FORUM SOCIALE MONDIALE – BELEM (BRASILE) 2009

1) Alcune annotazioni

di Luigi De Paoli

Come sempre, è difficile raccontare in poche righe un evento come il FORUM SOCIALE MONDIALE (FSM), che quest’anno si è svolto n egli ultimi quattro giorni di Gennaio a Belém, capitale dello stato del Parà (Brasile), situata sulle sponde dell’omonimo fiume, e porta d’ingresso per l’Amazzonia attraverso il Rio delle Amazzoni.

Entrare nel FSM, specialmente dopo quelli che si sono tenuti a Mumbai (India, 2005) e a Nairobi (Kenia, 2007), significa immergersi nell’immaginario collettivo, fatto di abbigliamenti e simboli esotici, così come di lingue non solo occidentali, ma anche indigene. Interi padiglioni sono dedicati all’artigianato più diverso, a editorie e librerie, e a centinaia di associazioni interessate alle diverse tematiche del Forum. Molti posti di ristoro garantiscono l’alimentazione e l’idratazione (90% di umidità e temperature intorno ai 30 gradi). Abbondano i gruppi musicali, i documentari, le mostre fotografiche, le letture di poesie .

Per pagare l’iscrizione (10 euro per i paesi “industrializzati) e ricevere il tradizionale sacco a tracolla c’è una fila di 90.000 persone. Provengono da 142 nazioni, e fra di loro vi sono 1900 indigeni e 1400 quilombolas (discendenti di schiavi). Sono arrivati con autobus e con le barche lungo i fiumi, dopo giorni di viaggio. Anche i giornalisti (4500) debbono compiere le formalità, così come le 4000 organizzazioni, in maggioranza latinoamericane. Migliaia di giovani si accampano sotto le tende in un grande parco. 2000 volontari cercano di darci una mano per raccapezzarci nell’area destinata al FORUM, che è l’università di Belém.

I 90.000 iscritti, come primo atto, dsebbono familiarizzarsi con un voluminoso opuscolo sul quale sono riportate le centinaia di seminari e tavole rotonde, con la descrizione dettagliata della sede e dei relatori. In genere la giornata è distribuita su tre orari: 8,30-11,30; 12-15; 15,30-18. I seminari e gli incontri sono distribuiti su di un arco di dieci tematiche: il dominio del capitale e delle multinazionali; la preservazione del pianeta e delle risorse; la decolonizzazione della conoscenza (brevetti); l’eguaglianza di genere e discriminazioni di casta; l’accesso ai diritti sociali (sovranità alimentare, educazione e lavoro degno); la costruzione di un nuovo ordine mondiale e autodeterminazione dei popoli; democrazia economica e solidale; la difesa dell’ecosistema Amazzonia e i diritti dei i popoli indigeni.

Molti locali messi a disposizione dall’Università del Parà si rivelano insufficienti per accogliere i partecipanti. Molto affollate “Tende Tematiche”, dedicate alle religioni afroasiatiche, al dialogo ecumenico, al cambio climatico, ai popoli non riconosciuti come nazione. Le associazioni che si occupano dell’infanzia hanno dato vita a dibattiti sul drammatico problema dei bambini, vittime della violenza urbana, dello sfruttamento del lavoro, dell’abbandono da parte di genitori e della deficienza di servizi pubblici di salute e di educazione, fattori che stanno producendo un elevato tasso di omicidi in età adolescenziale in tutta l’America. La benemerita Fondazione Paulo Freire ha mantenuto viva l’attenzione dell’educazione come mezzo per promuovere la responsabilità personale e una vera coscienza politica.

Le organizzazioni sindacali sono state molto attive nel discutere la cause della disoccupazione e dell’attuale organizzazione del lavoro, che richiedono un urgente coordinamento da parte delle formazioni sindacali, anche in considerazione dei nuovi modelli di sviluppo che la crisi energetica impone.

Prima o durante il SOCIAL FORUM si sono tenuti il Forum della Teologia e Liberazione (su cui vi dettaglierò in un altro e mail), Il Forum dell’Educazione, Il Forum della Comunicazione, il Forum Mondiale dei Giudici, el Fotum Mondiale delle Autorità locali.

