Cristianesimo lefevriano?

di Giancarla Codrignani

La prima volta che, nella cappella Sistina, Benedetto XVI celebrò dando le spalle al popolo, gli cadde l’anello e un monsignore dovette chinarsi a recuperarglielo. Le casualità assumono valore simbolico e vengono in mente quando fatti più rilevanti e contraddittori fanno pensare quanto il Padre eterno possa essere contento dei suoi figli o – che è lo stesso – come faccia bene se allontana il suo volto dalla nostra realtà.

Che il Concilio Vaticano II non andasse bene ai tradizionalisti è sempre stato chiaro. Infatti Giovanni XXIII, che non era ignaro né di essere stato designato perché, anziano, doveva essere “un Papa di transizione”, né di trovarsi circondato da conservatori impenitenti presentò la notizia del Concilio nel più imprevedibile dei modi: il 25 gennaio 1959 si presentò – dopo la messa e l’Omelia a conclusione della settimana per l’unità dei cristiani – nella sala capitolare di san Paolo e annunciò alla stampa e al mondo prima che al sacro collegio cardinalizio la grande novità.

L’imprevista decisione fu accolta dall’ossequioso consenso interno e, successivamente, dal rispetto di Paolo VI che quel Concilio proseguì e chiuse e dalle citazioni confermative dei successori. Anche di Benedetto XVI. Non si può, infatti, definire eretico un Concilio teologicamente sempre presieduto dalla Spirito santo. Ma qualcuno certamente lo ha pensato: il timore che una Chiesa più umana diventasse meno potente indusse, infatti, parte del clero alla rimozione, alcuni alla contestazione, mentre gran parte del “popolo di Dio” si apriva alla speranza.

Lo scisma di mons. Lefebvre fu condannato dalla scomunica di Giovanni Paolo II: conoscendo l’uomo e la storia, risulta evidente che Wojtyla definiva l’errore patente. Oggi è scandaloso che, senza pentimento, Papa Benedetto abbia cancellato quella scomunica, proprio a conclusione della settimana dell’unità e dopo che uno dei quattro vescovi lefevriani, Richard Williamson, si è espresso in termini negazionisti dell’Olocausto (come se già non fosse bastata la rottura con gli ebrei a causa della preghiera per la loro conversione da qualche anima pia definita non intenzionale, come se in Curia fossero tutti analfabeti).

Adesso il Papa, uno che privilegia il logos della ragione, dovrebbe spiegare come possano convivere nelle sue parole l’elogio anche recente del Vaticano II e il tradizionalismo bigotto della Fraternità di san Pio X.

I laici che vogliono mantenersi credenti si interrogano sulla volontà della Chiesa di farsi del male. Teologicamente è un assurdo riconoscere che Gesù era ebreo e continuare con l’antisemitismo subdolo, ed è un assurdo non dare slancio all’ecumenismo ormai, al massimo, limitato agli ortodossi, proprio in un tempo in cui si mondializzano le religioni e i cristiani disuniti non sono segno di pace agli altri mentre l’Occidente incontra un Islam che, nato nello stesso seno monoteista, non può finire nella logica perversa amico-nemico.

Ma la Chiesa si fa ancor più male perché conosce le statistiche dell’abbandono crescente della pratica cattolica (oltre a quelli interni al clero e agli ordini religiosi, sa i dati circa il numero delle vocazioni, delle pratiche dei sacramenti, delle chiese chiuse o vendute e le indagini dell’Istat, del Comune di Milano, di Critica liberale e il libro di A. Castagnaro Religione in stand-by) e ha paura. Come ha paura della scienza, delle prospettive etiche diversificate, della libertà degli uomini e delle loro libere istituzioni. Non era mia neppure la teologia di Papa Wojtyla; ma né io né nessuno dimentica il suo “non abbiate paura”.

La chiesa cattolica – e, forse, ogni chiesa, come ogni essere umano – ha paura del futuro. Ma una cosa è condividere la debolezza di non avere capacità di antivedere e di prevenire guai prevedibili, un’altra è imporre come universali proprie determinazioni non argomentate, non ospitare la condizione problematica delle altre chiese e non aprire a tutti gli uomini, credenti e non credenti, la via della speranza. Senza la speranza non è comunicabile né credibile la fede ordinata sul dogma, o il richiamo predicatorio all’amore non fondato gratuitamente sull’uguaglianza dei figli di Dio, cioè di tutti. Solo l’attenzione ai “segni” – che cinquant’anni fa erano l’avanzamento dei lavoratori, delle donne e dei popoli oppressi, e che oggi si sono diversamente moltiplicati – dà senso (e consenso) alla Chiesa. Il ritorno di un prete che non condivide, ma interpreta il Cristo è un esempio triste, lontano dalla convivialità evangelica. Data l’ignoranza storica degli italiani anche nella pratica religiosa, rafforzarne la regressione che “segno” é? Davvero deve cadere l’anello simbolico solo di un potere?