Dignità della persona e tecniche biomediche

di Giannino Piana
in “Rocca” n. 2 del 15 gennaio 2009

Il documento Dignitas personae della Sacra Congregazione per la Dottrina della fede, presentato
ufficialmente alla stampa lo scorso 12 dicembre, costituisce – come si legge nella introduzione – la
necessaria integrazione di un precedente documento della stessa Congregazione, il Donum vitae del
1987, dedicato in maniera prevalente alle questioni di carattere morale legate alla pratica della
«procreazione assistita». La necessità di un nuovo intervento della Santa Sede, a distanza di poco
più di venti anni, è motivata dalla rapidità con cui sono venute evolvendosi le tecniche biomediche,
e dunque dall’emergere di nuovi (e talora inquietanti) interrogativi, che vanno seriamente
considerati e ai quali occorre fornire una risposta puntuale.
Il quadro di riferimento entro il quale il documento si muove è quello dell’antropologia cristiana,
con l’assegnazione di un’assoluta centralità alla «persona», dunque con il riconoscimento della sua
dignità e dei fondamentali diritti che da tale dignità discendono.
In questo contesto sono riproposti, sia pure soltanto per rapidi cenni, alcuni punti fermi della
dottrina tradizionale della Chiesa, quali il rispetto dell’integrità del corpo in quanto elemento
costitutivo della soggettività umana, la tutela della vita umana considerata come realtà «sacra» e
perciò inviolabile, il riconoscimento del particolare significato dell’unione matrimoniale nella quale
trova la più alta espressione la comunione interpersonale. L’intento del documento vaticano è quello
di giustificare, da un lato, le radici anzitutto umane di tali affermazioni – frequente è, in proposito, il
ricorso alla categoria di «legge naturale» – e di evidenziare, dall’altro, il nuovo (e più alto)
significato che le stesse affermazioni acquisiscono quando sono inserite nell’orizzonte della fede.
L’interesse maggiore del documento è tuttavia di ordine etico. Il motivo fondamentale che ha spinto
la Congregazione per la Dottrina della fede a redigerlo è infatti l’esigenza di fornire una precisa
valutazione di alcune scottanti questioni relative alle fasi iniziali della vita umana, e in particolare
alle diverse modalità di esercizio della fecondazione artificiale, nonché alla manipolazione degli
embrioni umani e, più in generale, del patrimonio genetico.
quando si diventa «persona»?
Il nodo critico di fondo attorno al quale
ruota l’intera riflessione è la determinazione del momento a partire dal quale l’essere umano può
essere definito «persona». Il documento vaticano esprime, in proposito, una posizione più radicale
di quella contenuta nel testo dell’87. Mentre infatti il Donum vitae, pur riconoscendo apertamente
che l’essere umano va trattato a partire dal concepimento come una persona, rinuncia tuttavia, per
«non impegnarsi in un’affermazione di indole filosofica» (I,1), a definirlo a tutti gli effetti persona;
il Dignitas personae fa invece decisamente propria la tesi secondo cui dal momento del
concepimento si deve affermare, in senso stretto, la presenza della persona. «La realtà dell’essere
umano – si legge – per tutto il corso della sua vita, prima e dopo la nascita, non consente di
affermare né un cambiamento di natura né una gradualità di valore morale, poiché possiede una
piena qualificazione antropologica ed etica… L’embrione umano ha pertanto fin dall’inizio la
dignità propria della persona» (n. 5). Da questa netta presa di posizione discende, come logica
conseguenza, la considerazione che «ogni essere umano per il semplice fatto di esistere deve essere
pienamente rispettato» (n. 8): il che implica il rifiuto di ogni discriminazione basata su fattori
biologici, cioè sulla tipologia di patrimonio genetico o sul livello di sviluppo raggiunto
dall’embrione, ed esige pertanto che la scienza, se intende essere al servizio dell’uomo, debba
anzitutto attenersi a tale criterio.
