Un approccio corretto di laici e cattolici sui temi eticamente sensibili

di Giannino Piana
in “Credere Oggi” n. 167 dell’ottobre 2008

L’espressione «temi eticamente sensibili», nata nel contesto del gergo politico, è ormai divenuta di
uso comune per designare una serie di questioni che riguardano alcune aree ben definite dell’agire
umano, e precisamente quelle concernenti la sessualità, la famiglia e la vita. Si può senz’altro
obiettare – e non senza ragione – che dietro una tale restrizione di campo si nasconda una
concezione riduttiva dell’eticità; concezione che tende a identificarla con l’ambito della «sfera
privata» (perciò dei singoli e delle relazioni intersoggettive) e a trascurare l’ambito della «sfera
pubblica» (e cioè delle relazioni sociali). È giusto infatti chiedersi perché temi di così grande
rilevanza come quelli concernenti l’esercizio della giustizia sociale e l’impegno politico non
vengano considerati almeno altrettanto «eticamente sensibili» quanto i temi ai quali si fa qui
direttamente riferimento.
L’uso di tale dizione sembra tuttavia – almeno in parte – giustificato dalla presenza, nel nostro
paese, di una situazione piuttosto anomala. Sessualità, famiglia e vita rappresentano, infatti, le aree
dove più acceso è lo scontro tra cattolici e laici o, almeno, tra una parte consistente degli uni e degli
altri, e dove pertanto emergono le maggiori difficoltà di incontro sul terreno politico-legislativo.
Contrariamente ad altri paesi europei (e non solo), dove, pur nella differenza delle posizioni, ha
luogo un confronto serrato e rispettoso con la possibilità di feconde convergenze, da noi è ancora
diffusa la presenza di atteggiamenti ispirati a logiche clericali e laiciste che non facilitano certo il
dialogo.
Le ragioni di questo stato di cose sono assai complesse, e risalgono in parte ad avvenimenti del
passato – si pensi soltanto alla sbrigativa soluzione data alla «questione romana» con l’apertura di
ferite non ancora del tutto rimarginate –; ma è, in ogni caso, evidente la negatività di tale dialettica
conflittuale, tanto per la politica (e la società in generale) quanto per la chiesa. Le leggi che negli
ultimi decenni sono state promulgate in Italia sui temi qui in discussione sono nate, in larga misura,
sull’onda della contrapposizione tra «laici» e «cattolici», dunque come vere e proprie prove di forza
dell’una o dell’altra parte, provocando forti lacerazioni nel tessuto sociale del paese e spesso
interpretando in termini del tutto unilaterali le esigenze della popolazione.

1. Tre percorsi da non praticare

La ricerca di una via corretta per uscire da tale distretta deve anzitutto partire dalla disanima di
alcuni percorsi a cui oggi con una certa frequenza si ricorre e che rappresentano pericolose
scorciatoie, inadeguate ad affrontare seriamente le questioni in gioco.