La Commissione Pastorale della Terra, settore critico dell’Episcopato brasiliano, assieme alla Caritas, a varie Chiese Protestanti e alla Fondazione Doroty (la suora nordamericana uccisa in Brasile per il suo impegno per i senza terra) hanno posto il problema scottante della riforma agraria, sul quale sono caduti vari martiri, uno dei quali è Chico Mendes, che ha ricevuto un commosso omaggio da parte di molti partecipanti.

Numerosi sono stati i seminari sull’Amazzonia e sui conflitti che si registrano tra i governi (spesso corrotti) e i movimenti che rivendicano il diritto a difendere l’ecosistema dalla penetrazione delle multinazionali, oggi anche cinesi, che ottengono concessioni scandalosamente vantaggiose per lo sfruttamento minerario (oro, alluminio, rame, uranio, ecc.) senza alcun riguardo per gli effetti contaminanti sulle persone e sul territorio. Il fatto nuovo in America Latina è l’impressionante determinazione che i vari settori della società e delle comunità indigene mostrano, marciando anche per giorni, nel consolidare reti di auto-protezione e nel mobilitare pressioni sui governi. Oggi non si contano più le federazioni internazionali che ruotano attorno al SOCIAL FORUM, dalla difesa dell’acqua a quella per i farmaci a basso costo.

Il FORUM di Belém ha avuto un indubbio protagonista: i popoli indigeni dell’America Latina, che con 44 milioni di persone e 22 macro-etnie, rappresentano il 10% del continente ispano-brasiliano. Essi ci hanno ricordato la tragica data del 1492, quando iniziò il saccheggio globale e si inventò la teoria delle razze per giustificare l’etnocidio, la tratta degli schiavi e la persecuzione operata dagli stati repubblicani, dopo l’indipendenza dalle monarchie europee (inizi del XIX secolo). I rappresentanti dei popoli indigeni hanno diffuso una nota “Lotta globale per la Madre Terra contro la Mercificazione della Vita”, che contiene molte delle tematiche discusse al SOCIAL FORUM. Ne estraggo una sintesi telegrafica, sulla quale mi riprometto di tornare con alcune considerazioni in un altro momento.

Noi Popoli Indigeni Originari pratichiamo e proponiamo: l’unità tra Madre Terra, società e cultura. Educare la madre terra e lasciarsi educare da lei. Educazione all’acqua come diritto umano fondamentale e non la sua mercificazione. Decolonizzare il potere col “Comandare ubbidendo”, autogoverno comunitario, Stati Plurinazionali, Autodeterminazione dei Popoli, unità nella diversità come altre forme di autorità collettiva. Unità, dualità, equità e complementarietà di genere. Spiritualità dal quotidiano e dal diverso.

Liberazione da ogni dominazione o discriminazione razzista/etnicista/sessista. Decisioni collettive sulla produzione, mercato ed economia. Decolonizzazione delle scienze e tecnologie. Espansione della reciprocità nella distribuzione di lavoro, di prodotti, di servizi. Da tutto questo produrre una nuova etica sociale alternativa a quella del mercato e del profitto coloniale/capitalista.

Apparteniamo alla Madre Terra non siamo padroni, saccheggiatori, né venditori di lei ed oggi arriviamo ad una crocevia: il capitalismo imperialista ha dimostrato essere non solo pericoloso per la dominazione, sfruttamento, violenza strutturale ma anche perché ammazza la Madre Terra e ci porta al suicidio planetario che non è né “utile” né “necessario.”

Ho avuto modo di comprovare la serietà e l’intelligente strategia dei rappresentanti indigeni nell’ultimo giorno del FORUM, quando, sostando in un bar nei pressi della enorme tenda a loro riservata, ho avuto l’occasione di assistere all’arrivo del Ministro brasiliano della Giustizia, che era stato invitato ad un colloquio con i popoli indigeni.