La ragione di fondo cui si fa appello per giustificare la perfetta identificazione tra inizio della vita
biologica e inizio della vita personale è la continuità di «natura», il fatto cioè che lo sviluppo
dell’essere umano vada considerato come un continuum, cioè come un processo lineare senza salti
qualitativi, guidato dall’esistenza fin dall’inizio di un dato ontologico, l’essere personale appunto, in
quanto fattore costitutivo. La percezione dell’astrattezza di tale posizione, cioè la considerazione
che essa, nella sua apoditticità, rischia di venire interpretata come «ideologica», ha spinto gli
estensori del Dignitas personae a ricercare un ulteriore supporto alla loro tesi mediante il ricorso
alla scienza, osservando come «anche se la presenza di un’anima spirituale non può essere rilevata
dall’osservazione di nessun dato sperimentale, sono le stesse conclusioni della scienza
sull’embrione umano a fornire un’indicazione preziosa» (n. 5).
Questa ultima affermazione suscita tuttavia (e non può non suscitare) qualche legittima perplessità.
Se infatti è vero che la scienza, grazie alla scoperta del Dna, ha contribuito a chiarire che lo zigote
fin dall’atto della fecondazione possiede sul terreno biologico connotati specificamente umani,
sconfessando in tal modo l’ipotesi in passato a lungo perdurante che prevedeva il formarsi graduale
della vita umana attraverso il passaggio negli stadi precedenti della vita, non è meno vero che gli
approfondimenti avvenuti nel campo dell’embriologia tendono sempre più a disgiungere il
momento di insorgenza della vita personale da quello della fecondazione. La condizione
fondamentale perché si possa affermare l’esistenza della persona è infatti rappresentata dalla
presenza di una ben precisa individualità; il che appare – secondo quanto la ricerca scientifica ci
dice – pressoché impossibile nelle due prime settimane dal concepimento, sia perché le cellule non
hanno ancora un’identità definita – sono cioè, come si dice in gergo, «totipotenti» – sia perché da
un’unica ovocellula fecondata possono aver origine due o più soggetti, i cosiddetti gemelli
monozigoti. Anziché «fornire un’indicazione preziosa» a sostegno della tesi sostenuta dal
documento vaticano gli esiti della scienza sembrano dunque offrire plausibili motivi a favore di una
posticipazione del momento di insorgenza della persona rispetto al momento del concepimento.
L’inizio della vita personale è d’altronde – come sappiamo – avvolto nel mistero, e non spetta certo
alla scienza dare a tale questione una risposta definitiva. Tuttavia, se si riconosce al corpo il
carattere di elemento costitutivo della soggettività umana – il corpo che sono e non il corpo che ho –
non si può misconoscere il contributo positivo che dalla scienza può venire all’accertamento delle
condizioni minimali richieste perché si possa parlare di persona; contributo che, a meno di uno
stravolgimento dei dati, non sembra essere in sintonia con quanto afferma il Dignitas personae.
la questione della fecondazione artificiale
Ad occupare un posto di primo piano nella seconda parte del documento vaticano è la questione
della fecondazione artificiale affrontata nel solco del Donum vitae. La conferma della sua illiceità
morale, tanto nella versione omologa che in quella eterologa, è motivata dal mancato rispetto di
almeno uno dei tre «beni» fondamentali: il diritto alla vita e all’integrità fisica di ogni essere umano
dal concepimento alla morte, l’unità del matrimonio e, da ultimo, il significato umano della
sessualità che implica la stretta connessione tra procreazione e atto coniu
gale. Il documento
vaticano insiste soprattutto nel sottolineare come, nell’esercizio della fecondazione artificiale, si
incorra in un trattamento del tutto utilitaristico degli embrioni, considerati come una semplice massa
di cellule utilizzate, selezionate e scartate a piacimento, o come puro «materiale biologico», e non
manca di rilevare come nel ricorso ad esse si faccia prevalere il desiderio del figlio sul rispetto del
singolo embrione. Da queste considerazioni discende l’aperta condanna sia del con gelamento degli
embrioni (estesa per la prima volta agli stessi ovociti), sia della loro riduzione o selezione (con
l’inclusione della diagnosi genetica preimpianto finalizzata all’eliminazione dell’embrione
designato come «sospetto»; dietro la quale perciò si nasconde una mentalità eugenetica), sia del loro
impiego per la ricerca o per il trattamento di alcune malattie e sia, infine, della loro utilizzazione da
parte di coppie sterili. Non manca, d’altra parte, nel documento vaticano, anche il ricorso al
principio della non disgiunzione della procreazione dall’atto coniugale, principio che viene invocato
per affermare l’illiceità di ogni forma di fecondazione extracorporea compresa l’iniezione
intracitoplasmatica dello spermatozoo, e l’appello al principio dell’unità del matrimonio chiamato
in causa per condannare, a sorpresa, la stessa adozione prenatale degli embrioni. Legittime sono
dunque soltanto le tecniche che agiscono come un «aiuto» all’atto coniugale al fine di agevolarne le
prestazioni o di consentire il perseguimento del suo obiettivo, o quelle volte a rimuovere gli ostacoli
alla fecondazione naturale, come alcuni trattamenti ormonali o alcuni interventi chirurgici.
