ELUANA E IL MINISTRO SACCONI: L’ITALIA È UNO STATO LAICO?

di Paolo Vineis
da L’Espresso

Paolo Vineis è uno dei più importanti epidemiologi europei ed è professore di Epidemiologia ambientale all’Imperial College di Londra, nonché membro del Consiglio Superiore di Sanità, il massimo organo consultivo del ministero della Salute. Ci ha inviato questo suo intervento sul caso Englaro e sul comportamento delle autorità italiane.

Per discutere sensatamente della vicenda di Eluana Englaro bisogna partire da una premessa ineludibile, senza la quale sorgono enormi confusioni, e cioè che cosa si intende per laicità.

Laicità non vuol dire necessariamente esprimere una posizione specifica sulla sospensione dei trattamenti, ma prima di tutto accettare e applicare alcuni principi di fondo della convivenza civile e della discussione etica. La distinzione tra due forme di laicità è stata introdotta in particolare da Giovanni Fornero, tra quella che il filosofo chiama laicità debole (o metodologica) e la laicità forte (o sostanziale). La prima sta alla base, anzi è un prerequisito, dello Stato liberale, e consiste nella applicazione di alcune norme elementari: il rispetto delle idee altrui, il ricorso all’argomentazione e non all’autorità nell’affrontare i problemi morali, e la separazione tra i poteri fondamentali.

Questi principi della laicità sono stati violati dall’intervento del ministro Sacconi nel caso Englaro, e in questo senso si può dire che nel caso specifico lo Stato italiano non si comporta da Stato laico.

Per laicità forte si intende invece un insieme di valori propri del pensiero laico in campo bioetico. Una posizione laica,forte – su cui si può ovviamente essere o non essere d’accordo – è quella che sostiene che è nel diritto di Eluana e del padre che si sospenda l’idratazione e l’alimentazione.

È naturale che sull’argomento vi siano posizioni diversificate e che tutta la società venga coinvolta nella discussione. Quello che non è naturale invece è che su una questione delicata come questa provengano posizioni aprioristiche e divieti da parte del governo e della Regione Lombardia.

Il governo dovrebbe applicare leggi o normative una volta che queste siano state discusse e accettate da una ragionevole maggioranza, cosa che non è nel caso specifico. In assenza di una chiara normativa cui riferirsi, il governo dovrebbe impegnarsi nella ricerca di un consenso da parte di organismi professionali e della società nel suo insieme.

L’Inghilterra, paese in cui lavoro, fa largamente ricorso, per affrontare argomenti eticamente incerti, a “focus groups” e assemblee popolari, non perché si creda nella democrazia assembleare, ma perché sembra piuttosto ovvio avere un’ampia consultazione che coinvolge non solo gli esperti ma anche il pubblico più in generale. In Italia non solo non vi sono consultazioni pubbliche, ma non vengono consultati neppure gli organismi tecnici.

Per esempio, il ministro Sacconi non ha ritenuto opportuno sentire il parere del Consiglio Superiore di Sanità su un caso così grave. D’altra parte un documento della Federazione degli Ordini dei Medici dello scorso novembre aveva già chiarito come l’idratazione nello stato vegetativo permanente (SVP) sia, in quel contesto, a tutti gli effetti un atto medico, interpretazione non accettata dal ministro.

Dal caso Tony Bland dei primi anni ‘90 ad oggi in Inghilterra è considerato legittimo sospendere l’idratazione in casi di stato vegetativo permanente, e vi è intorno a questa pratica un ampio consenso tra i medici e nella magistratura, e perfino nella Chiesa anglicana (si veda la dichiarazione di Lambeth del 1988).

Il ministro Sacconi si è invece dichiarato favorevole a quella che nel mondo medico sembra essere un’interpretazione minoritaria, e cioè che l’idratazione in STP non è un atto medico e pertanto non rientra nella fattispecie dell’accanimento. E per impedire la sospensione dell’idratazione alla Englaro ha emanato una circolare che si appella per analogia al caso dei disabili. La circolare fa riferimento alla “Convenzione sui diritti delle persone con disabilità” delle Nazioni Unite, che ha lo scopo di prevenire il rifiuto discriminatorio di assistenza medica o di prestazione di cure e servizi sanitari o di cibo e liquidi in ragione della disabilità. Il testo citato non sembra pertinente in quanto presuppone che il disabile intenda vivere, e non affronta pertanto la questione dell’autonomia decisionale del paziente né dell’eventuale accanimento.