casi di evidente incompatibilità tra principi della Chiesa e norme
italiane. Si passa, infatti, da un regime eccezionale ad uno ordinario, da una valutazione selettiva ad
una generalizzata. Prima poteva valere il silenzio, ora bisogna attendere la parola. Peraltro, questi
tentativi riduzionisti sono contraddetti da quanto scrive lo stesso Serrano Ruiz, indicando con
chiarezza l’obiettivo della legge: la Chiesa non può «rinunciare al suo ruolo di testimonianza unica
nel concerto del diritto comparato e nella riflessione sul fenomeno giuridico universale».
Non solo l’Italia, dunque. L’ambizione è planetaria: fare dei principi della Chiesa l’unico criterio di
legittimazione di qualsiasi norma, di qualsiasi forma di regolazione giuridica, in ogni luogo del
mondo. Un orientamento, questo, che già era ben visibile nelle ripetute prese di posizione dello
stesso Pontefice aspramente critiche nei confronti delle Nazioni Unite e di molti documenti giuridici
da queste approvati o promossi.
All’Italia, però, sono riservate una attenzione ed una motivazione particolari, anche perché solo per
le sue leggi valeva fino a ieri il criterio della recezione automatica. Tre sono le ragioni
esplicitamente indicate per giustificare il rovesciamento di quella impostazione: «il numero davvero
esorbitante delle leggi italiane»; «l’instabilità della legislazione civile»; «un contrasto, con troppa
frequenza evidente, di tali leggi con principi non rinunziabili da parte della Chiesa». Quest’ultimo è
l’argomento che, giustamente, ha più colpito e ha suscitato le maggiori polemiche, ma pure gli altri
due meritano qualche riflessione.
Si è detto che il riferimento all’inflazione legislativa è pretestuoso, visto che questa esiste ed è ben
nota da molti anni. Perché accorgersene oggi, ha protestato il ministro Calderoli, proprio nel
momento in cui è stata imboccata la via della semplificazione cancellando 36.100 leggi? Si
potrebbe osservare che all’eccesso di legislazione non si risponde soltanto con qualche potatura,
ricordando ad esempio la ben diversa esperienza francese in materia. E, d’altra parte, la riforma
vaticana prende il posto di una legge del 1929, sì che doveva tener conto di quanto è accaduto tra
allora e oggi.
Più significativo, e insidioso, è il secondo argomento. L’instabilità della legislazione civile è
giudicata «poco compatibile con l’auspicabile ideale tomista di una lex rationis ordinatio, che, come
tutte le operazioni dell’intelletto, cerca di per sé l’immutabilità dei concetti e dei valori». Questa
radicale affermazione arriva in un tempo in cui il sistema delle fonti, sotto tutti i cieli, conosce un
mutamento profondo, proprio per poter dare risposte adeguate ad una realtà incessantemente
mutevole, non solo sotto la spinta delle innovazioni scientifiche e tecnologiche, ma di profonde
trasformazioni sociali e culturali. Si scambia per instabilità la necessaria flessibilità delle regole, la
capacità di assumere il nuovo e di incorporare il futuro, che implica anche la necessità di sottoporre
a critica concetti e categorie del passato, anche per far sì che valori ritenuti fondamentali, affidati
soltanto ad una logica conservatrice, non vengano travolti.
L’argomento dell’instabilità si congiunge così con quello del contrasto con «principi non rinunziabili
da parte della Chiesa». Nel modo in cui è formulata quest’ultima critica si coglie una esplicita
polemica con la più recente legislazione italiana, visto che si afferma che questo contrasto si
sarebbe già verificato «con troppa frequenza». Ma a quale legislazione si allude, poiché proprio le
norme più recenti sono piuttosto fitte di compiacenze, per non dire di cedimenti, verso le richieste o
le pretese vaticane? Qui siamo in presenza di un ammonimento, e non di una constatazione; di un
perentorio invito a non fare più che ad una critica del già fatto.
Un alt così netto alla libertà di determinazione del Parlamento italiano non era stato mai
pronunciato, neppure in quegli Anni 70 quando v’erano più fondati motivi di risentimento, non solo
per le leggi su divorzio e aborto, ma pure per la riforma del diritto di famiglia, invisa a molti
ambienti cattolici perché finalmente realizzava la parità voluta dalla Costituzione tra i coniugi e tra i
figli nati dentro o fuori del matrimonio. Si ripeterà, com’è ormai d’uso, che le parole della Chiesa
sono legittime. Ma è legittimo, anzi è doveroso, valutarne gli effetti. Si fa così tutte le volte che non
si vuole sottostare ad un diktat.
L’annuncio è chiaro. Il mondo è grande, ma l’Italia è vicina. La sua legislazione, da oggi in poi, sarà
sottoposta ad un continuo “monitoraggio etico”, accompagnato da una sanzione: non entrerà a far
parte dell’ordinamento canonico tutte le volte che il legislatore italiano sarà colto in flagrante
peccato di violazione dei «principi non rinunciabili da parte della Chiesa». Formalmente tutto può
essere ritenuto in regola: uno Stato sovrano deve poter sottrarsi alle logiche altrui. Ma quali possono
essere le conseguenze politiche e culturali di questo atteggiamento?
La politica italiana è debole, stremata. Qui la nuova linea vaticana può entrare in maniera
devastante, aprendo conflitti di lealtà per i cattolici, stretti tra il loro dovere di legislatori civili e
l’annuncio preventivo che leggi ragionevoli e miti, poniamo quelle sul testamento biologico o sulle
unioni di fatto, non supereranno il test di compatibilità introdotto dalla nuova normativa vaticana.
Per poter reagire dignitosamente, come si conviene ai parlamentari di un paese non confessionale,
servirebbe un senso dello Stato che sembra perduto, qui dovrebbe fare le sue prove una laicità che
non può ritenersi consegnata al passato. Servirebbe soprattutto la consapevolezza, smarrita, che
l’unico filtro ammissibile è quello della conformità alla Costituzione, vero “principio non
rinunciabile” in democrazia.
Ma il conflitto di lealtà può andare oltre le mura del Parlamento, devastare una società già divisa,
dove già si manifestano impietose obiezioni di coscienza, dove davvero “pietà l’è morta” pure di
fronte a casi, come quello di Eluana Englaro, che esigerebbero rispetto e silenzio. E che esigono
rispetto perché espressivi di un quadro di diritti che si vuole radicalmente revocare in dubbio. Di
questo dobbiamo discutere. Dell’autonomia e della laicità dello Stato, del destino delle libertà.