Speculum, l’altro uomo. Otto punti sugli spettri di Colonia di A.Bocchetti, I.Domijanni, B.Pomeranzi, B.Sarasini

Alessandra Bocchetti, femminista
Ida Dominijanni, giornalista
Bianca Pomeranzi, esperta di politiche di genere e cooperazione internazionale
Bia Sarasini, giornalista e saggista

www.internazionale.it

Una mano nera si allunga sotto le gambe inguainate in un collant bianco di Angela Merkel fino a toccarle il sesso; la parte superiore del suo corpo è ancora coperta da una delle sue ben note giacche colorate, ma ormai, questo vuole dire l’immagine, la regina è nuda, messa in scacco dall’intrusione molesta dell’uomo nero. È il disegno pubblicato dal quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung a commento e sigla dei fatti di Colonia. Al sessismo degli “uomini neri” che la notte di Capodanno hanno molestato le “donne bianche”, gli “uomini bianchi” rispondono con lo stesso sessismo contro la loro cancelliera.

Risposta oscena ma, nel suo estremismo, veritiera. Che avesse ragione Michel Houellebecq, nel suo pur assai misogino Sottomissione? Gratta l’odio dei maschi europei verso gli invasori islamici, e ci troverai l’invidia. L’invidia per la sottomissione delle donne di cui gli invasori, al contrario degli invasi, possono ancora godere. Un’invidia esattamente speculare a quella degli invasori per la libertà sessuale femminile di cui possono disporre gli invasi, facilmente intuibile sotto quel “desiderio d’occidente” che ha spinto gli aggressori della notte di Colonia a mimare a modo loro, violentemente, l’allegro e alcolizzato godimento che impazza in quella come in tante altre città europee a capodanno.

Dall’11 settembre in poi, dovremmo averlo capito una volta per tutte dalla scenografia hollywoodiana di quei due aerei che infilzarono le torri gemelle e stuprarono Manhattan (anche allora, guarda caso, si ricorse alla metafora dello stupro), gli atti di violenza e di terrore che in occidente vengono interpretati come se provenissero dall’altro mondo sono intrisi di tracce, tecniche, usi e costumi che provengono dal nostro. Altro che il ritorno delle tribù che qualcuno ha voluto vedere in azione a Colonia: la “superiorità” dell’occidente è dura a morire, e se non fa più ordine nel mondo reale detta ancora legge nell’immaginario globale. Gli “altri” vi si specchiano, anche quando le fanno violenza.

Fatti

Nel gioco degli specchi i fantasmi, si sa, sono di casa. E forse è per questo che sulla piazza di Colonia hanno preso forma e consistenza molto più rapidamente dei fatti reali. Sui quali c’è ancora, un mese dopo, parecchia nebbia. Di che cos’è accaduto quella notte sappiamo l’essenziale, ma parecchi particolari non secondari non li conosciamo e probabilmente non li conosceremo mai.

Un branco di giovani uomini, forse cinquecento forse mille, “di aspetto arabo e nordafricano”, ubriachi e assembrati dentro la stazione, si è riversato a gruppi nella piazza del Duomo circondando, derubando, palpeggiando e molestando pesantemente un centinaio di donne bianche perlopiù tedesche, da sole o in coppia con un’amica o con un uomo o in gruppo, il tutto nella completa passività della polizia che è stata a guardare senza rendersi conto di quello che stava accadendo, e comunque incapace di impedirlo.

Le ricostruzioni, basate sulle testimonianze femminili e sui rapporti della polizia medesima, descrivono dettagliatamente le molestie e le ruberie subite dalle donne; alcune vittime raccontano di aver temuto di rimetterci la pelle. Restano però aperti molti buchi. Chi erano, da dove provenivano, come erano arrivati lì quegli uomini, e perché li si era lasciati riunire nella stazione? Se erano tutti “di aspetto arabo e nordafricano”, come mai tra i 31 fermati per aggressione e rapina figurano anche uno statunitense e tre tedeschi? Erano anche loro nordafricani trapiantati negli Stati Uniti e in Germania, o la loro presenza segnala che bisogna andarci piano con le identificazioni fatte sulla base del colore della pelle?