Ammetto di non aver mai visto in Italia un ministro che, dopo essersi accomodato al tavolo della presidenza, accetti di essere accolto da una marcia di indigeni che,
pestando i piedi e al suono di corni, gridano, per almeno 10’ e alquanto polemicamente: “La Terra non si vende, la Madre si difende”. La cosa ancor più sorprendente è che il coraggioso ministro ha mantenuto un rispettoso silenzio per ascoltare la voce dei rappresentanti indigeni, nei loro colorati piumaggi. Quanto chiedevano non erano bazzecole: demarcazione dei loro territori e condanna delle intimidazioni per aver difeso i propri territori.

Tra me e me mi sono chiesto di quanti secoli ci sopravanza il Brasile e quanti ne dovranno passare perché in Italia si raggiunga un livello di democraziatale per cui un ministro è capace di comandare ubbidendo e il popolo non teme di ubbidire comandando.

Un evento, imprevedibile nel 2001 quando iniziò il SOCIAL FORUM a Porto Alegre, è stato l’incontro con i cinque presidenti Latino Americani (Lula- Brasile; Morales-Bolivia; Correa-Ecuador; Chavez-Venezuela; Lugo-Paraguay). Tutti con un peculiare curriculum: Lula operaio, Morales un contadino, Chaves un militare, Lugo un ex-vescovo e Correa un intellettuale indio, laureato a Chicago. Ma tutti uniti da una concezione della democrazia come partecipazione del popolo.

Essi hanno reso omaggio al Forum, ben consapevoli di avere un debito di gratitudine verso le centinaia di migliaia di militanti che, attraverso la convergenza nel Forum, hanno cambiato il volto dell’America Latina affrontando i nodi dell’ingiustizia secolare. Lula si è impegnato a costruire un milione di case, non senza denunciare che l’attuale crisi non è stata generata dai paesi poveri, ma da quelli super-ricchi. Il presidente dell’Ecuador propone obiettivi ambiziosi: un Fondo Monetario del Sud (al posto del Fondo Monetario Internazionale) e una moneta latinoamericana, sul modello dell’euro.

Alla conclusione del FORUM si sente la necessità che gli incontri e le analisi non vadano perse e diano corso a convergenze concrete. Ma ci viene ricordato che esso è solo un’agora internazionale, una piazza dove non si impara a pensare allo stesso modo, ma a costruire un pensiero costantemente nuovo, plurale, da cui nasce una forza creativa. Debbo riconoscere che fino ad oggi la formula ha dato, in pochi anni, risultati sorprendenti, ed ha evitato strumentalizzazioni politiche o ideologiche.

Due giorni dopo la chiusura ho avuto modo di avere un cordiale colloquio con alcuni membri del Consiglio direttivo del Forum ed ho fatto loro presente la necessità di una AUTORITY MONDIALE, composta da 5-7 “saggi”, in rappresentanza dei continenti, con il compito di essere coscienza collettiva della Madre Terra e primo stadio di una democrazia planetaria, oggi più che mai indispensabile. Di questo ne parleremo più avanti.

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2) Belém Un altro mondo è (forse) possibile

di Maurizio Matteuzzi
da il manifesto 3 febbraio 2009

Il nono World social forum termina celebrando la fondatezza delle critiche al capitalismo in crisi e chiedendosi come se ne esce, per non ridursi a un allegro festival di movimenti e (sempre più discusse) ong. Il prossimo forum? In Africa, ma c’è chi chiede – sfida nella sfida – di farlo negli Stati uniti di Obama L’edizione delle ragioni e dei presidenti «amici» si chiude a Belém. Il messaggio? Resistere non basta

L’allegra confusione del Forum sociale mondiale numero 9 a Belém do Pará è finita domenica. Come sempre, e come vuole l’originaria «carta di Porto Alegre», senza un documento finale di bilancio e di sintesi. Il bilancio, al di là della dispersione e delle difficoltà, è positivo. La sintesi è impossibile. I numeri dicono di 150mila partecipanti da 142 paesi, 4000 organizzazioni presenti, 2310 eventi, 4500 giornalisti. Ma i numeri non dicono tutto. Come ha affermato Cândido Grzybowski, il sociologo brasiliano che del Forum è uno dei padri fondatori, «la versione amazzonica dell’Fsm è stata un successo più per il suo significato simbolico che per la la capacità di presentare risultati pratici di corto e medio periodo» (che pure ci sono stati). La scelta della lontana e isolata Belém, il «portal da Amazônia», questo voleva essere e questo è stato. La foresta e gli indigeni – che, più che mai ora con la crisi economica globale, vogliono dire ambiente, risorse energetiche, acqua, terra, beni comuni, diritti umani – sono stati gli elementi dominanti dei 6 giorni del forum, non solo dal punto di vista cromatico, o nel peggiore dei casi folcloristico, e numerico (2000 indigeni di 120 etnie).

