Le strade del dialogo

di Carlo Molari
in “Rocca” n. 2 del 15 gennaio 2009

Il Senatore Marcello Pera fra gli interessanti problemi esaminati nel suo ultimo libro (Perché
dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo. L’Europa. L’etica, Mondadori, Milano 2008) ne affronta
alcuni di rilevanza teologica. Uno dei più delicati è il tema del dialogo interreligioso, sul quale
vorrei soffermarmi dettagliatamente per l’importanza dottrinale e pratica che esso ha oggi nella
chiesa cattolica. Egli si interroga in modo concreto: «Fra islam, cristianesimo e ebraismo può
esserci una forma di convivenza?» (p. 127). Per articolare una risposta considera per prima la scelta
di dialogo compiuta dalla Chiesa cattolica, scelta che egli giudica impraticabile. Scrive con molta
chiarezza: «Una risposta tentata da parte della Chiesa cattolica fin dalla Nostra Aetate del Concilio
Vaticano II, e ancor di più dopo, è quella del dialogo inter-religioso. Ma è una via condannata ad
infrangersi fin dall’inizio» (ib.). Le ragioni addotte per questa valutazione si richiamano al fatto che
le «religioni rivelate» non potrebbero mettere in gioco le loro convinzioni, come invece un vero
dialogo esige. Si chiede: «Come può esistere un autentico dialogo inter-religioso, se le religioni,
massime le monoteiste e rivelate, sono sistemi olistici, ciascuno con la propria verità e i propri
criteri per accertarla? Se il fedele in una religione non può ammettere la verità dell’altra? Chi dice
Ego sum veritas esclude che un altro possa dire altrettanto. Ma in senso tecnico e stretto, il dialogo
presuppone precisamente l’esatto contrario: che gli interlocutori siano disponibili alla revisione e
anche al rifiuto delle verità con cui iniziano lo scambio dialettico. Il dialogo non ha senso se, fin
dall’inizio, ciascuno dice: «questa è la verità e non la cambierò mai» (pp. 127128). L’unica
possibilità, quindi, resterebbe il dialogo interculturale nel quale i sistemi religiosi si confrontano
non tanto sulle convinzioni o verità, bensì sulle loro «conseguenze culturali» (ib. p. 131). Di queste
infatti si possono dare valutazioni di valore. Infatti «si può dire che una è migliore dell’altra, dove
‘migliore’ significa che riconosce e rispetta più diritti fondamentali, soddisfa più aspettative, consente
istituzioni politiche più efficienti, più trasparenti, più democratiche, eccetera» (ib. p. 131).
Non confrontandosi direttamente sulle dottrine i dialoganti non ci si chiedono: «quale religione è
‘vera’ o `falsa’, ma quale religione produce le migliori o peggiori conseguenze culturali» (p. 132).
Vorrei invece mostrare che se il dialogo interreligioso in senso stretto presenta difficoltà, tuttavia
per la Chiesa cattolica esso ha un valore notevole anche in ordine alla conoscenza della verità e non
può essere ricondotto a un semplice confronto sulle conseguenze culturali della pratica religiosa,
che pure resta importante. A questo scopo richiamo alcuni dati fondamentali della dottrina cattolica,
per poi riflettere sui limiti della riflessione del Senatore Pera su questo punto specifico.
dialogo interreligiosoLa Chiesa cattolica considera il dialogo interreligioso un suo dovere
impellente non come semplice mezzo di conoscenza degli altri, ma come ambito di ascolto
della Parola rivelatrice e di accoglienza dell’azione dello Spirito Santo.
Questa ragione teologica del dialogo interreligioso non era stata indicata esplicitamente dalla
dichiarazione Nostra Aetate (28 ottobre 1965) che ha compiuto solo i primi passi nella nuova
direzione. Ha affermato però che l’amore di Dio e il suo piano di salvezza riguardano tutti gli esseri
umani; e inoltre che tutti i popoli provengono da un’unica origine, hanno un fine comune e sono
chiamati a formare una sola comunità. Il dialogo si fonda appunto sulla origine di tutti da Dio e sul
destino unico al quale sono chiamati attraverso l’offerta di salvezza in Gesù Cristo. Il Concilio
inoltre nella Costituzione pastorale ha indicato anche una ragione ulteriore e, in certo senso, più
ampia del dialogo quando ha asserito che «è dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori
e dei teologi, con l’aiuto dello Spirito Santo di ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari
modi di parlare del nostro tempo, e di saperli giudicare alla luce della Parola di Dio»; e tutto questo
affinché «la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venire
presentata in forma più adatta» (GSp 44 EV 1, 1461). Paolo VI, che pure nell’Enciclica Ecclesiam
Suam (1967) ha impostato tutto il suo ministero sul dialogo, non ha sviluppato appieno tale
indicazione conciliare. Solo con Giovanni Paolo II le ragioni del dialogo interreligioso sono state
evidenziate con insistenza. Egli ha più volte indicato come ragione impellente del dialogo
interreligioso la luce del Verbo eterno e la presenza attiva dello Spirito Santo nelle varie religioni.