Tra quei 31 fermati, 19 sono richiedenti asilo, e di questi uno solo è sospettato di molestie; secondo una testimonianza raccolta dal New York Times, inoltre, quella notte una turista statunitense è stata salvata da un cordone di siriani richiedenti asilo; qualche giorno dopo alcune centinaia di rifugiati siriani hanno manifestato contro la violenza, il razzismo e il sessismo. Questi numeri giustificano la messa in stato d’accusa della politica sui rifugiati di Merkel?

Ancora. La polizia, pur in stato di allerta contro il rischio di attentati, si è rivelata del tutto impotente a contenere e disperdere il branco di aggressori, e ha taciuto l’accaduto per quattro giorni, come pure la tv pubblica tedesca. Questa impotenza e questo silenzio si devono a una pruderie “politicamente corretta” a favore dei migranti, come s’è urlato in Germania e in Italia? O piuttosto alla sottovalutazione della violenza sessuale in un paese dove una donna su tre dice di averla subita da uomini che per il 70 per cento non sono arabi ma tedeschi, e in cui la notte di capodanno, come durante l’Oktoberfest, si chiude un occhio di fronte a qualche palpatina?

Infine ma non ultimo: violenze analoghe si sono verificate in contemporanea, quella stessa notte, in altre città tedesche e in Svezia, in Finlandia e in Austria, e questo fa legittimamente sospettare che si sia trattato di una provocazione concertata – un sospetto che a un certo punto è diventato una certezza, sparata sui giornali in prima pagina in Germania e in Italia, per poi essere smentita il giorno dopo. Possibile che i potenti mezzi dell’intelligence tedesca ed europea non sappiano rispondere sì o no a questo sospetto, pure cruciale per valutare l’entità dell’accaduto? Di nuovo: minimizzano per fare un piacere alla politica d’integrazione di Merkel, come sostiene l’opinione di destra? O perché considerano l’accaduto bagatelles pour dames, com’è lecito supporre?

Fantasmi

Non avremo mai risposta a queste domande, per la ragione molto semplice che la notte di Colonia ha ottenuto l’effetto che doveva ottenere a prescindere dallo svolgimento dettagliato dei fatti. E l’effetto consiste in una rapida e potente mobilitazione dell’immaginario europeo, nonché di quello islamico, in materia di sesso e razza: due fattori che quando si intrecciano, e oggi sulla scena globale si presentano sempre intrecciati, sono capaci di produrre miscele esplosive.

Sul versante islamico, ci auguriamo che non faccia testo la convinzione dell’imam di Colonia che le donne, quella notte, le molestie se le sono cercate, coperte com’erano più di profumo che di abiti: ma certo le sue dichiarazioni “estreme” la dicono lunga sul regime del dicibile che autorizza quella che dovrebbe essere una guida spirituale a istituzionalizzare la segregazione femminile (e del resto, come scandalizzarci? Quante volte il “se l’è cercata” giustifica tuttora, da noi, la violenza sessuale?).

Sul lato occidentale, l’antico fantasma coloniale della mano nera che violenta la donna bianca, ben rappresentato dal disegno del Süddeutsche Zeitung, è tornato a materializzarsi, aggiornato, in un’Europa ossessionata da frontiere vacillanti, migrazioni incontenibili, calo della natalità, pericolo terrorista, declino economico, impotenza neoliberale, fallimento politico.

L’aggiornamento del fantasma coloniale significa, in questo quadro, il suo automatico reclutamento nel presunto “scontro di civiltà” in corso. L’uomo nero diventa l’islamico che inferiorizza le donne, proprie e altrui, e attraverso l’attacco alle donne bianche attacca l’intera civiltà occidentale, che invece le donne le ama, le emancipa, le libera, le tutela con i diritti, le presidia con i “suoi” uomini, pronti a scendere in campo a difesa delle “loro” donne.