In questi sei giorni, fra acquazzoni tropicali e sole bruciante, si è visto e sentito di tutto. C’erano giovani (tanti, un’infinità) e vecchi, studenti e professori, funzionari pubblici e sindacalisti, preti e suore, atei e credenti delle più svariate fedi, indios e neri, ricchi e poveri, intellettuali e ignoranti, ambientalisti e «sviluppisti», opportunisti e demagoghi, quadri di partito e militanti vegetariani. E c’erano, fra entusiasmi e qualche polemica dei movimenti sociali, anche cinque presidenti (più o meno) «amici» – Chavez, Morales, Correa, Lugo e Lula – gente che prima di diventare presidente girava in sandali e maglietta per le strade e i capannoni delle precedenti edizioni a Porto Alegre.

Guardando l’Fsm appena concluso con gli occhi dell’ottimismo e della speranza, viene da dire che il brulichio di questi giorni qui a Belém, mentre il mondo sprofonda nel drammatico collasso del capitalismo neo-liberista, simboleggia l’emergere, certamente ancora confuso, di un mondo diverso. Un mondo diverso le cui avvisaglie si vedono non per caso in America latina. Guardandolo con gli occhi del pessimismo e dello scetticismo c’è il rischio che una edizione dopo l’altra il Forum sociale mondiale si trasformi in un festival dei movimenti sociali e delle (sempre più discusse) ong. Con una battuta cattiva: «Da un altro mondo è possibile a un altro turismo è possibile».

Nessuno può predire il futuro ma, almeno fino a Belém, non è stato così, anche se il pericolo esiste. E per evitarlo bisognerà cambiare registro e «inventare» qualcosa di nuovo.

Belém è stato il Forum sociale mondiale che ha sancito una vittoria indiscutibile: quella grande maggioranza generosa, incazzata e visionaria che nel 2001 si riunì a Porto Alegre per denunciare e resistere alla natura criminale, selvaggia e fallimentare del neo-liberismo e delle privatizzazioni, nel 2009 ha potuto «celebrare» qui nell’emblematica Amazzonia l’assoluta giustezza e il perfetto realismo di quelle critiche. Ma il difficile viene adesso. Perché dalla «resistenza», che non bisogna dimenticare ha prodotto nel giro di pochissimi anni l’inimmaginabile ascesa di governi «progressisti» o «di sinistra»” in Brasile, Bolivia, Venezuela, Ecuador e Paraguay (per tacere dei Kirchner in Argentina e del pur deludente governo del Fronte Amplio in Uruguay), bisogna passare alle proposte. Come si esce – a sinistra e non a destra sull’onda della deriva in cui sembra essere scivolata l’ Europa – dal collasso neo-liberista e dalla crisi del capitalismo, come rispondere alla strategia delle guerre imperiali – da quelle infinite «al terrorismo» degli Stati uniti a quella coloniale di Israele contro la Palestina che anche qui, pur così lontana si è sentita così vicina – e alle sfide rappresentate dalla presidenza di Obama negli Usa.

E’ sulla necessità impellente di passare alla nuova fase che si giocherà il futuro del Forum sociale mondiale. Ed è questo, in sostanza, che nell’incontro di giovedì ha chiesto in modi affettuosi ma spicci João Pedro Stedile, il leader del Senza terra brasiliani, ai quattro presidenti «amici»: va bene parlare del «socialismo del ventunesimo secolo di Chavez», ma voi dovete fare di più «a partire da domani» perché «le opportunità» che la crisi offre potrebbero andare perdute. Più o meno quello che ha detto un altro dei
guru dei Fsm, il sociologo portoghese Boaventura de Souza: attenzione perché se le risposte non vengono da Belém, ovvero dall’«altro mondo», verranno di nuovo da Davos, ovvero dal vecchio mondo di lorsignori già pronto al riciclo (basta vedere come il trilione di euro che era impossibile trovare per risolvere il problema della fame è stato magicamente trovate per salvare banche e banchieri responsabili del crack).