a) Assunzione dell’etica di un gruppo

Il primo di questi percorsi è costituito dall’assunzione dell’etica di un gruppo o di un’istituzione,
siano essi religioso o sociale o ideologico, come riferimento esclusivo per l’elaborazione della
norma civile. La tentazione di imporre la propria etica da parte della chiesa ma anche da parte di
gruppi a forte contenuto ideologico, è sempre molto forte. Nel contesto del mondo occidentale,
almeno fino alla persistenza del «regime di cristianità», questa soluzione è stata largamente
dominante. L’identificazione della cultura dell’Occidente con la tradizione cristiana rendeva, non
solo possibile ma persino inevitabile, la trasposizione dei contenuti della morale cristiana
(ovviamente quelli direttamente attinenti i comportamenti sociali) sul terreno della legge civile.
Lungi dal rivendicare – come avverrà a partire dalla modernità – la propria autonomia, il diritto
appariva del tutto vincolato alla morale (e specificamente a una morale particolare di matrice
religiosa), al punto di essere considerato un suo corollario.
La situazione odierna è radicalmente diversa. Non solo si è infatti assistito a una progressiva
emancipazione del diritto dall’etica (fino al limite estremo della totale separazione)1 – e
parallelamente dell’etica dalla religione (quella cristiana nel caso nostro) –; ma ciò che si è
verificato, a partire dal Novecento, è stato soprattutto l’avanzare di un processo di accentuato
pluralismo etico, nel senso – già chiaramente intravisto da Max Weber – dell’affermarsi di una
forma di «politeismo dei valori» (oggi si deve forse dire dei «sistemi valoriali») come effetto della
secolarizzazione o di quello che lo stesso Weber definisce, con un’espressione suggestiva, il
«disincantamento del mondo». Da questo punto di vista, anche l’appello fatto dalla chiesa alla
«legge naturale» o ai cosiddetti valori «non negoziabili», per quanto assolutamente legittimo e
incontestabile – le istanze che hanno condotto all’elaborazione della categoria di «legge naturale»
sono oggi ancor più attuali, se si pensa alle possibilità inedite che l’uomo ha di manipolare se stesso
e l’ambiente circostante, e perciò all’esigenza di fissare limiti precisi al suo intervento – rischia di
cadere nel vuoto. Al di là di una possibile convergenza formale, peraltro resa anch’essa difficoltosa
dall’uso di categorie che per il significato storicamente acquisito rischiano di andare soggette a gravi
fraintendimenti, l’identificazione dei contenuti di tali istanze valoriali fa riemergere le differenze tra
le diverse concezioni etiche. L’esistenza di un’etica universale, perché fondata su una ragione
universale, postulata da Kant è ormai il prodotto di un passato difficilmente ricuperabile; ciò che ha
oggi il sopravvento è una molteplicità di «ragioni», e dunque di argomentazioni etiche, che rendono
del tutto impraticabile ogni percorso deduttivo e impongono la messa in atto di un confronto «dal
basso», alla ricerca, per quanto possibile, di una ragione comune.

b) Presunzione di neutralità morale

Il secondo percorso discende immediatamente dalla considerazione dello stato di pluralismo
descritto, e si traduce nell’accantonamento dell’etica per affrontare le questioni eticamente sensibili
in una prospettiva meramente procedurale. La via che, in proposito, si tende a privilegiare è quella
«sociologica», basata su un criterio semplicemente quantitativo, dove a contare è il solo dato
fattuale senza alcun riferimento valoriale, anzi con la riduzione del valore al fatto. Le norme che
vengono elaborate in questa prospettiva hanno di mira la regolamentazione dell’esistente con l’unica
preoccupazione di rispettare la libertà del singolo, mentre appare del tutto elusa qualsiasi
considerazione di «bene comune» o di «interesse generale». A prevalere è pertanto un’ottica di
carattere rigidamente individualistico, che s’intreccia con la presunzione di un’assoluta neutralità
morale, dunque con l’esplicita rinuncia a fare ricorso a qualsiasi paradigma valutativo.
Ora, a parte le inevitabili ricadute sociali che hanno (e non possono non avere) decisioni che
comportano la legittimazione di alcuni comportamenti soggettivi – si pensi soltanto al rilevante
peso economico imposto dall’accettazione di alcune pratiche biomediche – risulta evidente che,
anche dietro il rifiuto del ricorso all’etica, si dà in realtà l’implicita assunzione di un’etica – quella
utilitarista – che andrebbe, a sua volta, anch’essa sottoposta a un severo vaglio critico. Non esistono
infatti posizioni del tutto «neutrali»; ma dietro ogni posizione circa questioni di grande delicatezza
come quelle attinenti l’
area dei temi «eticamente sensibili», si cela in realtà una ben definita
precomprensione dell’uomo e della vita che viene in essa proiettata e che ne costituisce la più
profonda motivazione. La messa tra parentesi dell’etica (e dunque del discorso valoriale) per fare
spazio a un approccio soltanto procedurale (e dunque strettamente normativo) è allora insostenibile.
Molto più corretto è essere consapevoli della propria posizione etica ed esplicitarla mettendola a
confronto con le altre e ricercando punti di convergenza comuni. Solo così è infatti possibile evitare
che abbia luogo un approccio di parte, camuffato come oggettivo, e dunque reso per questo ancor
più pericoloso.