Ad occupare un posto centrale (se pure non esclusivo) nell’ambito delle motivazioni soggiacenti a
questa lunga serie di condanne è in ogni caso soprattutto la certezza – come si è già ricordato – che
l’embrione è, fin dall’inizio, «persona». La conferma è anche costituita dalla riconduzione alla
fattispecie dell’aborto tanto delle tecniche intercettive, quali la spirale e la pillola del giorno dopo,
destinate a intercettare l’embrione prima del suo impianto nell’utero materno – a tale proposito si
osserva tuttavia correttamente che non sempre l’aborto è provocato, perché non sempre all’atto
sessuale fa seguito la fecondazione, anche se il ricorso a tali tecniche manifesta comunque una
intenzionalità abortiva – quanto delle tecniche contragestive, come la RU 486, le quali provocano la
eliminazione dell’embrione appena impiantato.
trattamenti che comportano la manipolazione del patrimonio genetico
Lo stesso principio è posto anche alla base della valutazione di una serie di pratiche, oggetto della
terza parte del Dignitas personae, che implicano l’esercizio diretto di interventi manipolativi sugli
embrioni e, più in generale, sul patrimonio genetico. Le scoperte in campo biologico degli ultimi
decenni hanno aperto la strada alla «terapia genica», consistente nell’applicazione all’uomo delle
tecniche di ingegneria genetica, con uno spettro (almeno teoricamente) assai ampio di utilizzo, sia
per la correzione di difetti genetici che per affrontare malattie di estrema gravità.
Giustamente il documento vaticano sottolinea la differenza esistente tra l’uso delle cellule
somatiche, i cui effetti si fanno sentire sul singolo individuo che si sottopone all’intervento, e l’uso
delle cellule germinali (o riproduttive), dove le conseguenze possono ricadere invece sulla prole.
Nel primo caso, il trattamento è considerato legittimo, a condizione che vengano correttamente
soppesati i rischi per la salute e l’integrità fisica e che vi sia il consenso informato; nel secondo, è
invece giudicato moralmente inammissibile per la gravità delle incognite cui si va incontro. Ancora
più severo è poi il giudizio sull’utilizzo della bioingegneria genetica per una finalità non
propriamente terapeutica ma destinata al miglioramento e al rafforzamento del pool genico: e
questo non solo perché è difficile stabilire i criteri in base ai quali si possono definire come positive
le modifiche (a chi d’altronde spetta il giudizio?) ma anche (e soprattutto) per il rischio che il
perseguimento di tale obiettivo finisca per alimentare una mentalità eugenetica.
In base a queste premesse il documento vaticano respinge radicalmente la clonazione umana sia per
fini riproduttivi che terapeutici, in quanto lesiva della dignità umana, cioè dell’integrità e singolarità
di ogni persona anche sul piano biologico e genetico, o in quanto implicante – quella terapeutica – il
sacrificio di una vita umana; dichiara gravemente illecito l’uso delle cellule staminali embrionali
perché il prelievo causa inevitabilmente la distruzione dell’embrione ed, infine, condanna come
eticamente inaccettabile l’ibridazione, cioè la produzione dei cosiddetti «embrioni-chimera», perché
è «un’offesa alla dignità dell’essere umano, a causa della mescolanza di elementi genetici umani ed
animali capaci di turbare l’identità specifica dell’uomo» (n. 33) e perché costituisce inoltre un grave
pericolo per la salute pubblica.
