Ricostruire la sfera pubblica e gli spazi della politica

Patrizia Politelli
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Pubblichiamo il testo della relazione che Patrizia Politelli ha tenuto al primo degli incontri seminariali che si terranno alla Casa Internazionale delle Donne di Roma e che avranno periodicità mensile.

Al primo incontro che si è tenuto il 26 gennaio Patrizia Politelli ha aperto i lavori con una relazione che tra le altre cose ha messo in evidenza come alcuni passaggi dell’intervento fatto da Obama nel giorno del suo insediamento facciano riferimento a dei concetti portanti del pensiero di Hanna Harent.
Il dibattito che ne è seguito è stato serrato ed interessante grazie anche agli stimoli messi in campo da Politelli, per tanto ci sembra interessante pubblicare qui di seguito la sua relazione e la bibliografia proposta, sperando che nello spazio delle opinioni, aperto a chi legge, possa essere ripreso anche su queste pagine il confronto.

Le ragioni del tema

Quando, ad ottobre, negli Stati Uniti non era ancora successo niente, mi sentivo semplicemente sopraffatta dalla insostenibilità della pesantezza di vivere in un mondo in cui individualismo selvaggio, violenza, sopraffazione, esclusione si diffondessero senza più argine.
Non solo venivano teorizzate (Lega, in particolare) ma venivano praticate con una crescita esponenziale che non ammetteva più il silenzio.
Era lettura quotidiana lo stupro di donne e coppie, l’incendio di qualche barbone, l’accoltellamento di qualcuno che non dava una sigaretta o non soggiaceva al riconoscimento o alla volontà perversa di qualche gruppo di bravi, l’assalto ai campi rom, l’attacco e il tentativo di annientamento di cosiddetti extracomunitari.

Assistevamo al disfacimento, anche formale, di diritti che pensavamo acquisiti ed irreversibili, allo scempio dell’istruzione pubblica, all’annientamento di ogni forma di pubblico dibattito argomentato e sensato.

Il linguaggio della maggior parte dei rappresentanti istituzionali (non voglio dire della politica) era diventato talmente vuoto e depravato, rabbioso e inconsistente da far temere per la stessa sopravvivenza di qualunque ragione del vivere “comune”.
Il cupio dissolvi del centro-sinistra dopo le elezioni faceva sentire ormai senza più “luogo comune” (nel senso indicato da M. Augé: identitario, relazionale, storico ), senza rappresentanza, senza protezione, senza “senso politico” condiviso e praticabile.

Questa insostenibilità accompagnava molte/i di noi, tanto è vero che si moltiplicavano tentativi di incontro, quasi sempre ricchi di malinconia, in cui si cercava di stare insieme, di capire, di individuare da dove e come ripartire.
Accadeva spesso, però, che anche, e proprio, molti protagonisti istituzionali (partiti, ministri, parlamentari) della débacle, si comportassero come se non c’entrassero niente, come se si potesse andare avanti senza rimettere in discussione tutto, senza ripartire da sé: ossia da una critica radicale che coinvolgesse, non solo le nostre persone, ma le nostre categorie, le modalità dei rapporti, della politica intesa come relazioni (anche con la cosiddetta base), del nostro modo di stare al mondo.
Erano le nostre vite, le modalità di pensiero che ci avevano accompagnato fino ad oggi, il modo di rappresentare il mondo ed il potere che andavano ripensate.
A partire dalla certezza stessa di avere ragione.

L’impensabile aveva la forza dell’esistenza e non riuscivamo ad ingabbiarlo in nessun modo.
Essere attonite: questa la sensazione più diffusa.
Ed impotenti.
Avevo l’impressione che fosse necessario uscire dalla ritualità mortuaria delle riunioni che andavamo facendo, che altri modi andavano trovati o ri-trovati, che non potessimo più sottrarci alla responsabilità di rimettere insieme un mondo diversamente orientato ed avevo anche l’impressione che ci fossimo convinte troppo della sufficienza di quello che era stato detto ed elaborato. Dovevamo riesaminarlo, riprenderlo in mano, individuarne le forze ed i punti critici.
Ripartire dai fondamentali, dai pensieri e dalle pratiche delle donne, dalla tradizione della sinistra dalla quale provenivamo. Si era diffusa quasi la rincorsa a rinnegare, la vergogna di ragioni che erano parse evidenti in passato, si era perso il coraggio dell’affermazione e della convinzione.