Ne consegue l’arruolamento delle donne nella difesa della civiltà occidentale suddetta, con relativa messa all’indice delle disertrici: quelle che ad arruolarsi non ci stanno, quelle che sulla civiltà occidentale e sul suo amore per le donne nutrono qualche dubbio, quelle che la violenza contro le donne la vedono anche in occidente e non solo in Medio Oriente, quelle che sulla difesa dei “loro” uomini avanzano qualche sospetto, quelle che nei confronti delle donne musulmane non ergono il muro dei diritti conquistati o la montagna dei vestiti comprati agli ultimi saldi, ma lanciano il ponte di una tessitura comune della libertà femminile.

Noi femministe, in sostanza, iscritte d’ufficio al fronte nemico dell’ipocrisia “politicamente corretta” verso il fanatismo islamico. Salvo ritrovarsi poi, i nostri accusatori, con le statue del Campidoglio coperte in omaggio al presidente iraniano Rohani per decisione di stato o di governo.

Streghe

“Dove sono le femministe?”. Quando ancora le notizie da Colonia arrivavano goccia a goccia, è partita la caccia alle streghe. Trovato il colpevole numero uno, l’uomo nero, la grancassa mediatica, maschile e femminile, è partita alla ricerca della colpevole numero due, la femminista bianca. Rea di tacere, di nascondersi, di non condannare, di colludere con i migranti e con la sinistra che difende (difende?) i migranti, di rompere le scatole ai “suoi” uomini su qualunque quisquilia come fosse una barbarie e di chiudere gli occhi sulle nefandezze dei barbari “veri”.

Le femministe, nel frattempo, a Colonia erano già per strada, a manifestare contro il sessismo e contro il razzismo insieme. E ovunque, in Europa e fuori dell’Europa, erano all’opera per fare il contrario dei talk show e della stampa generalista: capire una situazione nuova e complicata e interpretarla non istericamente, due cose che l’isteria massmediatica non contempla.

E parlavano ovunque potessero, cioè fuori del circuito ufficiale dell’informazione che non le interpella in modo da poterle accusare di stare in silenzio, di essersi dileguate, di non esistere, di avere perso. Parlavano e dicevano quello che ovunque, a est a ovest, a nord e a sud, vanno dicendo dall’11 settembre in poi: che non si lasciano arruolare in nessuno scontro di civiltà per la buona ragione che le civiltà in questione sono entrambe marcate dal patriarcato, entrambe fratturate al loro interno dalla contraddizione fra i sessi ed entrambe segnate, positivamente, dal conflitto tra i sessi innescato dalle donne.

Ragion per cui la trave nell’occhio dell’altro non ci esime dal guardare la pagliuzza nel nostro. E l’orgoglio per le nostre conquiste di donne occidentali non ci esime dal riconoscere le battaglie di libertà delle donne non occidentali.

Monopòli

Non c’è il monopolio islamico della violenza e dell’inferiorizzazione femminile. E non c’è nemmeno il monopolio occidentale e democratico della libertà femminile.

Le molestie della notte di Colonia evocano a tutte noi situazioni molto familiari. Gli sguardi eccitati e fra loro complici degli uomini che tuttora si ritrovano da soli nei bar dei nostri paesi. I branchi di giovani maschi che molestano le studentesse, e talvolta le stuprano, nelle nostre scuole. Il senso di insicurezza e vulnerabilità che ci accompagna specialmente la notte per strada, come una seconda pelle. I racconti di stupri, violenze, femminicidi che riempiono le pagine di cronaca dei nostri giornali. I fraintendimenti maschili sulla disponibilità sessuale femminile che riempiono la posta del cuore dei nostri settimanali.

Potremmo continuare ma non serve: la violenza di uomini contro le donne è, purtroppo, uno dei pochi esempi di comportamento universale che il mondo globale ancora conosce. E non diminuisce ma tende addirittura ad aumentare nei paesi dove l’emancipazione femminile è più consolidata. La hybris maschile non si ferma davanti ai diritti costituzionalmente garantiti, alla parità di genere, alla cittadinanza, all’attività lavorativa e al protagonismo politico delle donne: al contrario, sembra che se ne alimenti, forse perché ne ha paura.