Belém è stata un passo in avanti, ma il tempo stringe e la strada è lunga. Per questo nella assemblea plenaria di domenica sera (con la fattiva partecipazione dell’attivissimo coordinamento italiano dei movimenti sociali) sembra essere prevalsa l’idea di prendersi un anno di tempo prima della convocazione della prossima edizione del Forum. Che nel 2011 dovrebbe tornare in Africa, come nel 2007, forse in Sudafrica o in Senegal. Ma c’è anche chi vorrebbe sparigliare le carte e, sfida nella sfida, andare negli Stati uniti di Obama.

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3) «La crisi? È una breccia per i movimenti popolari»

di Maurizio Matteuzzi
da il manifesto 1 febbraio 2009

Al Forum sociale di Belem è il giorno dei Sem Terra, nati un quarto di secolo fa. Parla il loro leader: la crisi globale, le aperture per i movimenti, i governi più o meno amici, il valore delle elezioni… Il leader dei Sem Terra João Pedro Stedile: «Borghesie senza progetti, ora tocca a noi. Lula? Non è un governo popolare. Votare? Non basta»

Otto di mattina, per molti è presto ma l’Npi, il complesso scolastico chiamato Nucleo Pedagogico Integrado che l’Mst, piovuto in massa al Forum social mundial, ha scelto come proprio accampamento qui a Belém, è un ribollire di gente e d’attività. Uomini, donne, bambini, di tutte le età, tende, amache e materassi piazzati ovunque, la cucina comune in piena attività per la colazione, l’andirivieni dal settore docce… In mezzo a quel brulichio c’è anche João Pedro Stedile, il leader più noto del Movimento dei Senza terra.

Come mai all’incontro di giovedì pomeriggio con Chavez, Morales, Correa e Lugo non avete invitato Lula?

Quello di giovedì pomeriggio era un incontro, una riunione con compagni con cui siamo in contatto da molti anni, uno scambio di opinioni su come uscire in avanti dalla attuale crisi. La resistenza non basta più, ora dobbiamo fare un passo avanti per fare fronte alla crisi e proporre misure che implichino cambi strutturali.

Ci sono molti che credono e temono che la crisi butti a destra. Qui non è così?

Nella crisi del ’29 le borghesie criollas approfittarono dell’occasione per imporre i loro progetti di sviluppo nazionalisti e capitalisti grazie anche all’impreparazione delle classi lavoratrici incapaci di presentare un progetto alternativo. Ora sono le borghesie nazionali latino-americane a non avere un progetto di sviluppo interno. Perciò la maggioranza dei governi propongono misure che sono in realtà solo medicine per il recupero del capitale. Questo può aprire una breccia ai movimenti popolari per imporre un loro progetto alternativo. Che ancora non è «il socialismo del secolo XXI» di Chavez però è quello che noi chiamiamo un «progetto popolare» che potrebbe essere la transizione a un modello economico basato sul recupero della sovranità popolare sulle nostre risorse, sulla garanzia del lavoro, della terra, dell’educazione per tutti. Per sperare di vincere, bisogna avviare un grande processo di unità popolare dei movimenti sociali, dei partiti e dei governi progressisti. Ma sopratutto che nasca nel nostro continente un ciclo storico di ripresa dei movimenti di massa. Solo in Bolivia, secondo me, si può parlare un movimento di massa divenuto un protagonista politico del cambio. In altri paesi ci sono lotte popolari ma non un movimento di massa. Neanche in Venezuela.

In questo quadro nuovo ha ancora senso chiedere la riforma agraria?