Non mancano, infine, indicazioni circa l’impiego di «materiale biologico umano» di origine illecita,
dove ad essere chiamato in causa è il problema della cooperazione. Il documento vaticano ritiene
insufficiente l’appello al criterio di indipendenza, l’esclusione cioè di ogni connessione tra il
ricercatore e coloro che hanno provocato l’ingiustizia; e tuttavia riconosce l’esistenza di diversi
gradi di responsabilità e la presenza, in alcuni casi, di gravi motivi che possono giustificare
l’utilizzo di tale materiale: basti pensare all’uso di vaccini sviluppati illecitamente per uscire da una
situazione di pericolo per la salute dei bambini.
un atteggiamento di fondo eccessivamente proibizionista
Il Dignitas personae è un documento di grande ampiezza, che affronta in modo dettagliato (ed
aggiornato) una serie di importanti (e delicate) questioni di ordine morale sollevate dal progresso
tecnico prodottosi in questi ultimi decenni in campo biomedico.
Pur connettendosi strettamente al Donum vitae e confermando, in larga misura, le sue indicazioni,
esso dilata ulteriormente l’area della riflessione, introducendo temi collaterali precedentemente non
trattati o aprendosi – come si è ricordato fin dall’inizio – alle domande che scaturiscono dalle nuove
possibilità di intervento sulla vita umana.
Al di là dei dubbi già espressi circa alcune affermazioni di principio, prima fra tutte quella relativa
al momento di inizio della vita personale, l’impressione di fondo che immediatamente si ricava
accostandolo è che l’intento perseguito sia più negativo che positivo; che prevalga, in altri termini,
la tendenza a segnalare pericoli e a pronunciare divieti piuttosto che ad offrire prospettive positive
di crescita, richiamando valori irrinunciabili e indicando concretamente le vie da percorrere per
perseguirli.
Gli stessi estensori del documento sembrano, del resto, accorgersi di tale rischio, ma tendono a
giustificare la legittimità del divieto, osservando che esso è esigito dalla «necessaria protezione di
un autentico bene morale» (n. 36) o mettendo in evidenza come dietro ad ogni «no» vi è un grande
«sì» alla dignità inalienabile di ogni essere umano.
Queste affermazioni, per quanto vere, non riescono a cancellare tuttavia la percezione di un
atteggiamento più difensivo che propositivo, motivato più dalla paura – di qui la tendenza a proibire
– che dalla speranza. Un atteggiamento che se, da un lato, manifesta una forma di accentuato
pessimismo
nei confronti degli indirizzi della ricerca scientifica e tecnologica; dall’altro, sembra
dettato dal peso assai rilevante riservato a comportamenti che riguardano la difesa della vita
nell’ambito della sfera privata (e che sono in larga misura legati – non a caso – alla gestione della
sessualità), mentre non si riserva altrettanta attenzione a comportamenti dello stesso segno
riguardanti la sfera pubblica come quelli provocati dalle ingiustizie sociali e politiche – basti
pensare alle varie forme di violenza e soprattutto alle guerre – che hanno peraltro un grande impatto
sulla collettività.
È vero che il documento vaticano richiama con forza, nella parte conclusiva, alcune di queste
questioni, quali il persistere della povertà in molte regioni del mondo dove regnano fame e malattia,
l’esclusione di molti dall’uso di risorse essenziali altrove largamente sprecate, il collasso
dell’economia, grazie all’affermarsi di un modello di sviluppo quantitativo che accentua le
disuguaglianze e devasta l’ambiente, i conflitti culturali sempre più estesi e l’uso della ricerca
scientifica per scopi bellici. Come è vero che esso auspica che i risultati della ricerca scientifica
possano essere messi a disposizione anche degli uomini che abitano le zone più povere del mondo.
Si tratta tuttavia di cenni troppo rapidi e marginali su temi che esigerebbero un approccio più
puntuale e circostanziato. Solo infatti da una maggiore apertura a problematiche, che riguardano il
destino dell’intera famiglia umana e dall’assunzione di un atteggiamento positivo, improntato
all’annuncio dei valori che contano e a partire dai quali vanno costruite le scelte dei singoli e della
collettività, è possibile sperare in un risveglio di attenzione attorno al messaggio cristiano, le cui
istanze costituiscono ancor oggi un fattore essenziale di discernimento delle diverse situazioni
(anche di quelle più complesse) e un forte stimolo ad impegnarsi a creare le condizioni di una vera
liberazione umana.