Questo significa che non c’è nessuna parentela automatica, nessun rapporto di causa-effetto tra la civiltà occidentale e la libertà femminile. La civiltà occidentale e gli stati moderni nascono, ci tocca ricordarlo con Freud e Hobbes, da un patto tra uomini violenti, che si emancipano dall’autorità paterna e se ne spartiscono l’eredità escludendo le donne dalla vita pubblica e sottomettendole in quella privata. Nel corso della modernità, la libertà non è stata regalata alle donne dalla civiltà occidentale: sono le donne ad averla conquistata con le loro lotte anche contro la civiltà occidentale.

Le democrazie contemporanee registrano a fatica questa conquista, traducendola e spesso tradendola nel linguaggio della parità e dei diritti. Ma tra la libertà femminile e gli ordinamenti occidentali resta aperta una tensione: la libertà femminile resta affidata in primo luogo alle donne stesse, alle loro lotte e alla loro autonomia. Men che meno è possibile identificare la libertà femminile con la libertà di mercato o con un non meglio precisato “stile di vita occidentale”, come l’ideologia neoliberale martellante ci invita a fare dalle colonne dei principali giornali italiani.

Vestirsi o andare al cinema e in discoteca a proprio piacimento sono certo cose piacevoli e irrinunciabili, ma possono sottintendere condizioni di dipendenza dal mercato, dal denaro, da canoni imposti, dallo sguardo altrui che hanno poco a fare con la libertà esistenziale e politica che abbiamo guadagnato con il femminismo. L’occidente non è l’Eden della libertà femminile: ed è solo assumendo questa posizione critica nei confronti della “nostra” civiltà che possiamo sporgerci su altri mondi, o sull’impatto di altri mondi con il nostro.

Differenze

Quando diciamo o scriviamo queste cose, alcune amiche ci rimproverano di usare il patriarcato come categoria universale indifferenziata, finendo col fare di ogni erba un fascio senza vedere che il patriarcato si intreccia con differenti sistemi di dominio, si cristallizza in differenti gradi di oppressione femminile e di sopraffazione maschile, domanda differenti strategie di lotta. Non è così. Siamo ben consapevoli, tristemente consapevoli, che oggi la radicalizzazione politico-religiosa peggiora la vita delle donne nei paesi islamici, legittimando su base ideologica il dominio maschile.

Siamo consapevoli che la violenza sulle donne è diventato per il gruppo Stato islamico e per Boko haram uno spietato carosello pubblicitario, che sulle donne di piazza Tahrir si è scaricata la frustrazione maschile di una rivoluzione perdente, che in paesi come l’Afghanistan taliban le donne sono di nuovo costrette a una segregazione che sembrava essere stata superata. E sappiamo di essere inadeguate di fronte a questi come ad altri effetti delle guerre e del disordine mondiale di oggi, perché le guerre impediscono in radice quella pratica di relazione con l’altra che nella politica delle donne è irrinunciabile e che l’indignazione e gli attestati di solidarietà, per quanto urlati, non possono sostituire.

Sappiamo altrettanto bene che le migrazioni non risolvono ma moltiplicano il problema dei rapporti fra i sessi. Ci si attribuisce oggi l’onere della prova che per noi la difesa della libertà femminile viene prima del buonismo sulle politiche dell’accoglienza. Rimandiamo questa richiesta ai suoi mittenti. Non siamo state certo noi a parlare, per anni, di migranti e di rifugiati in modo neutro, come se la condizione di migranti o di rifugiati cancellasse la differenza sessuale. Non la cancella, e non ci volevano i fatti di Colonia per accorgersi che l’accoglienza e la cosiddetta integrazione non sono due pranzi di gala. Non ci volevano i fatti di Colonia per accorgersi che norme e consuetudini delle comunità straniere fanno quasi sempre a pugni con le nostre, che le difficoltà di integrazione spesso le irrigidiscono ulteriormente inasprendo la segregazione femminile al loro interno, che le donne sono sempre, in pace come in guerra, posta in gioco di uno scambio sociale che gli attriti culturali rendono arduo e talvolta impraticabile.

