La legge di dio e quella dell’uomo

di Roberta De Monticelli
in “la Repubblica” del 25 gennaio 2009

Caro Direttore, “Nessuna legge umana può andare contro le coscienze costringendoci a commettere
atti che sono in grave contrasto con i nostri convincimenti più profondi” Così il Cardinal Poletto in
una recente intervista su “Repubblica”. Questo è un principio importantissimo, ed è la ragione per la
quale, di fronte a questo terribile rischio, la nostra età adulta ci ha resi consapevoli della necessità di
distinguere fra religione, morale e diritto. Questa distinzione è uno degli strumenti che abbiamo
trovato per evitare che le coscienze possano cadere soggette all’arbitrio del potere, quando è
(diabolicamente) legittimato dal nome di Dio, che non è mai quello di Cesare se dobbiamo credere
al vangelo.
Le distinzioni però vanno prese sul serio. Allora fermiamoci sulla prima: quella fra diritto e morale.
In questione è la necessità di una legge sul testamento biologico, improrogabile necessità che il caso
Englaro ha così dolorosamente messo in luce, dando un senso profondo e luminoso alla tenacia di
questo nostro concittadino. Perché dove mai sarebbe il sia pur minimo dubbio sul da farsi dopo tanti
anni, se la volontà di Eluana fosse scritta a chiare lettere. Ma allora bisogna dirlo, che una legge
dello Stato in queste discipline permette e non obbliga, dunque certo non si sostituisce all’ultimo
giudizio della coscienza morale individuale, ma ha al contrario il preciso scopo di non sostituirvisi.
Questo è il fondamento della distinzione fra diritto e morale: non certo il relativismo della morale,
ma la circostanza che l’ultima parola della coscienza personale non può essere scritta in forma di
legge di uno Stato, in tutti i casi in cui non c’è consenso universale sull’illiceità morale di
determinati comportamenti. Dove questo consenso non c’è, o non c’è ancora, legittima può essere
ogni battaglia – nichilistica invece la negazione della verità. Ogni legge che tutela una libertà civile,
per definizione, non “costringe” nessuno a fruire del diritto che accorda: e nichilistico è negare
questa verità, come sembra fare purtroppo il cardinal Poletto e come fece la gerarchia della chiesa al
completo quando fu lanciata la campagna “non si vota sulla vita”, giocando purtroppo sull’ignoranza
popolare della distinzione fra permettere e costringere. Infine, per i casi in cui una legge che tuteli
una libertà civile possa, nella sua applicazione, confliggere con la coscienza morale di qualcuno, c’è
indubbiamente la possibilità dell’obiezione di coscienza. Cosa ben diversa (e non è nichilistico
negare anche questa distinzione?) dall’ingiunzione dell’autorità politica che minaccia sanzioni
economiche a chi sia disposto ad applicare un una legge.
Ma poiché le distinzioni vanno prese sul serio, il ragionamento non è ancora finito. C’è anche la
seconda distinzione, quella fra religione e morale. Supponiamo che una persona si trovi in una
situazione analoga a quella in cui si trovò Piergiorgio Welby. E che, a differenza di lui, compia una
scelta di completo e fiducioso abbandono, una scelta che addirittura prescinde dalla difesa della
propria dignità e dall’eticamente sacrosanto desiderio di morire in pace. Questa può ben essere la
scelta sublime di un uomo di fede, può ben essere una scelta d’amore. Ma ci sarebbe cosa più
abominevole dell’ipotesi che questo amore sia imposto (e per via di legge) da un uomo a un altro
uomo? Qualcosa di più religiosamente nichilistico che trasformare una grazia in un dovere? Non è
appunto l’abissalità di questi consensi, di questi affidamenti supremi, come è ogni atto di fede (il
sacrificio di Abramo, per esempio, o quello di Cristo!), a esigere la più gelosa, la più
imprescrittibile, la più silenziosa ultima libertà che una coscienza ha di consentirvi o no?
Le distinzioni vanno prese sul serio, perché dove non c’è logica non ci può essere verità, e dove non
c’è più verità non c’è più né morale, né diritto, né religione. Ma solo nichilismo. Non “pietoso”,
però, come quello che Dostoevskij attribuiva al Grande Inquisitore. Impietoso piuttosto, e
soprattutto – se verità è un nome di Dio – empio.