La riforma agraria classica che è stata la ragione della nascita dell’Mst e di altri movimenti campesinos dell’America latina aveva come obiettivo la distruzione del latifondo e la ripartizione della terra. Questo tipo di riforma agraria, in alcuni paesi d’Europa, negli Stati uniti e in Giappone, era perfino funzionale agli interessi della borghesia industriale. Questo tipo di riforma agraria è stata spazzata via dal neo-liberismo. I latifondisti si sono trasformati in moderni capitalisti e la loro produzione è destinata al mercato esterno in stretta alleanza con le transnazionali. La crisi ha aperto una breccia in cui noi dobbiamo batterci per una riforma agraria che sia una «riforma agraria popolare». Un movimento cooperativo, una piccola agro-industria sotto il controllo dei campesinos, nuove matrici tecnologiche in favore di un modello agro-ecologico. E’ per questo che noi riponiamo speranze in questa crisi.

Voi avete avuto fin dall’inizio un rapporto di amore-odio con Lula. Se non ha mantenuto l’impegno sulla riforma agraria, è innegabile il carattere «sociale» di almeno una parte della sua azione di governo. Ora che si avvicina la fine della presidenza Lula, qual è il bilancio?

Per dare un giudizio sul governo Lula bisogno considerare tre aspetti. Primo: l’Mst difende e pratica il principio che ogni movimento sociale per essere tale deve essere autonomo da governi, partiti e stato. E a questo principio noi ci siamo sempre attenuti in questi 25 anni. Secondo: il governo Lula non è un governo popolare, non è un governo di sinistra. Non lo dico io, lo dice Lula. E’ un governo inter-classista con settori della borghesia neo-liberista brasiliana, della borghesia nazionalista, della classe media e anche settori della sinistra. Logico che un simile governo prenda misure ambivalenti. Noi seguiamo la stessa logica della destra anche se invertita: la destra brasiliana, che si esprime attraverso i media, quando Lula annuncia qualcosa che favorisce la borghesia applaude, quando decide qualcosa per i poveri critica. I due settori che hanno tratto maggior beneficio dal governo Lula sono stati il grande capitale, nazionale e trans-nazionale, e le banche, e poi quel 20-30% di popolazione più povera che faceva la fame e che ora ha recuperato un minimo di livello di vita. Buono, ma attenzione perché questa non è la soluzione del problema della povertà. I programmi sociali del governo raggiungono 17 milioni di famiglie, ossia 50-60 milioni dei 185 milioni di brasiliani. Un recente studio rivela che il 79% dei componenti di quei 17 milioni di famiglie sono disoccupati e non cercano più lavoro, gente che se ne sta in casa a guardare la tv aspettando dal governo l’assegno della «Borsa famiglia». Questo è un pericolo perché ha tolto ai poveri la dignità di lottare. Ma presto o tardi questa contraddizione esploderà.

Terzo punto: che accadrà domani?

Noi crediamo che le soluzioni per i problemi del Brasile e dell’America latina non sono soluzioni elettorali. La lotta di classe non si muove con le scadenze elettorali ma con la correlazione di forza fra le classi. L’unica soluzione per il Brasile è che le classi popolari riescano ad accumulare forze, a costruire una unità intorno a un programma d’azione e che così si acceleri il recupero di un movimento di massa. L’unico in grado di imporre cambi strutturali. Io personalmente, che mi aggrappo alla dialettica e allo spirito santo in quanto religioso e cristiano, sono ottimista: in Brasile le contraddizioni sono molto grandi e a un certo momento si produrrà il cortocircuito perché con i voti e la televisione non si risolvono i problemi di questo paese.

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4) Un Foru
m che respira speranza

di Marica Di Pierri
da carta.org 2 Febbraio 2009

L’Assemblea delle assemblee ha chiuso domenica la nona edizione del Forum sociale mondiale, apertosi il 27 gennaio a Belem do Parà, nel nord del Brasile. Dalle nuove alleanza tra movimenti e dalle date di azione globale, si rafforza la speranza per uscire dalla crisi e dal neoliberismo.