c) Rinvio alla coscienza individuale

Infine il terzo percorso è costituito dal rinvio alla coscienza individuale; rinvio reso necessario –
si dice – dal fatto che le questioni «eticamente sensibili» chiamano in causa le convinzioni etiche
personali di ciascuno e non possono, in quanto tali, essere fatte oggetto di una scelta di partito o di
coalizione. Questa posizione, per quanto apparentemente più plausibile delle altre, non è in realtà
meno limitativa e meno rischiosa. Ciò che è infatti in gioco nelle questioni cui si fa qui riferimento
non è la propria scelta personale (questa sì da lasciare totalmente alla coscienza di ciascuno), ma è
la valutazione «politica» di un intervento legislativo, che ha un’immediata ricaduta di ordine sociale
e che esige pertanto di essere giudicato assumendo come criterio quello del bene comune o
dell’interesse generale. Un partito e, in senso più allargato, una coalizione di governo non possono
non formulare con chiarezza la propria posizione al riguardo: il progetto di società cui si intende
dare corso e con il quale ci si presenta agli elettori non può non contenere anche una precisa
proposta sui temi «eticamente sensibili». Certo si tratta di individuare un punto di mediazione tra le
varie componenti (o anime) presenti all’interno del partito o dei partiti che compongono la
coalizione; ma non si può rinunciare a esprimere una propria posizione su questioni che rivestono
un’importante rilevanza sociale.
La necessaria distinzione tra etica e diritto (pur riconoscendo che non deve trattarsi di radicale
separazione), e prima ancora tra «etica privata» ed «etica pubblica», sono il criterio di fondo cui
anche i singoli militanti devono ispirare il proprio giudizio: l’importanza delle convinzioni personali
è fuori discussione e non può non entrare in gioco nella valutazione delle soluzioni da offrire alle
singole questioni in causa, ma essa costituisce l’inevitabile punto di partenza di un processo che
deve misurarsi con il principio della ricerca del bene comune e che non può per questo prescindere
da una concreta analisi della situazione, puntando su ciò che risulta essere socialmente più
produttivo (non solo in termini di rispetto dei valori ma anche di efficacia nei confronti della realtà)
e accettando democraticamente che il proprio parere si integri con quello di tutti gli altri così da
poter giungere alla definizione di una piattaforma comune.