A lato di tutto ciò, qualche luce stava provenendo dal mondo della scuola e delle università: da lì arrivavano nuove pratiche di partecipazione, comunicazione, azione politica.

Poi altro ancora, ormai impensabile, e che avevamo abbandonato, si è ripresentato con una forza travolgente: un altro mondo ridiventava possibile. _ Obama era stato portato a braccia alla presidenza americana dall’entusiasmo di milioni di giovani, di bianchi, di neri, di ispanici, di democratici, di repubblicani anche.
Gli esseri umani, donne e uomini di tutte le età ed appartenenze, ci sorprendevano ancora.

Che cos’è la sfera pubblica

La questione che ridiventava cruciale perciò era quella della “sfera pubblica”. Questa espressione rischia essa stessa di diventare un luogo comune, una sorta di formula vuota per quanto onnicomprensiva.
Occorre quindi delimitarla e dire a che cosa mi riferisco.
- Non si tratta dell’opinione pubblica rilevabile dai sondaggi, perché, come dice Bourdieu, l’opinione pubblica non esiste (è un artefatto privo di senso costruito per forzare le volontà e manipolare il consenso)
- non si tratta neanche di una ipotetica sfera critica razionale in qualche modo vagheggiata da Habermas: “I cittadini agiscono come pubblico quando, non sottoposti ad alcuna costrizione, cioè con la garanzia di potersi incontrare e associare liberamente, di poter esprimere e pubblicare liberamente le proprie opinioni, discutono problemi di comune interesse” …
L’espressione “opinione pubblica”si riferisce ai compiti della critica e del controllo che il pubblico dei cittadini esercita in modo informale – e anche formalmente nel corso delle elezioni periodiche – sul dominio organizzato dello stato”.
- non si tratta neanche della sola sfera della cittadinanza con il correlato dei diritti, rappresentanza (rappresentazione pubblica e politica) come ricorda Mariuccia Salvati
È anche questo
Ma è soprattutto il luogo della costruzione delle soggettività collettive pubbliche: che si manifestano e prendono parola, e confliggono per l’affermazione (Marx, Gramsci).
È il luogo della cultura, della pratica della critica, del sentire comune, del consenso.

È il luogo in cui l’in sé (essere oggettivo) diventa per sé: si autorappresenta.
Dovremo forse tornare a Gramsci ed al modo in cui affrontò il problema
che aveva di fronte e che è analogo al nostro: ricostruire contro l’egemonia dominante (allora il fascismo) la capacità di direzione di strati sociali contigui. _ Rivedere i suoi studi sui modi in cui la logica della fabbrica si traduce in legislazione, formazione, trasmissione scolastica, discorso, linguaggio.
Di come un modo di produzione arriva a permeare l’intera società, a dare stabilità, regole, che nascono nei rapporti di potere. Rientrare nelle sue categorie politiche che distinguevano il dominio, che è il terreno proprio della forza e dello stato, da quelle di egemonia, che non significa superiorità o supremazia, ma capacità di organizzare un proprio mondo, proporlo, pubblicizzarlo, diffonderlo capillarmente. Rivendicarlo con successo.

È il terreno ed il compito proprio dell’intellettualità, quel luogo di produzione di idee e rappresentazioni su cui si costruisce la legittimità ed il consenso.
Negli ultimi decenni (dicevo) abbiamo assistito (soprattutto ad opera di una certa sinistra) a ritrattazioni di tutti i tipi, ad una ritirata delle nostre ragioni, quasi ad un atteggiamento di pubblica vergogna per quello che avevamo affermato e praticato.
Credo che dobbiamo tornare ad abitare la sfera pubblica, a riassumerci la responsabilità di diventare parte di un processo. La questione è: come?
E dobbiamo forse tornare e stare a quanto di più fecondo le donne hanno detto e praticato.
Penso ad Arendt…

