“Lavoriamo ad una proposta che sia in grado di incidere”

Boicottaggio dei prodotti israeliani: “Lavoriamo ad una proposta che sia in grado di incidere”
intervista a Francuccio Gesualdi

Nei giorni scorsi ha suscitato molte polemiche la proposta del Sindacato di base del commercio FLAICA-CUB di boicottare “i negozi che si rifanno alla comunità israelitica romana”. Dopo le condanne unanimi del mondo politico, il sindacato ha corretto il tiro, proponendo il boicottaggio della merce ‘Made in Israele’ riconoscibile dal codice 729. Ne parliamo con Francuccio Gesualdi, coordinatore del Centro Nuovo Modello di Sviluppo, animatore del movimento del consumo critico e di diverse campagne di boicottaggio in Italia.

Francuccio, innanzitutto ti chiedo se hai avuto modo di seguire la polemica e cosa ne pensi?

Mi sembra che l’iniziativa della FLAICA-CUB, almeno per come inizialmente proposta, non sia adeguata, perché non contribuisce all’obiettivo finale di indurre Israele a interrompere la sua aggressione verso la Striscia di Gaza e inoltre rischia di ingenerare atteggiamenti xenofobi che sono assolutamente da condannare. Non è chiedendo alla gente di evitare il negozio del cittadino di origine ebraica che si riesce a colpire la politica del governo israeliano. Bisogna colpire gli attori economici che operano in Israele, non perché sono israeliani, ma come forma di pressione verso un governo che sta strangolando un intero popolo.

Ricordiamo recenti campagne di boicottaggio contro imprese multinazionali, per ultima quella contro la Coca-Cola. Alcune di queste, organizzate dal CNMS, hanno raggiunto il loro risultato: pensiamo alla Campagna Del Monte a tutela dei lavoratori delle piantagioni di ananas in Kenya o alla campagna Chicco-Artsana a tutela delle lavoratrici cinesi coinvolte nell’incendio di uno stabilimento. Ci sono precedenti equiparabili di boicottaggi contro interi Stati?

Senz’altro sì, il primo che mi viene in mente è quello nei confronti del Sudafrica, quando si voleva indurre il governo dell’apartheid ad abbandonare il potere. Ci fu una grande iniziativa che coinvolse sia la sfera commerciale che quella finanziaria e che dette un buon contributo alla vittoria finale. Ma sono gli stessi Stati che in alcuni casi avallano il boicottaggio sotto forma di embargo, quando vogliono condannare dei comportamenti, si pensi ad esempio all’Iraq o all’embargo che gli Stati Uniti stanno portando avanti nei confronti di Cuba. Questo per dire che lo strumento del boicottaggio in quanto tale non solo è parte della pratica democratica e nonviolenta, ma è addirittura utilizzato dagli Stati.

Il boicottaggio di Israele è arrivato all’attenzione dell’opinione pubblica solo a seguito dell’infelice uscita della FLAICA-CUB, ma iniziative più serie sono in piedi da tempo, come quella della Campagna BDS, acronimo di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni nei confronti di Israele, attiva fin dal 2005. Lo scorso 7 Gennaio Naomi Klein ha scritto sulle colonne di The Nation che ‘è ora di boicottare Israele’ aderendo a questa campagna. In particolare la Klein sostiene che nel caso di un paese così piccolo e legato al commercio, il boicottaggio potrebbe funzionare. Condividi le sue argomentazioni?

Sì, potrebbe funzionare effettivamente, ma solo se la quota di prodotti destinati all’export è rilevante. Confesso di non avere una grande conoscenza dell’economia israeliana e di non sapere quanto essa dipenda dalle esportazioni all’estero. Bisogna poi capire se si tratta di prodotti per il consumo finale o per il consumo intermedio, cioè di semilavorati. Sono aspetti che vanno studiati, perché se pensiamo ad un boicottaggio che possano intraprendere i consumatori finali è necessario che esso prenda di mira prodotti che si trovano al supermercato o nei negozi. Ripeto, lo strumento in generale è senz’altro efficace, ma nel caso specifico bisogna capire la posizione economica del paese in discussione.

Nel corso della guerra in Iraq il CNMS ha lavorato alla campagna Fuori la guerra dalla spesa, che proponeva di boicottare i prodotti USA, e il boicottaggio contro i prodotti israeliani è in piedi in diversi paesi europei da alcuni anni. In Francia ad esempio aderiscono Attac e la Confederation Paysanne di José Bové. Come mai il movimento altermondialista, nelle sue realtà più rappresentative, non ha mai assunto iniziative del genere in Italia? Forse perché da noi è più alto il rischio di essere bollati come antisemiti?

Non c’è nessun imbarazzo per accuse che sarebbero palesemente infondate. In realtà è un progetto che, come Centro Nuovo Modello di Sviluppo, non abbiamo finora mai preso in considerazione. Nel caso dell’Iraq venne naturale rivolgersi alle imprese americane, perché queste, oltre a vendere prodotti nei supermercati, riforniscono anche l’esercito di prodotti civili, quindi c’era un coinvolgimento diretto di sostegno all’esercito da parte delle imprese che noi chiedevamo di boicottare. Nel caso di Israele mi sembra più una questione di bandiera che un coinvolgimento diretto, per cui fino ad oggi non ci è mai venuto in mente di esaminarlo. La gravità degli episodi che stanno avvenendo in questi giorni ci ha però convinto a lavorare a questa ipotesi, a partire da un’istruttoria seria sui prodotti che vengono esportati e su quanto si possa realmente incidere. Si fa presto a lanciare un boicottaggio, ma bisogna stare attenti: se lo stiamo lanciando solo per dire a noi stessi che facciamo qualcosa o se davvero può essere efficace. A lume di naso, ho l’impressione che la sfera commerciale non sia così interessante. Boicottando solo i pompelmi Jaffa rischiamo di non arrivare molto lontano. Più interessante può essere un approfondimento sugli aspetti finanziari, per capire se ci sono intrecci tra il mondo della finanza europea e quella israeliana. Se ci sono capitali israeliani che hanno investito in imprese nostrane, a livello bancario, assicurativo e industriale, allora anche queste ultime possono essere prese di mira, con maggiori possibilità di successo.