2. La via della mediazione e del dibattito pubblico

La critica all’ultimo dei percorsi ha già in qualche modo messo a fuoco l’atteggiamento di fondo
da assumere per affrontare correttamente le tematiche alle quali si fa qui riferimento. Per
esplicitarlo ulteriormente e definirne più chiaramente i contorni, è importante dare anzitutto il giusto
rilievo a una distinzione preliminare (e fondamentale), alla quale peraltro si è già accennato, quella
tra «etica privata» ed «etica pubblica».
Non vi è dubbio che tematiche come quelle «eticamente sensibili» occupino un posto di
notevole rilievo nell’ambito dell’«etica privata». Questioni come quelle della sessualità e della
riproduzione, del matrimonio e della famiglia, ma anche della cura della salute e dei trattamenti di
inizio e fine vita costituiscono settori privilegiati della riflessione morale, perché riguardano scelte
con grandi implicanze valoriali, ma soprattutto scelte con un alto tasso di coinvolgimento soggettivo
in quanto in esse è in gioco il senso stesso della propria esistenza personale.
Da questo punto di vista, ciascuno deve essere messo in grado di affrontarle nel modo il più
libero possibile in coerenza con il sistema valoriale cui aderisce.
Diverso è tuttavia l’approccio che esige la valutazione di tali questioni quando ci si colloca sul
terreno socio-politico, dovendo legiferare in merito ad esse. La ricerca delle soluzioni non può prescindere,
anche a questo livello, dal ricorso all’etica, ma si tratta di «etica pubblica», dove l’accento
non può essere posto esclusivamente sui valori e sulla loro astratta proclamazione di principio, ma
deve tenere in considerazione la varietà e la complessità delle situazioni concrete, la rilevanza
sociale dei fenomeni e la necessità di misurare l’efficacia dei dispositivi che si intendono adottare,
sia in relazione alla tutela dei valori in gioco che in relazione alla capacità di fare correttamente
fronte alle istanze derivanti dal contesto situazionale entro il quale si è chiamati a decidere. Ciò che
occorre avere di mira non è perciò il «bene assoluto», o quello che si ritiene tale a partire dalle
proprie convinzioni etiche, ma è piuttosto il «bene possibile» (e in taluni casi il «male minore») in
situazione.
Questo atteggiamento, che ciascuno deve assumere in prima persona (senza venire meno per
questo alle proprie convinzioni ma mettendole in gioco nella prospettiva delle ricerca del bene
comune o dell’interesse generale), va poi commisurato alle esigenze (anch’esse parte integrante della
definizione concreta di bene comune o di interesse generale) proprie della situazione di accentuato
pluralismo etico che caratterizza la nostra società. Si deve perciò tener conto della necessità di
giungere alla determinazione delle soluzioni da offrire sul terreno legislativo attraverso un ampio
dibattito pubblico, in cui dialetticamente si confrontino le diverse posizioni etiche, derivanti a loro
volta da diverse concezioni antropologiche e più in generale da diverse visioni del mondo e della
vita, nel tentativo di convergere attorno a un denominatore comune o di far emergere una soluzione
condivisa.
E senz’altro compito della politica sollecitare e sostenere questo confronto allargato, che deve
coinvolgere — come peraltro è avvenuto in questi ultimi decenni in alcuni paesi d’Europa (e non
solo) — le varie componenti sociali, ideologiche e religiose presenti nella società che sono
portatrici di una particolare sensibilità valoriale — la doverosa laicità dello stato non esclude, anzi
postula, l’attenzione alla presenza (peraltro sempre più massiccia) di tradizioni culturali e religiose
che costituiscono un’indiscutibile ricchezza di ordine spirituale ed etico — spingendole a dare il
proprio contributo alla definizione di ciò che meglio interpreta le esigenze della vita collettiva. Ma
la condizione perché il confronto si sviluppi in termini costruttivi è la rinuncia da parte di ciascuna
delle componenti ricordate a far valere la propria posizione come assoluta, il riconoscimento della
parte di verità che vi è nelle posizioni altrui e la capacità di mettersi in discussione, avendo di mira
il bene comune o l’interesse generale, i quali, nell’ambito di un sistema democratico, non possono
che essere frutto di un processo di reciproca integrazione.
Si tratta, in altri termini, di mettere in atto come via per il perseguimento di soluzioni adeguate ai
temi in discussione, una forma di «etica dell
a comunicazione» (o di «etica del discorso») secondo la
nota definizione di J. Habermas; un’etica, per la quale le norme del comportamento non vengono
desunte «dall’alto» attraverso un procedimento rigidamente deduttivo — l’esistenza di un’estrema
pluralità di «ragioni», e conseguentemente di una grande varietà di sistemi etici, rendono del tutto
impraticabile, come già si è detto, tale modo di procedere — ma vengono invece fatte emergere
«dal basso» mediante un procedimento induttivo, che, partendo dalle molte «ragioni» e
confrontandole tra loro, giunga all’individuazione di una «ragione» condivisa2.
Non è stato, del resto, proprio questo procedimento a consentire che si pervenisse
all’identificazione dei «diritti umani», che godono (almeno in Occidente) di una riconosciuta
universalità e che, insieme alla Carta costituzionale, costituiscono (questi sì) un imprescindibile
riferimento – in questo caso si può parlare di valori «non negoziabili» – anche per la ricerca di
soluzioni ai temi «eticamente sensibili»? Il confronto tra le diverse posizioni etiche non avviene
dunque nel vuoto; si appoggia a un dato precostituito di grande rilevanza, a una precisa tavola di
valori civili e sociali, che hanno ricevuto solenne consacrazione e che si presentano tra loro
armonicamente gerarchizzati. La visione globale dell’umano, che sta alla base di tali Carte – si pensi
soltanto al concetto di dignità della persona – e la concezione della società che in esse chiaramente
traspare, orientano infatti, in modo puntuale, il confronto entro binari ben definiti, che segnano un
limite etico alla possibilità delle opzioni.

3. A quali criteri ispirare le decisioni?

Le riflessioni fin qui esposte hanno teso soprattutto a far luce sulle procedure che devono essere
formalmente rispettate, se si intende pervenire democraticamente all’elaborazione di norme che
affrontino in modo corretto i temi «eticamente sensibili». Ci si può tuttavia domandare – e non è
questione di poco conto – a quali criteri è necessario far riferimento nella concreta elaborazione
delle norme suddette? In altre parole, come e in base a quali presupposti identificare i contenuti
delle norme? O, ancor più precisamente, ci si può domandare se esiste la possibilità di individuare,
pur nel pieno rispetto delle differenti visioni del mondo presenti oggi sullo scenario sociale, un
modello etico di accostamento alle tematiche in discussione che consenta di convergere, a livello di
etica pubblica, attorno a un paradigma metodologico comune.
Il modello che sembra si possa, sotto questo profilo, privilegiare è quello dell’«etica della
responsabilità», non limitandone tuttavia la formulazione alla classica accezione weberiana (pur
costituendo questa la base di partenza) ma estendendone la portata anche alla valenza socioculturale
dell’agire umano3. Non si deve infatti dimenticare che – come si è già ripetutamente
osservato – il criterio di fondo secondo il quale devono essere valutati gli interventi in questi ambiti
è quello del bene comune o dell’interesse generale, cioè del perseguimento di quanto risponde
concretamente alle esigenze della collettività nel contesto reale della situazione.
Come, dunque, questo «bene» può essere decifrato? Quali gli elementi sulla cui base formulare il
giudizio? La categoria di «responsabilità» va qui assunta in tutta la ricchezza dei significati che ad
essa afferiscono; essa infatti, oltre a rinviare immediatamente al soggetto e al suo libero
coinvolgimento nella decisione, dice riferimento all’altro come interlocutore (rispondere a
qualcuno) e all’azione in quanto in essa si esprime il contenuto effettivo della risposta (rispondere di
qualcosa). È come dire che la responsabilità ha a che fare con la relazione all’altro in quanto
orizzonte e fine dell’agire, ma insieme anche con il peso oggettivo dell’azione, da cui non è possibile
prescindere nel perseguimento stesso del fine.