La sfera pubblica è ciò che distingue gli umani dagli altri esseri viventi, il luogo dell’azione (cominciamento) e del discorso. Presuppone l’essere con gli altri.
Ne sono condizione la pluralità (la molteplicità e differenze di donne e uomini) e un mondo in comune (un mondo non naturale, ma artificiale, costruito dalle mani dell’uomo). L’interesse per un mondo in comune. Pubblico è il luogo delle relazioni, dell’esser visti e uditi dagli altri ed è in questo apparire che costituiamo la realtà.
Senza questo siamo de-realizzati, spaesate. È il luogo della comunicazione, del linguaggio e dunque luogo politico:
“Ogni volta che è in gioco il linguaggio la situazione diviene politica per definizione, perché è il linguaggio che fa dell’uomo un essere politico”

Qui sembrano scomparire le distinzioni tra pubblico e politico.

Ancora più radicale è Judith Butler che fa coincidere la politica con lo stesso vivere: Vivere significa vivere politicamente, in relazione al potere, in relazione agli altri, nell’atto di assumersi la responsabilità di un futuro che è collettivo ( J. Butler, La disfatta del genere, p. 65)

E ancora “Sarà pubblica quella sfera che escluderà certe immagini, facendo in modo che non figurino nei mezzi di informazione, che i nomi di certi morti non siano pronunciati, che certe perdite non siano dichiarate perdite, e che la violenza si diffonda ma divenga impercettibile” J:Butler, Vite precarie

La sfera pubblica è dunque quella della responsabilità, che costruisce, attraverso il linguaggio, le categorie dell’umano, dell’appartenenza o meno all’umano, delle gerarchie, fino ad investire i corpi e la loro sessualità, la loro vivibilità, attraverso la dicibilità o non dicibilità.
Stabilisce la norma, che non è solo un insieme di regole, ma è qualcosa di più profondo, che tocca l’essere, anche individuale, nella propria totalità. La norma stabilisce le condizioni condivise della riconoscibilità: essere inclusi od esclusi dall’umano, avere una vita vivibile o insopportabile.

È nella sfera pubblica che si gioca la possibilità stessa delle esistenze incarnate perché il corpo ha una sua dimensione imprescindibilmente pubblica” ( J. Butler, La disfatta del genere,p. 47), ed è qui che bisogna intervenire, disfacendo la norma, con la critica, con una sorta di interrogazione dei termini entro i quali la vita è costretta al fine di aprire la strada a modi diversi di vivere.

E la domanda da cui partire è: “di che cosa hanno bisogno gli esseri umani al fine di conservare e riprodurre le condizioni della propria vivibilità. E qual è, ora come ora, la nostra politica per quanto riguarda la teorizzazione della possibilità di una vita vivibile e l’organizzazione del suo supporto istituzionale?
La domanda andrà accompagnata da una buona dose di agonismo e di contestazione.

Per aggiungere ulteriori elementi in modo semplice, mi servirò del discorso di Obama.

Il discorso di Obama

Vorrei utilizzare alcuni passaggi del discorso di Obama che, oltre alcuni aspetti retorici e rituali, richiama alcune categorie fondamentali della sfera pubblica già analizzate da Arendt e Butler e sulla sfera pubblica politica (governo, istituzioni, compiti di una classe dirigente) su cui è opportuno tornare.

… noi , il Popolo, siamo rimasti fedeli agli ideali dei nostri antenati e non abbiamo tradito la carta costituzionale. … che i figli dei nostri figli possano dire che… abbiamo portato avanti il grande dono della libertà e lo abbiamo consegnato alle generzioni future.

Permanenza

Solo l’esistenza di una sfera pubblica e la sua susseguente trasformazione del mondo in una comunità di cose che raduna gli uomini e li pone in relazione gli uni con gli altri si fonda interamente sulla permanenza. Se il mondo deve contenere uno spazio pubblico, non può essere costruito per una generazione e pianificato per una sola vita: deve trascendere l’arco della vita degli uomini mortali”. Arendt, Vita activa, p.40- 41
La logica della produzione di merci e della necessità del consumo di queste, porta alla consumazione delle cose del mondo.
La parola nuovo divenuta una panacea per il discorso politico, ha portato a non riconoscere più ( spesso a rinnegare) radici e tradizioni, distruggendo il passato e divorando il futuro, inghiottito in un presente da consumare subito, vuoto, senza senso, sfuggevole.