Né ci volevano i fatti di Colonia per realizzare – ohibò – che una politica dell’accoglienza che non tenga conto della differenza sessuale è una cattiva politica. Laddove si creano ghetti di soli maschi, che siano islamici o no, il pericolo del branco è sempre in agguato. Laddove si organizzano e si tollerano tratte femminili, la prostituzione e il suo sfruttamento sono garantiti. E tuttavia, ci sarà pure da riflettere di fronte al fatto che è dal versante maschile dei migranti che emerge il problema di una minaccia violenta alla convivenza sociale.

Sono più uomini che donne a reagire aggressivamente all’urto dell’impatto con i paesi d’accoglienza. E sono più donne che uomini – si pensi alle migliaia di badanti che vivono e lavorano in Italia, o alle donne che lavorano nei centri d’accoglienza o nella mediazione culturale o nell’insegnamento delle lingue ai migranti – a occuparsi della cura della vita e delle relazioni fra mondi diversi, continuando l’opera femminile della civiltà che la violenza maschile nasconde e disfa.

Questa almeno è una buona notizia; e non è l’unica, se solo guardiamo a quello che sta accadendo considerando le donne come soggetti attivi, e non come oggetti passivi, del cambiamento in corso.

Cori noir

È bastata l’aggressione di una notte a Colonia e nelle altre città coinvolte per trascinarci in un baleno tutte, occidentali e nordafricane, nella casella delle vittime designate, pericolanti e perdenti del supposto “scontro di civiltà” in atto. Ma la vittimizzazione delle donne è una delle più frequenti strategie del loro addomesticamento: serve a nascondere e a deprimere la soggettività femminile e le pratiche sociali, politiche, artistiche in cui si esprime.

Ovunque oggi, in un quadro planetario attraversato da faglie, guerre e mutamenti inediti, le donne lottano per la propria libertà, ovunque aprono conflitti con l’altro sesso, ovunque escono dagli schemi imposti, ovunque tradiscono le ingiunzioni normative sulla loro esistenza, ovunque intrecciano relazioni con donne di cultura e provenienza diverse. Questo “ovunque” vale da mezzo secolo in qua, lo ricordiamo a quanti sui mezzi d’informazione ci danno per morte e per sconfitte ogni volta che possono, nelle democrazie occidentali. Ma vale oggi, in primo luogo, per il mondo musulmano.

Lo sappiamo da analiste competenti, che inascoltate ci spiegano le differenze, le articolazioni, le combinazioni tra legge religiosa e leggi statuali interne a quel mondo, e le connesse differenze nella condizione, nella soggettività e nella rivolta femminili. Lo sappiamo dalle migranti che incontriamo nella nostra quotidianità, dalle storie che ascoltiamo nei centri antiviolenza a cui le più sfortunate si rivolgono per trarne la forza di ribellarsi a un padre o a un marito o un fratello, dalle testimoni sopravvissute alle guerre, dalle protagoniste delle rivolte.

Lo sappiamo dai racconti delle scrittrici, dalle opere delle artiste, dai film delle registe, dal pensiero delle filosofe, dalle letture del Corano delle teologhe. E sappiamo anche che la strada della libertà delle donne musulmane non passa sempre né necessariamente per la loro occidentalizzazione, vale a dire per un’emancipazione laica, giuridicamente assistita dalla sintassi dei diritti e dalla retorica della parità, e tanto ribelle all’ingiunzione a velare il corpo femminile quanto obbediente all’opposta ingiunzione a scoprirlo.

Ci dissociamo perciò nettamente dal coro noir che ha accompagnato sui mezzi d’informazione italiani ed europei i fatti di Colonia. La voce delle donne, quando la si ascolta e non la si mette a tacere, racconta una realtà ben più articolata di quella di una regressione generalizzata al patriarcato tribale degli uomini ambrati e barbuti che dal Medio Oriente allunga la sua ombra minacciosa sulle donne europee. La diagnosi andrebbe piuttosto ribaltata.

C’è una generalizzata crisi del patriarcato che ovunque, a ovest e a est, a nord e a sud del mondo perde il credito femminile. Con buona pace delle fantasie alla Houellebecq, la sottomissione femminile non è più garantita né sotto le insegne dell’islam né sotto quelle cristiane o di altre religioni. E la libertà femminile non passa solo per le magnifiche sorti e progressive della democrazia laica.