a) Rispondere «a qualcuno»

La determinazione delle norme relative alle questioni «eticamente sensibili» non può evitare,
anzitutto, di confrontarsi con l’insieme dei significati sociali e culturali dei processi che vengono
oggi in tali campi attivati, cioè con le ripercussioni, spesso a vasto raggio e talora a lunga scadenza,
che essi hanno sulla vita e sulla coscienza delle persone che vengono coinvolte. E importante
ricordare, a tale proposito che il «qualcuno» al quale occorre rispondere non è soltanto il vicino e
neppure la semplice cerchia di coloro che fanno capo al proprio gruppo o alla propria nazione, ma
l’intera umanità di cui è necessario farsi responsabilmente carico, in una situazione di radicale
interdipendenza della famiglia umana come l’attuale. Nel contesto della globalizzazione, che
caratterizza il nostro mondo, l’«altro» – per usare le parole di Paul Ricoeur4 – non è più soltanto il
«tu» con il quale possiamo intrattenere un rapporto diretto; è anche il «terzo», che non è l’anonimo
ma un soggetto dal nome e dal volto preciso che mai conosceremo di persona, ma del quale
dobbiamo «prenderci cura», concorrendo a promuoverne la dignità e a salvaguardarne i diritti
mediante l’edificazione di «strutture giuste». È, in un senso più allargato (ma non per questo meno
importante), l’umanità che verrà, cioè le generazioni future alle quali è nostro dovere consegnare un
mondo abitabile. Il concetto di «bene comune» non è dunque più restringibile al solo ambito
«sincronico» — «tutto l’uomo e tutti gli uomini» secondo la nota formula della Populorum
progressio di Paolo VI —; va esteso anche all’ambito «diacronico», con l’inclusione di quanti in
futuro nasceranno5.
I temi «eticamente sensibili» hanno, certo, anzitutto a che fare con soggetti precisi, quelli che
reclamano il riconoscimento di diritti tuttora negati — si pensi alle coppie di fatto sia etero che
omosessuali — o quelli che si sottopongono, per varie ragioni, a interventi manipolativi (terapia
genica, fecondazione in vitro, ecc). Ma i riflessi delle decisioni che si assumono sul terreno
legislativo hanno (e non possono che avere) ricadute culturali e sociali assai più ampie: è sufficiente
richiamare qui l’attenzione sull’indebolimento del concetto tradizionale di famiglia che potrebbe
verificarsi come conseguenza del riconoscimento di altri modelli familiari o sui risvolti economici
legati all’ammissione di alcune nuove pratiche mediche e pertanto alla necessità, stante il limite
delle risorse disponibili, di non sottovalutare l’ordine di priorità legato alle urgenze da fronteggiare.
Il giudizio che va espresso sulle questioni «eticamente sensibili» in vista di una loro
regolamentazione pubblica a livello legislativo e sociale non può essere formulato trascurando
aspetti come quelli ricordati, che rientrano, a pieno diritto, nella definizione del bene comune o
dell’interesse generale. Non si può infatti ridurre il bene della società al semplice rispetto della
libertà dei singoli (o, ancor meno, alla soddisfazione dei loro desideri individuali); esso è, invece,
una realtà molto più complessa, dotata di una propria autonoma consistenza, che coincide con la
ricerca della promozione di tutti e di ciascuno, dove, in altre parole, il rispetto della libertà
individuale s’intreccia e si compagina con l’impegno a costruire un ordine istituzionale giusto che
consenta lo sviluppo solidale dell’intera famiglia umana.

