Passa in Senato la ‘caccia al clandestino’: i medici potranno denunciarli

(5 febbraio) L’aula del Senato ha approvato l’emendamento della Lega al ddl sicurezza che elimina il divieto di denuncia da parte dei medici degli immigrati che vengono assistiti dal servizio sanitario nazionale e dà loro la facoltà di effettuare la denuncia stessa. La maggioranza ha votato a favore, con 156 voti, l’opposizione ha votato contro con 132 voti, un astenuto.

L’emendamento al ddl sicurezza approvato da palazzo Madama sopprime il comma 5 dell’articolo 35 del decreto legislativo del 25 luglio 1998, n. 286, ossia il Testo unico di disciplina dell’immigrazione, con norme sulla condizione dello straniero. L’articolo in questione recita: «L’accesso alle strutture sanitarie da parte dello straniero non in regola con le norme sul soggiorno non può comportare alcun tipo di segnalazione all’autorità, salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto, a parità di condizioni con il cittadino italiano».

La cancellazione di questo comma, qualora venisse confermata dall’esame della Camera, comporta la possibilità (e non l’obbligo) dei medici di denunciare alle autorità la condizione di irregolarità di un paziente straniero che si rivolga alle loro cure. La maggioranza difende il provvedimento sostenendo che il diritto fondamentale alla salute rimane tutelato e che agli stranieri irregolari che si rivolgono alle strutture sanitarie, le cure saranno garantite. L’opposizione, al contrario, la definisce una barbarie ed un’interferenza deontologica al giuramento d’Ippocrate.

Data la forma del provvedimento che cancella la proibizione ai medici di denuncia, ma non ne prevede l’obbligo, la probabilità che i medici assieme alla cura aggiungano la delazione alle autorità del paziente irregolare che va a farsi curare da loro, rimane oggettivamente scarsa. Norma non obbliga nessuno a farlo e, comunque, molte associazioni di medici (a partire da MSF) hanno già anticipato la decisione di ricorrere, se necessario, all’obiezione di coscienza. Anche la Chiesa ha reso pubblica l’intenzione di chiedere ai medici cattolici di fare opposizione attiva a questo provvedimento.

Non c’è dubbio, però, che l’obiettivo su cui punta la Lega è l’effetto annuncio del provvedimento e la sua rappresentazione mediatica. In effetti i danni prodotti da questo meccanismo sono già in corso da tempo. A conferma, vengono alcuni dati del SSN, secondo i quali da novembre scorso (quando la Lega propose questo emendamento al ddl sicurezza) ad oggi, il numero di stranieri che si sono rivolti alle strutture pubbliche (ed al pronto soccorso, in particolare), sarebbe calato di oltre il 50%. E’ evidente che il migrante irregolare, nel dubbio preferirà non recarsi nelle strutture della sanità pubblica, ricorrendo a forme alternative di cura.

Quello che rischia di succedere ora è facilmente prevedibile, e lo rappresenta bene Aldo Morrone, direttore dell’Ircss (Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico) del San Gallicano di Roma . “Il danno”, spiega, “lo farà la paura, la percezione che si ha di questa norma, e il rischio è quello di diffusione di malattie nel territorio; c`è il rischio che tutta una serie di malattie non vengano diagnosticate e non siano quindi trattate adeguatamente”. “Inoltre – prosegue Morrone – questo apre la strada anche alla possibilità della nascita di mercati clandestini, dove gli immigrati non dovessero più fidarsi del servizio sanitario pubblico, può nascere l`offerta di un servizio clandestino, che sfrutti la situazione per guadagnare sproporzionatamente sulla loro pelle. Non dobbiamo dimenticare che attualmente il 35-40% delle interruzioni di gravidanza riguarda donne immigrate.

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Il pacchetto sicurezza. Altre norme

Schedatura. Chiama l’attenzione la schedatura dei ‘barboni’, il ‘registro dei clochard’: le persone senza fissa dimora che si trovano sul territorio italiano dovranno essere registrate in un apposito elenco, istituito presso il ministero dell’Interno, da avviare entro 180 giorni dall’entrata in vigore della legge. Si schedano e si lasciano morire di freddo nelle strade ospitali delle grandi città.

Ronde. Altro articolo del provvedimento che ha suscitato dure reazioni da parte dell’opposizione è il 46, quello che istituisce le cosiddette ‘ronde padanè. Gli enti locali potranno avvalersi della collaborazione di associazioni tra cittadini che potranno segnalare agli organi di polizia locale «eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana o situazioni di disagio ambientale». Le ‘rondè, però, non potranno girare armate ( testuale!), secondo quanto previsto da un emendamento del Pd approvato dall’aula.

Writers. Se il reato è commesso a danno di beni immobili o mezzi di trasporto pubblici e privati la multa potrà variare da 300 a 1.000 euro. Se invece è commesso su «cose di interesse storico o artistico» la sanzione pecuniaria sarà di 1.500 euro. Nei casi di recidiva, la multa salirà fino a 2.500 euro (contro i 10mila inizialmente previsti). Molti commenti insistevano sul fatto che la norma è più leggera, perché era stato paventato l’arresto, in precedenza. Come dire che la si spara grossa e quando è repressione, ma minore, allora è benvenuta.