Nell’enciclica Redemptoris Missio (1990) egli afferma che il dialogo «è richiesto dal profondo
rispetto per tutto ciò che nell’uomo ha operato lo Spirito, che soffia dove vuole, con esso la Chiesa
intende scoprire i «germi del Verbo», i «raggi della verità che illumina tutti gli uomini», germi e
raggi che si trovano nelle persone e nelle tradizioni religiose dell’umanità». Così «le altre religioni
costituiscono per la Chiesa una sfida positiva: la stimolano, infatti, sia a scoprire e riconoscere i
segni della presenza di Cristo e dell’azione dello Spirito, sia ad approfondire la propria identità e a
testimoniare l’integrità della Rivelazione, di cui è depositaria per il bene di tutti». Il dialogo perciò
comporta «la testimonianza reciproca per un comune progresso nel cammino di ricerca e di
esperienza religiosa, e al tempo stesso, per il superamento di pregiudizi, intolleranze e malintesi»;
perciò esso «tende alla purificazione e conversione interiore» (n. 56).
Nella stessa linea il documento Dialogo e Annuncio (1991) afferma: «Il dialogo inter-religioso
raggiunge un livello assai più profondo, che è quello dello spirito… Mediante il dialogo, i cristiani e
gli altri sono invitati ad approfondire il loro impegno religioso e a rispondere, con crescente
sincerità, all’appello personale di Dio…» (n. 40). Perciò lo scopo del dialogo interreligioso è «una
conversione più profonda di tutti verso Dio» (n. 42). Una ragione chiara quindi del dialogo
interreligioso è la ricerca della piena verità che per la chiesa continua nel tempo e che può trovare
risposta anche attraverso il confronto con la Parola che risuona nelle altre esperienze religiose e con
l’accoglienza dei frutti che lo spirito fa fiorire in loro. Espressamente scrive Dialogo e Annuncio: «la
pienezza della verità ricevuta in Gesù Cristo non dà ai singoli cristiani la garanzia di aver assimilato
pienamente tale verità. In ultima analisi, la verità non è qualcosa che possediamo, ma una Persona
da cui dobbiamo lasciarci possedere. Si tratta quindi di un processo senza fine. Pur mantenendo
intatta la loro identità, i cristiani devono essere disposti a imparare e ricevere dagli altri e per loro
tramite i valori positivi delle loro tradizioni» (n. 49). Il dialogo quindi conduce ad un vero
arricchimento nell’ambito della verità. Il suo scopo è che i cristiani e i seguaci delle altre tradizioni
religiose giungano tutti ad accogliere l’invito di Dio ad entrare nel mistero della sua pazienza, come
esseri umani che cercano la sua luce e la sua verità. Dio solo conosce i tempi e le tappe del
compimento di questa lunga ricerca umana (cfr. Dialogo e Annuncio, n. 84).
Evidentemente in tutte le religioni esistono anche il peccato e l’i
nfedeltà. Per questo precisa lo
stesso documento: «Affermare che le altre tradizioni religiose contengono elementi di grazia, non
significa che tutto in esse sia frutto di grazia. Il peccato agisce nel mondo e quindi le tradizioni
religiose, malgrado i loro valori positivi, riflettono anche i limiti dello spirito umano che a volte è
incline a scegliere il male (…). Là dove è necessario bisogna riconoscere che esiste incompatibilità
tra certi elementi essenziali della religione cristiana e alcuni aspetti di queste tradizioni» (n. 31).
fede e dottrina
Evidentemente queste argomentazioni valgono solo per chi ha fede nell’azione di Dio nella storia
umana attraverso la sua Parola e il suo Spirito. È comprensibile che il Senatore Pera, da laico come
si proclama, non consideri questo aspetto. Egli pensa la fede esclusivamente come «conoscenza» e
la identifica perciò con la dottrina. Mentre per il cristiano la fede è «abbandonarsi fiduciosamente a
Dio, prestando l’ossequio dell’intelletto e della volontà» (Concilio Vaticano II, Dei Verbum n. 5). La
fede perciò non consiste semplicemente nel ritenere che Dio esista (= credenza) o nell’accogliere
alcune verità rivelate. Ma è sintonia con l’energia arcana che alimenta il cammino nella storia e
ovunque viene accolta fa risuonare parole nuove, fa conoscere verità inedite, e fa fiorire forme
ignote di amore. La fede è quindi un atteggiamento vitale di fiducia secondo cui la persona si affida
interamente a Dio come al principio «per cui tutti vivono» (cfr. Lc 20,38) e l’intelletto si apre a
conoscenze nuove. Esse possono essere colte e interiorizzate da coloro che in ricerca attenta di Dio
ne scoprono le tracce e le seguono. Chi riduce la fede a semplice credenza dialogando resta sempre
a livello culturale, ma chi esercita la fede come abbandono fiducioso in Dio, diventa mendicante
della sua Parola e pellegrino alla ricerca dei frutti dello Spirito ovunque essi maturano.