b) Rispondere «di qualcosa»

Il criterio destinato, invece, a presiedere immediatamente alla valutazione dell’azione politica
(e
legislativa), e che costituisce perciò (in stretto rapporto con quanto si è appena rilevato e che ha
valore di fine) il metro di giudizio dei singoli processi in chiave di «etica pubblica», è quello
formulato da M. Weber, laddove distingue con precisione l’«etica della responsabilità» dall’«etica
della convinzione» (o «della coscienza»), attribuendo alla seconda, per la quale conta semplicemente
l’adesione incondizionata ai valori «accada quello che può», il carattere di pura
testimonianza e considerandola pertanto l’etica del «santo» o del «martire» (il testimone per
eccellenza); e facendo della prima — quella della responsabilità appunto — dove a contare è
anzitutto la valutazione delle conseguenze dell’azione, l’etica del politico (e più in generale del
professionista), il quale non può accontentarsi dell’astratta fedeltà ai principi (o ai valori), ma deve
preoccuparsi dell’efficacia della propria azione, e perciò del perseguimento del risultato. A rivestire
qui un ruolo di primaria importanza è il peso oggettivo delle azioni; il che rende evidente la responsabilità
che al politico compete — questo ovviamente anche quando agisce in ambito legislativo —
di assegnare una considerazione privilegiata alla produttività dei propri interventi, valutandone
concretamente gli effetti e optando — come già s’è detto — per il «bene possibile» o per il «minor
male».
Il fatto che tale valutazione non possa prescindere dal riferimento a un preciso quadro valoriale
gerarchicamente ordinato — quello costituzionale nel caso nostro — impedisce che si incorra in una
forma di mero utilitarismo; mentre, d’altra parte, il riconoscimento che il mezzo non è moralmente
«neutro» ma gode di un proprio spessore etico, esclude che si cada nel machiavellismo; grazie a tale
riconoscimento infatti non si supera soltanto il pericolo che la bontà del fine induca a giustificare il
ricorso a qualsiasi mezzo, ma viene soprattutto in evidenza come lo spessore etico del mezzo
rappresenti un elemento decisivo per giudicare la legittimità morale di ogni processo analizzato.
L’attenzione, nel giudizio sulle singole forme di intervento, tanto al loro significato socioculturale
quanto alla loro oggettiva consistenza, rappresenta la via migliore per affrontare, nel modo più corretto
sul terreno politico-legislativo, le tematiche «eticamente sensibili». Una via che va percorsa
con prudenza per evitare di incorrere in rischi anche gravi (magari in partenza non facilmente
prevedibili). Ma soprattutto una via che, per essere adeguatamente percorsa, esige la creazione di un
clima libero da pregiudizi negativi e postula insieme l’individuazione di spazi, all’interno della
società, nei quali dare vita a un dibattito pubblico serrato che si svolga all’insegna del perseguimento
del «bene» dell’intera collettività.

1Per una riflessione sul tema dei rapporti tra etica e diritto, cf. Ordine morale e ordine giuridico. Rapporto e distinzione tra
diritto e morale. Atti del X Congresso dei teologi moralisti, Roma 24-27 aprile 1984, EDB, Bologna 1985.
2Cf. J. HABERMAS, Etica del discorso, Laterza, Roma-Bari 1989; Io., Teoria della morale, Laterza, Roma-Bari 1994.
3Cf. M. WEBER, L’etica della responsabilità, a cura di P. VOLONTÀ, La Nuova Italia, Firenze 2000. Il volume raccoglie i due saggi
dedicati da Weber a tale questione, e precisamente: Considerazione intermedia (1916), in cui viene offerta la giustificazione teoretica della
distinzione tra le due etiche; e La politica come professione (1919), in cui vengono esposti analiticamente il senso e le modalità di esercizio
dell’etica della responsabilità. Quest’ultima è da Weber originariamente definita come «etica dei risultati» (cf. ID., La situazione della
democrazia in Russia 1905-6/17, Il Mulino Bologna 1981, pp. 27-79), in quanto si attribuisce più importanza alle conseguenze. Il termine etica
della responsabilità (Verantwortungsethik) viene successivamente introdotto da Weber nel contesto della polemica con le posizioni dei
neokantiani e di M. Scheler.
4 Cf. P. RICOEUR, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993.
5 Cf. H. JONAS, Il principio responsabilità. Un’etica per la società tecnologica, Einaudi, Torino 1990.