Le favole della paura al servizio del potere

di Adriano Prosperi
in “la Repubblica” del 2 febbraio 2009

Che ci sia un commercio di organi sembra certo; e accade anche che ci siano dei bambini che
scompaiono. Due realtà diverse. Mettetele insieme e avrete la nascita dell’ircocervo, il mostro
fantastico e terrorizzante che un ministro italiano ha messo in circolazione. Il commercio di bambini
come fornitori di organi, un mostruoso mondo cimiteriale di piccoli corpi svuotati e svenduti a
pezzi. Nessuno ha fornito dati reali a questo proposito. Ma intanto l’effetto della falsa notizia ha
messo in ombra la notizia vera, quella che riguarda una macchina giudiziaria svuotata – lei sì
realmente – dei suoi organi, inascoltata e vilipesa nelle sue sentenze più lungamente e
accuratamente elaborate (caso Englaro). Altri corpi non umani ma pur sempre essenziali
all’esistenza di una società moderna vivono in Italia in condizioni di silenziosa inarrestabile
mutilazione: le strutture della ricerca, l’università, la scuola, la sanità pubblica, i corpi di polizia e
via elencando. Ci si chiede perché proprio dal Ministero preposto agli organismi della sicurezza sia
stata lanciata questa fantasia terrificante. Quel che è certo è che ancora una volta si fa ricorso alla
stimolazione delle paure profonde. E mentre dura l’assenza di strutture di assistenza e di protezione
effettiva si continua a stimolare quel sentimento che a lungo ha dominato l’orizzonte del mondo
occidentale, con l’avventura della guerra irachena e la riduzione delle garanzie democratiche e dei
diritti di libertà. Oggi la chiusura di Guantanamo è il primo grande segno che si volta pagina nel
grande paese sull’altra sponda dell’Atlantico. Da noi si raccontano favole tremende per spingere i
cittadini a chiudersi in casa e ad affidarsi a poteri rapidi ed efficaci, senza imbarazzi di regole legali.
Queste favole hanno radici antiche. Uno studio recente ha raccolto e analizzato le fonti di un genere
di letteratura che raggiunse il suo massimo sviluppo tra ‘600 e ‘700 e che ebbe nella paura il suo
ingrediente essenziale. Erano fogli volanti e opuscoli di pochissime pagine, in prosa e in versi,
arricchiti da rozze xilografie e stampati senza nome d’autore, pubblicati da editori spesso consorziati
per sfruttare una vena redditizia. Venivano sciorinati nelle ceste della merce e venduti sulle piazze
cittadine nelle occasioni del mercato, della festa del santo patrono, dell’esecuzione capitale di un
bandito. Si vendevano per le strade dei paesi o sulle aie dei contadini, insieme a vite di santi, a
storie di miracoli, a preparati dal misterioso potere curativo. Se ne declamavano i titoli e se ne
cantavano i versi dall’alto di un tavolo o di un sedile (“cantambanchi”). La gente si raccoglieva per
ascoltare la storia e per guardare le figure. E comprava. Portava a casa il foglio e ne prolungava la
vita immettendo nella circolazione orale quelle storie spaventose, rese credibili e credute dalla
autorevolezza della parola stampata.
Difficile dire quanti se ne siano stampati e venduti: erano una merce destinata a rapido consumo e
ad altrettanto rapida scomparsa. Ma nella lunga durata della divisione tra minoranza colta e
maggioranza analfabeta, gli ultimi rivoli di quei commerci hanno lambito l’Italia del nostro secolo:
nelle campagne dell’immediato secondo dopoguerra le storie di crimini enormi venivano ancora
vendute insieme a storie di santi e alle Massime eterne di Sant’Alfonso de’ Liguori. E tuttavia,
nonostante la plurisecolare fortuna e l’enorme quantità di stampe prodotte, solo in qualche caso le
biblioteche pubbliche ne hanno conservato qualche frammento tra le raccolte fattene da lettori colti
e curiosi di quel che si leggeva tra le plebi. Ed è proprio analizzando le raccolte che se ne
conservano nei ricchi fondi delle biblioteche emiliane che uno storico della letteratura formatosi alla
scuola di Piero Camporesi ha potuto produrne un censimento e metterne in luce alcuni caratteri
originali (Alberto Natale, Gli specchi della paura. Il sensazionale e il prodigioso nella letteratura
di consumo /secoli XVII-XVIII, Carocci, pagg. 308, euro 28,60).