Si è chiuso ieri il Forum sociale mondiale di Belem, dopo sei giorni di lavori che hanno visto centomila persone partecipare a iniziative, dibattiti, assemblee, conferenze, laboratori, attività sportive, artistiche e culturali. Un’edizione questa che ha messo al centro l’Amazzonia, non solo luogo ospite, ma patrimonio dell’umanità da perseverare, perché dalla sua salvezza dipende quella del pianeta. Un Forum che ha affrontato i problemi della crisi, dell’emergenza ambientale, delle risposte che i movimenti e le associazioni stanno elaborando e portando avanti per farvi fronte.

Per questo Fsm 2009 è arrivata a Belem un’enorme quantità di giovani – più che nelle edizioni precedenti – e moltissimi indigeni, la maggior parte dalla regione amazzonica ma anche dal resto del continente, arrivati via terra e via fiume affrontando giorni di cammino. I campus delle due università, quella federale del Parà Ufpa e quella rurale amazzonica [Ufra] si sono trasformate per sei giorni in coloratissimi e affollati scenari, nei quali decine di migliaia di persone si sono avvicendate per seguire le 2.300 attività in programma nei tendoni allestiti per l’occasione.

Il Forum è stato chiuso domenica da una grande assemblea, chiamata Assemblea delle assemblee, che ha raccolto le proposte emerse durante le assemblee tematiche cui è stato dedicato l’ultimo giorno di lavori e durante le quali si è discusso tra l’altro di crisi, lavoro, ambiente, migrazioni, diritti umani, diritti collettivi dei popoli, lotta agli armamenti, questioni di genere.

Non si è trattato di tentare una sintesi, ma di costruire una agenda condivisa lasciando immutata la natura di spazio aperto ed eterogeneo rappresentato da nove anni a questa parte dell’appuntamento con il Forum sociale mondiale. Le convergenze a Belem sono nate sulle proposte, molte delle quali rappresentano novità importanti e opportunità concrete di azione per i movimenti del sud e del nord del mondo.

A succedersi sull’enorme palco montato all’ingresso del campus, davanti a migliaia di persone rimaste ad assistere nonostante la pioggia battente ed il fango, i facilitatori delle assemblee tematiche, nei cui discorsi è tornato invariabilmente il forte richiamo alla situazione del popolo palestinese.

Tra i futuri appuntamenti di azione e mobilitazione, spiccano la settimana di mobilitazione globale contro la guerra e gli armamenti che si terrà dal 28 marzo al 4 aprile [proprio il 30 marzo sarà dedicato alla Palestina]e il G8 di luglio in Sardegna [dove i movimenti si sono già dati appuntamento per presentare le loro proposte].

Altra data importante sarà il 12 ottobre, che diverrà da quest’anno giornata globale di mobilitazione in difesa della Madre Terra e contro la mercificazione della vita, lanciata dal movimento indigeno proprio nella data che ha significato l’inizio della dominazione spagnola e del genocidio dei popoli indigeni del continente, allora chiamato Abya Yala.

A nove anni dalla prima edizione, il Forum sociale mondiale resta – e questa edizione amazzonica lo conferma – il principale spazio di discussione, confronto, scambio e articolazione tra organizzazioni della società civile di tutto il pianeta. Mentre a Davos la polizia ha represso i manifestanti accorsi a protestare contro il Forum economico mondiale, a Belem in questi giorni si sono tessute reti di solidarietà e alleanze, sono state elaborate proposte e, soprattutto, si è respirato speranza.

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5) Davos, la miseria dei ricchi Belèm, la lezione dei popoli

di Vittorio Agnoletto
da Liberazione 3 febbraio 2009

A Davos capi di stato e amministratori di multinazionali hanno battuto cassa chiedendo agli Stati di riparare i disastri prodotti dal capitalismo liberista; non hanno una strategia, guardano solo al loro futuro immediato ed esigono tanti soldi per proteggere i loro profitti e continuare a trascinare il mondo verso la catastrofe economica e ambientale. A Belem oltre 100mila persone hanno discusso per una settimana di come un uso intelligente delle risorse pubbliche possa garantire un futuro all’umanità. Quello che si è appena concluso in Amazzonia è stato un Forum eccezionale, sia che si volga lo sguardo all’indietro, sia che si scruti l’orizzonte.