Nel mondo globale la legge del padre, che nella modernità ha assicurato il suo supporto simbolico agli ordinamenti politici e statuali, non fa più ordine. In questo disordine si aprono molti varchi per atti di violenza maschile nostalgici e reazionari, ma se ne aprono altrettanti per costruire pratiche di libertà femminile e reti di relazione tra donne, che tradiscono l’appartenenza a questa o quella civiltà e ai rispettivi feticci e inventano forme inedite di politica basate sullo scambio, il conflitto e la mediazione tra esperienze, storie, radici, orizzonti di senso differenti.

Bocche velate

L’ascolto dell’altra e dell’altro, della sua esperienza e della sua storia, delle sue esigenze e dei suoi desideri, dei suoi traumi e delle sue risorse, è una condizione necessaria per ritessere la trama della civiltà in una direzione opposta allo scontro tra le civiltà. Non ci aiuta e anzi ci è di ostacolo, in questo, il frastuono della macchina mediatica italiana, tutta programmata non per ascoltare ma per urlare.

Abbiamo già detto della caccia alla strega femminista che è scattata subito dopo i fatti di Colonia, una strega accusata, senza essere interpellata, di silenzio colpevole, di connivenza con l’ipocrisia favorevole ai migranti politicamente corretta, di usare due pesi e due misure contro gli uomini di casa sua e contro gli stranieri. Ma non è un problema che nasce a Colonia: questo schema si ripete, insopportabilmente uguale, a ridosso di qualunque evento che chiami in causa le relazioni tra i sessi. La molla che scatta è sempre la stessa, il tentativo di liquidare il femminismo e le femministe decretando che hanno perso e distorcendone o sminuendone le posizioni.

La futilità programmatica che non da oggi caratterizza buona parte del giornalismo italiano si fa, quando c’è di mezzo il femminismo, più approssimativa e grossolana. Come se parlando di donne tutto fosse lecito, come se la cronaca non avesse precedenti, come se la parola femminile non contasse niente, come se le posizioni politiche e culturali femministe non avessero il diritto alla distinzione, all’analisi, alla discussione che si riserva alla chiacchiera maschile: e soprattutto come se non esistessero nella loro autonomia, ma solo come appendici subalterne della sinistra e della destra, o comunque di schieramenti e conflitti disegnati altrove.

Un immaginario misogino, maschile e femminile, prende così il posto dell’analisi della realtà. E la delegittimazione del femminismo diventa una posta in gioco, nient’affatto secondaria, di qualunque “guerra culturale”: accompagnata, va da sé, dalla promessa che ci penseranno i “nostri” uomini, d’ora in poi, a difenderci da quello che non siamo in grado di contrastare noi.

Questa prassi corrente dei mezzi d’informazione mainstream non è meno violenta delle mani maschili che si sono infilate sotto i vestiti delle donne la notte di Colonia. E dice, torna a dire, che ogni qual volta è sotto attacco il corpo femminile, è la parola femminile il vero obiettivo, la vera minaccia, il target da abbattere: qui, nell’occidente della libertà di espressione, non lì, nel Medio Oriente delle bocche velate. Abbiamo scritto questo testo per mostrare che quella parola è viva e non si lascia silenziare.

—————————————

Qui è possibile scaricare il pdf di questo articolo. Qui c’è la traduzione in inglese.

Prime adesioni: Maria Luisa Boccia, Maria Rosa Cutrufelli, Elettra Deiana, Sara Gandini, Diana Sartori, Tamar Pitch, Chiara Zamboni, Luana Zanella, Edda Billi, Maria Brighi, Paola Mastrangeli, Rosanna Marcodoppido, Marinella Perroni, Ilaria Fraioli, Carlotta Cerquetti, Giovanna Borrello, Sandra Macci, Daniela Dioguardi, Vittoria Tola, Susanna Menichini …

Questo testo nasce da un incontro sui fatti di Colonia alla Casa internazionale delle donne di Roma, dove sarà presentato e discusso in un convegno il 14 febbraio 2016 (via di San Francesco di Sales, 1, sala Carla Lonzi, dalle 10 alle 15). Per info, adesioni e interventi visitare la pagina suglispettridicolonia.