Speranza, rischio e natalità

Abbiamo scelto la speranza …la grandezza va guadagnata …sono stati coloro che amano rischiare… che ci hanno consentito di percorrere il sentiero lungo e accidentato che porta alla prosperità e alla libertà … dovunque guardiamo c’è qualcosa da fare … C’è chi ritiene eccessive le nostre ambizioni… costoro hanno la memoria corta…hanno dimenticato… quanto donne e uomini liberi possono fare quando all’immaginazione si uniscono uno scopo comune e l’esigenza di essere coraggiosi

La speranza e non la paura consente l’azione, che è, dice Arendt, il mettere in movimento qualcosa, essere iniziatori, praticare la libertà, contro la tendenza prevalente delle leggi statistiche e della probabilità: “Il fatto che l’uomo sia capace di azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile.
La sorpresa iniziale è inerente ad ogni cominciamento, e a ogni origine
”. Vita activa p. 129 (Yes we can)
Il rischio è una delle componenti della sfera pubblica e solo in essa diventa possibile, perché è quando si è con gli altri che si possono correre i pericoli inerenti all’azione e quelli della rivelazione di sé n
el discorso (gesti e parole).

Fiducia

Ci sono due passaggi sulla fiducia: come perdita e come necessità. Perdita di fiducia come ridimensionamento delle aspettative (come perdita della speranza)
E necessità di ripristinare un rapporto di fiducia tra il popolo e il governo, quindi come base di un rapporto positivo tra stato e società civile, come capacità di esercizio di egemonia.

Consenso

Seguono due passaggi esemplari sul consenso, la coesione, la capacità di direzione.
Il consenso e la coesione all’interno si basano su ideali condivisi, sulla garanzia della cittadinanza (diritti, uguali opportunità ). E, all’esterno, su profonde convinzioni proprie e salde alleanze. Compito del governo è quello porsi come guida ideale per mantenere una egemonia interna (indicare la direzione per realizzare il bene comune); e una capacità di attrazione esterna perché il dominio non si esercita solo con la forza (armi).

Pluralità

“Sappiamo infatti che la nostra composita eredità è una forza non una debolezza. Siamo una nazione di cristiani e musulmani, ebrei e indù – e di non credenti”.
La pluralità è la condizione dell’azione: tanto più ampia la pluralità, tanto più ricca e complessa l’azione.

“La pluralità umana, condizione fondamentale sia del discorso sia dell’azione, ha il duplice carattere dell’eguaglianza e della distinzione. Se gli uomini non fossero uguali, non potrebbero né comprendersi fra loro, né comprendere i propri predecessori, né fare progetti per il futuro e prevedere le necessità dei loro successori”. Arendt Vita attiva p.127

Inclusione e partecipazione

A coloro che rimangono aggrappati al potere con la corruzione, la menzogna e soffocando il dissenso, dico che stanno dalla parte sbagliata della storia… non possiamo più permetterci un atteggiamento di indifferenza nei confronti delle sofferenze al di fuori dei nostri confini.
Il dissenso è proprio della pluralità: è la condizione stessa della pluralità, così come il farsi carico dei bisogni degli altri. Avere interesse per un mondo comune.

Le virtù

Ma i valori dai quali dipende il successo – duro lavoro e onestà, coraggio e correttezza, tolleranza e curiosità, lealtà e patriottismo- sono cose vecchie”. Coloro che hanno fatto un’appropriazione privata della cosa pubblica hanno dimenticato che questa chiede virtù civili, che si fonda su valori umani condivisi, senza i quali si distrugge la sfera pubblica stessa.