Se guardiamo indietro, scopriamo che molte proposte discusse fin dal 2001 nel primo Forum Sociale Mondiale (FSM) a Porto Alegre ora sono diventate realtà. Infatti i presidenti Lugo, Correa, Morales, Chavez e Lula, pur con le loro diversità, hanno riconosciuto di essere debitori ai movimenti di molte delle iniziative assunte dai loro governi.

La difesa dei beni comuni: l’acqua, la terra, l’energia e i servizi pubblici; la nazionalizzazione di alcune grandi imprese sono diventate in America Latina pratiche correnti. In alcuni casi è evidente il ribaltamento dei paradigmi che da secoli guidano l’azione del liberismo: Correa ribadisce la scelta dell’Ecuador di non estrarre il petrolio dal sottosuolo per non distruggere le foreste, per questo chiede alla comunità internazionale di versare almeno la metà di quanto il suo Paese avrebbe potuto guadagnare dal petrolio al quale rinuncia per tutelare un bene dell’umanità.

Ma quando le promesse fatte in tempi elettorali non sono mantenute, come nel caso di Lula sulla riforma agraria, i movimenti, i Sem Terra criticano il governo senza limitarsi alla parole, occupando le terre.

E’ evidente una dialettica movimenti/governi di sinistra, o di centro sinistra. Da un lato i movimenti non rinunciano alla loro autonomia, ritrovano un’ unità d’azione attorno ad impegni condivisi, senza porre come discriminante il sostegno o l’opposizione al governo in carica; dall’altro lato chi, da sinistra, partecipa al governo non ricerca la sterilizzazione dei movimenti e non lavora per ridurli al silenzio.

Esattamente l’opposto di quanto noi, pur da collocazioni diverse, abbiamo fatto durante il governo Prodi: abbiamo molto da imparare.

Se guardiamo in avanti, a Belem è stata evidente la consapevolezza dell’enorme responsabilità che abbiamo: non più un altro mondo è possibile ma è necessario, ed è l’unico possibile per poter offrire un futuro all’umanità.

Per fronteggiare la crisi non possiamo accontentarci di rivendicare la correttezza delle analisi sviluppate dal FSM fin dal 2001, dobbiamo praticare delle soluzioni a livello locale, continentale e globale.

Da Belem giungono alcune indicazioni precise. A livello locale è stato posto al centro un sistema di politiche comuni su infrastrutture, energia e comunicazione fondate sulla sovranità alimentare, la filiera corta, la tutela dei ceti più poveri e quella ambientale. Nella dimensione regionale la costruzione del Banco del Sur (banca centrale regionale) e del Fondo del Sur, con l’obiettivo di diventare autonomi dal Fmi e garantire stabilità finanziaria, rappresentano la nascita di istituzioni opposte per genesi, obiettivi e governance alla Banca Centrale Europea.

Su scala globale l’attenzione è sulla lotta ai paradisi fiscali, sul rilancio di strumenti simili alla Tobin Tax per porre un freno alle transazioni finanziarie speculative, sul risarcimento del debito ecologico accumulato dal Nord del mondo verso il Sud. Non sono sogni ma obiettivi realizzabili. L’intreccio tra queste strategie e l’agenda di mobilitazio
ne dei movimenti ha come elemento fondante l’opposizione al liberismo nelle sue molteplici varianti. Il messaggio principale che proviene da Belem è che non esiste alcuna possibilità di gestione “umana” del mercato. Ed infatti come d’incanto sono scomparsi i vari leader dei partiti socialisti, i capi dei governi “progressisti europei”; costoro solo due anni fa avevano tempestato il Consiglio Internazionale del Forum pur di ricevere un invito formale.

Tutti scomparsi; alcuni di loro sono stati visti a Davos. Ecco un’ulteriore riflessione che Belèm regala a noi, sinistra europea ed italiana: l’alternativa o è antiliberista, anticapitalista fondata sul Socialismo del XXI secolo ed è culturalmente, politicamente e organizzativamente autonoma dalla sinistra moderata, dall’internazionale socialista e dalle varie versioni di Pd, o non è un’alternativa.

Questo vale in Italia, ma anche per la nostra collocazione presente e futura in Europa.