Questi antenati del moderno giornalismo nero erano nati in maniera incerta e casuale dallo sviluppo
di relazioni manoscritte e di quegli avvisi a stampa, a cavallo tra la lettera privata e l’informazione
pubblica, che si erano cominciati a diffondere nel ‘500. All’inizio raccoglievano ogni genere di dati:
fatti militari e politici, eventi meteorologici di eccezionale portata, cronaca nera. Col ‘600 si venne
sviluppando la letteratura detta appunto di consumo in quanto destinata esplicitamente al consumo
di un pubblico speciale – un pubblico di lettori che, come ha osservato lo storico francese Roger
Chartier, fu creato e unito proprio dalla messa in circolazione di quelle storie tragiche e
stupefacenti. Chi le ha considerate espressione della cultura di un popolo di bestioni ingenui,
incapaci di ragione e attirati dalle fiabe terrificanti e consolatorie di santi e di delinquenti è caduto
nella trappola degli inventori di questo genere, che fu popolare solo nel senso di destinato a creare
una sottocultura per le classi subalterne. In Francia il processo ebbe un carattere unitario e
accentrato e dette vita alla celebre “Bibliothèque bleue”, riconoscibile dal colore della copertina,
dalla povertà della carta e delle immagini, dai caratteri grossi della stampa. In Italia, mancando
l’unità politica, le iniziative che si incanalarono nel circuito degli scritti per il popolo ebbero
carattere locale, policentrico, disperso.
Ma deve fare riflettere un dato di fatto singolare: quello dell’incoraggiamento che le autorità
preposte al controllo della stampa fornirono a questo genere di pubblicazioni. Le storie tragiche e
meravigliose che si declamavano sui banchi dei mercati o ai piedi del patibolo, le canzonette in
terza rima o in ottava che «sogliono cantare i ciechi», erano provviste di adeguata approvazione
ufficiale. In tempi di censura attenta e rigorosa sulla stampa non si lesinarono i permessi per queste
pubblicazioni. L’approvazione dell’inquisitore figurava in bella mostra sulle copertine. Era nata così
una speciale cultura degli ignoranti, destinata a offrire al popolo delle campagne e delle città l’unico
cibo che si riteneva adatto al suo stomaco: cibo grossolano, capace di stimolare una istupidita
meraviglia e una immensa paura delle forze del male. E dalla paura unita alla meraviglia ci si
aspettava un risultato sicuro: la nascita e la diffusione di un atteggiamento di umile e obbediente
dedizione alla protezione dei poteri dominanti.
Come accade con tutte le forme sociali nuove, al loro avvio nessuno si accorse dell’importanza di
quel che stava nascendo. Importanza notevole: era l’avvio in forma embrionale del mercato che
sotto l’offerta dell’informazione mirava alla gestione delle emozioni collettive, come dire l’antenato
prossimo dell’imponente e fondamentale realtà contemporanea dei mezzi di comunicazione di
massa. Certi aspetti dell’informazione quotidiana di cui ci nutriamo hanno questi antenati, veri
parenti poveri di cui ci si vorrebbe dimenticare.
Un dato ricorrente di queste stampe è l’insistenza sulla verità di ciò che si racconta: “Nuova e vera
relazione”, “nuova e verissima relazione”, “nuovo e vero racconto”, “sincera ed esatta relatione”:
questi sono i titoli ricorrenti ogni volta che si raccontano storie dove compaiono visioni, miracoli,
nascite di mostri, segni celesti allarmanti. La natura vi ha gran parte: ma è una natura che nei suoi
prodigi rivela un volto ostile e minaccioso e appare come lo strumento divino del castigo dei
peccatori. Terremoti e saette debbono essere
esorcizzati dalla preghiera e dalla penitenza.
La paura ha creato gli dèi: la tesi di Lucrezio nel De rerum natura sembra aver persuaso soprattutto
i fautori e i protettori della circolazione di questa letteratura. Il cielo di questi testi, prima di
diventare la serena cupola celeste alla quale Kant guardava con piena consapevolezza della sua
coscienza morale, fu sfruttato come fonte di sentimenti di religiosa paura e dette occasione a riti e
pratiche espiatorie, a sacrifici e preghiere. Il diluvio biblico, il fuoco su Sodoma e Gomorra, le
comete, la folgore erano noti come i segni della collera divina: se l’arcobaleno era stato per Noè il
segno del mutato umore di Dio, le profezie religiose avevano continuato per secoli a vedere nel
futuro sangue e saette cadere dal cielo sull’umanità colpevole.
Ma quando il parafulmine di Benjamin Franklin disarmò definitivamente il cielo la paura aveva
ormai cambiato di segno: si era spostata dal cielo sulla terra, da Dio agli uomini. Non per questo era
scomparsa. Come il coniglio della fiaba che cerca invano di guarire dalla paura, le società moderne
hanno selezionato le fonti di un sentimento arcaico, ne hanno isolato e messo sotto controllo i
sintomi, hanno fatto della sicurezza la bandiera dei loro progressi, per arrestarsi infine davanti al
cuore stesso dell’uomo. Qui si cela il residuo incancellabile depositato dalle origini stesse della
specie, come un virus combattuto, indebolito ma sempre pronto a riattivarsi, al servizio di chi voglia
approfittarne. E se le riserve di armi batteriologiche mantengono in vita la peste e il vaiolo, è nel
mondo della comunicazione pubblica che viaggia il virus della paura continuamente nutrito da
venditori di emozioni e coltivato a fini di potere.