Migranti. Si paga per restare in regola a lavorare. La tassa sul permesso di soggiorno, che potrà variare da un minimo di 80 euro ad un massimo di 200 euro.
La coalizione che ha votato in maggioranza il pacchetto si chiama ‘Popolo della Libertà’. Paradossi semantici.

Internet, libertà filtrate? La sicurezza pubblica passa dalla rete: in caso di apologia di reato, in caso di istigazione a delinquere, i provider potrebbero trovarsi costretti a innescare misure per filtrare le pagine sotto indagine. Dietro l’angolo, in caso di inottemperanza, c’è la minaccia della corresponsabilità. Nelle mani dei provider ci potrebbe essere l’onere di percorrere il crinale che divide la libertà di espressione e il reato di opinione.

Nel pacchetto sicurezza si introduce l’articolo 50-bis, “Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet”. Al comma 1 si recita: “Quando si procede per delitti di istigazione a delinquere o a disobbedire alle leggi, ovvero per delitti di apologia di reato, previsti dal codice penale o da altre disposizioni penali, e sussistono concreti elementi che consentano di ritenere che alcuno compia detta attività di apologia o di istigazione in via telematica sulla rete internet, il Ministro dell’interno, in seguito a comunicazione dell’autorità giudiziaria, può disporre con proprio decreto l’interruzione della attività indicata, ordinando ai fornitori di connettività alla rete internet di utilizzare gli appositi strumenti di filtraggio necessari a tal fine.”

Se le parole di un cittadino della rete dovessero finire sotto indagine per essersi pronunciato riguardo a certi delitti, se il cittadino della rete dovesse essere sospettato di aver incoraggiato a commettere un reato, l’autorità giudiziaria potrebbe comunicare al Ministro dell’Interno la necessità di intervenire. “Ci sono i presupposti perché il ministro agisca in modo discrezionale” spiega l’avvocato Daniele Minotti: la formulazione del testo non sembra obbligare il Ministro a disporre il decreto per mettere in moto i provider.

Ma una volta emesso il decreto la palla passerà agli ISP: dovranno innescare “appositi strumenti di filtraggio”, dei quali tracceranno i contorni tecnici e tecnologici il Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico e con quello della pubblica amministrazione e innovazione. Avranno 24 ore per isolare dalla rete la pagina indicata dal decreto del Ministro: a pendere sul capo del provider potrebbero esserci sanzi
oni che oscillano dai 50mila ai 250mila euro. Ma soprattutto, sottolinea l’avvocato Minotti, l’ombra dell’accusa di essere corresponsabili di “apologia o di istigazione in via telematica sulla rete internet”.

“Rischiano di essere accusati di concorso – spiega Minotti – si tratta di un meccanismo perverso: avere l’obbligo giuridico di impedire un evento e sfuggire a quest’obbligo equivale a lasciare che altri continuino a compiere il reato e si finisce per dover rispondere di reato omissivo improprio. Pagando per la stessa imputazione”. Un’imputazione che, delineata dagli artt. 414 e 414 c.p., è punita con il carcere: da 1 a 5 anni per l’istigazione a delinquere e per l’apologia di reato, da 6 mesi a 5 anni per l’istigazione alla disobbedienza delle leggi di ordine pubblico o all’odio fra le classi sociali.

Le poche parole contenute nell’articolo 50-bis potrebbero aprire uno squarcio su uno scenario inquietante: l’avvocato Minotti sottolinea che i reati d’opinione sono reati che non sono inquadrati dalla legge in maniera definita, che potrebbero sovrapporsi con la manifestazione del pensiero dell’individuo, un diritto tutelato dall’articolo 21 della Costituzione. I provider, concordano i consumatori, potrebbero trovarsi ad agire come setacci della libera espressione: il filtraggio può essere ordinato qualora “sussistono concreti elementi che consentano di ritenere” che sia stato commesso un reato.

Sono numerosi gli interrogativi che si configurerebbero, qualora il DDL dovesse convertirsi in legge senza che l’art.50-bis venga stralciato. L’attenzione dell’autorità giudiziaria potrebbe concentrarsi ad esempio su un video postato su una piattaforma di sharing. Nell’ipotesi che la piattaforma non rimuova il contenuto su segnalazione, dovrebbero intervenire i provider. Che potrebbero non avere i mezzi per agire in maniera chirurgica, e potrebbero trovarsi costretti a inibire l’accesso all’intero dominio. “L’applicazione del DDL appena approvato – conferma a Punto Informatico l’avvocato Guido Scorza – porta come automatica conseguenza il ritorno del paese ad un film liberticida già visto 10 anni fa: quello in cui per impedire la circolazione di un contenuto ritenuto illecito si sequestrava un intero server”.

“Se fosse vero – paventa invece il presidente di AIIP Paolo Nuti – ci troveremmo di fronte ad un provvedimento che sovverte, e non sarebbe la prima volta, il concetto di sequestro”. “Anziché concentrare l’attenzione su chi utilizza Internet per compiere reati e rimuovere i contenuti illecitamente diffusi – spiega Nuti a Punto Informatico – ci si limiterebbe a nasconderne l’esistenza ad un’opinione pubblica giustamente allarmata, ma sostanzialmente inconsapevole della differenza che corre tra pull e push, tra internet e la televisione, tra censura e sequestro”. “Se fosse vero – denuncia Nuti – il prossimo passo potrebbe essere il ripristino della censura, espressamente esclusa dall’articolo 15 della Costituzione, delle comunicazioni interpersonali”.