Compito e condizione della sfera pubblica

“Dare forma ad un destino incerto. È solo l’assunzione consapevole e condivisa di questo compito collettivo che può farci uscire da quello stato di deprivazione che Arendt chiama il fenomeno di massa della solitudine”. p. 44

Per Arendt la solitudine è la pre-condizione del degrado delle capacità umane. _ L’innesto di una malattia. … se voi non potete comunicare e sottoporre al giudizio di altri, in forma orale o scritta, ciò che ritenete di aver trovato in solitudine, questa facoltà esercitata da soli finirà per scomparire. TGP p.63-4

A questo proposito Obama sembra anche esser riuscito a costruire un fenomeno forse nuovo: una folla, un insieme immenso, ma non indistinto. Differenze e diversità, stampate sulle facce dei partecipanti all’insediamento, sembravano potenziate e valorizzate, proprio perché riconosciute nella pratica delle primarie e nel discorso della cerimonia. Ma questo è altro e più vasto argomento che comunque rimanda a quello degli spazi della politica. Alcuni di questi Obama li ha inventati di sana pianta, o ha utilizzato in modo nuovo quelli che c’erano a disposizione.

I luoghi della politica

Se riprendiamo l’affermazione di Butler per cui vivere significa “vivere politicamente in relazione al potere, in relazione agli altri, nell’atto di assumersi la responsabilità di un futuro che è collettivo” allora sembrano diventare politici tutti i luoghi in cui siamo con altri, nell’atto di parlare, decidere, esporci. Si estendono e cambiano gli spazi della politica

Quali sono?

Qui sarò ancora più schematica visto che è un capitolo in cui c’è molto ancora da inventare Riassumerò

Le rappresentative

Istituzioni, nel senso più ampio
In presenza
Le vecchie sezioni o circoli
Piccoli gruppi praticati soprattutto dalle donne
Le assemblee

In lontananza
Media in generale (TV, giornali)
Internet soprattutto
Reti

Le ultime vicende della mobilitazione degli studenti e delle elezioni americane hanno messo in luce nuove forme di aggregazione e nuove pratiche di partecipazione, comunicazione ed azione politica che mescolano, in modo fecondo, i luoghi della presenza e della lontananza.

L’intersecarsi della piazza con la proliferazione di piccoli comitati che si coordinano, che costruiscono la permanenza e la continuità del lavoro, che costruiscono organizzazione nelle relazioni, insieme alla velocità ed all’ampiezza di internet, che permette la circolazione in tempo reale delle notizie oltre alla capillarità dell’informazione ed alla vastità del numero di persone raggiungibili, hanno permesso una combinazione di presenza di corpi e comunicazione globale che non si è dissolta nel giro di qualche giorno, ma ha garantito la continuità ed il rafforzamento del discorso stesso ed il coordinamento dell’azione. In questo le donne sono state precorritrici, ma l’uso teorizzato, organizzato, professionalizzato, insieme ai milioni di volontari (persone motivate, convinte che stavano personalmente partecipando ad un cambiamento epocale in cui erano proprio le loro vite in gioco) che si sono mobilitati, hanno permesso un salto di qualità inaspettato che ha aperto una nuova storia.

È forse necessario (anche perché è esigenza condivisa) ricostruire cellule diffuse di discussione e mobilitazione rapida a partire dai territori, dai luoghi di lavoro, dai momenti di incontro (donne). Che possano essere traino di informazione e di ri-costruzione di un tessuto connettivo altro da quello malato ed escludente che stiamo vivendo.

 

Bibliografia

H. Arendt, Teoria del giudizio politico, Il Melangolo, Genova, 1990
H. Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano, 1994
M. Augé, Non luoghi, Elèuthera, Milano, 1993
P. Bourdieu, L’opinion publique n’existe pas, in Questions de sociologie, Les Éditions de Minuit, Paris, 1984
J. Butler, La disfatta del genere, Meltemi, Roma, 2006
J. Butler, Vite precarie, Meltemi, Roma, 2004
D. Gagliani e M. Salvati, La sfera pubblica femminile. Percorsi di storia delle donne in età contemporanea, CLUEB (collana Quaderni di discipline storiche), 1992
J. Habermas, Cultura e critica, Einaudi, Torino, 1980
J. Habermas, Storia e critica de
ll’opinione pubblica
, Laterza, Bari, 2006