La pace dal basso su cui bisogna scommettere

di Lia Tagliacozzo
da www.confronti.net

Colloquio con Manuela Dviri

«Non è più tempo di certezze, io non so cosa avrei fatto se fossi stata il primo ministro di Israele, né cosa avrebbe fatto un primo ministro americano o europeo. Che ci piaccia o meno, Hamas esiste e non si possono mica ammazzare tutti. Allora, se non si vuole ammazzarli, che ci si parli!». Dviri è l’autrice del libro «Shalom, Omri. Salam, Ziaad», illustrato da Sergio Staino.

«L’importante è non arrendersi alla guerra. Mai. Da lontano è facile pensare di arrendersi, ma vivendo in Israele come fai? Se mi arrendessi prenderei la mia famiglia e me ne andrei. Non si può pensare di vivere tutta la vita nella guerra. Se dei marziani ci guardassero dall’alto, guarderebbero queste formichine impazzite che si uccidono e ci domanderebbero: cosa state facendo?». Manuela Dviri, israeliana di origini italiane, quando le si domanda se lavorare per una pace dal basso ha senso anche sotto le bombe ha solo questa certezza: non ci si può arrendere, bisogna continuare a lavorare per la pace, a costruire, a scrivere.

«La storia di Omri e Ziaad, per esempio, è una storia vera – dice – nata nell’ambito di un progetto in cui bambini palestinesi vengono curati in ospedali israeliani. I rapporti che si creano sono rapporti reali, non solo tra bambini, anzi, i rapporti più importanti sono quelli tra adulti che lavorano insieme condividendo l’obbiettivo che i bambini rimangano vivi. Per questa condivisione sono capaci di costruire un dialogo tra la parte di noi stessi che è uguale: il sangue, le unghie, i capelli, il fatto di essere vivi. Tutto questo è uguale sia se sei israeliano, palestinese, cinese o indiano. La parte fortemente politica del progetto dice con forza che alla fine soffriamo tutti allo stesso modo».

I protagonisti del racconto al quale Manuela Dviri fa riferimento sono due bambini veri che vivono divisi da un muro vero: Omri vive in Israele e gli piace danzare, Ziaad, riccioli neri e occhi azzurri, vive in un villaggio dall’altra parte delle mura, in un paese che si chiama Palestina. Omri e Ziaad si conoscono in un ospedale dove sono costretti a dividere la stanza, hanno una paura dannata l’uno dell’altro, non parlano la stessa lingua e pensano entrambi che l’altro sia cattivissimo, colpevole della morte, rispettivamente, dello zio e del fratello. Nei giorni di ospedale non diventeranno amici del cuore eppure qualcosa cambia e la Dviri e Staino raccontano di questo timido, piccolo, quasi impercettibile cambiamento. Un cambiamento sul quale bisogna scommettere anche adesso.

A due settimane dall’inizio dell’operazione «Piombo fuso» dell’esercito israeliano a Gaza [quando avviene l’incontro con l’autrice], la voce di Manuela Dviri è provata. È di passaggio in Italia, ma trascorre le giornate a guardare la Cnn. Jonathan, il figlio ventenne di Manuela, è stato ucciso in Libano mentre faceva il soldato di leva nell’esercito israeliano nel 1988, da allora lei si è impegnata fortemente e pubblicamente per il ritiro di Israele dal Libano e per le ragioni della pace e del dialogo. Non offre valutazioni sulla politica «alta», quella degli stati e delle istituzioni internazionali, piuttosto si sforza, con difficoltà, di suggerire il conforto di un lavoro minuto, da formichine: «La pace dal basso è difficile: è fatta di grandi sconfitte e di piccoli successi, ma anche di grandi successi e piccole sconfitte… c’è di tutto. Noi abbiamo continuato a lavorare, sempre, per tutti questi anni».

Ziaad, quando esce dall’ospedale e torna al suo villaggio, «ha molta meno voglia di uccidere tantissimi israeliani, perché – sta spiegando alla sua nuova sorellina appena nata e a suo fratello Jamal che la tiene in braccio – tu non puoi capire, ma quando sono piccoli non ti fanno niente. Ho deciso che è meglio lasciar perdere». Anche Omri ha imparato molte cose: «A me Ziaad sembra normale, anche se è palestinese e non sa parlare l’ebraico. Non uccide nessuno, non imbroglia neanche tanto a carte». Non è un lieto fine, ma è quanto di meglio ci si possa aspettare.

«È un conflitto difficile – spiega ancora Manuela Dviri – che mostra al mondo la realtà complicatissima che stiamo vivendo tra un popolo che rappresenta l’occidente e Gaza che è nella mani di Hamas: loro sono antidemocratici, fanatici e fondamentalisti. E chi è troppo fondamentalista ha in testa un’idea e solo quella, non le persone vive. Lo scontro è tra questo modo di vedere ed uno stato democratico e progredito, eppure tutte le armi del mondo non servono a combattere Hamas.

Non è più tempo di certezze, io non so cosa avrei fatto se fossi stata il primo ministro di Israele, né cosa avrebbe fatto un primo ministro americano o europeo. Che ci piaccia o meno, Hamas esiste e non si possono mica ammazzare tutti. Allora, se non si vuole ammazzarli, che ci si parli! Di questa guerra l’unica cosa da augurarsi è che finisca il prima possibile, che si arrivi subito ad una tregua per avviare un rapporto di qualche genere.

Bisogna che Gaza sia ricostruita meglio di prima, quella gente non può stare chiusa da tutte le parti, da Israele, dall’Egitto e dal mare. Non possono continuare a vivere in una pentola a pressione, la pentola poi esplode. La guerra deve finire. È necessario anche per continuare a dialogare con il mondo arabo moderato. I fondamentalismi fanno paura anche a loro, non solo a Israele. È necessario che la tragedia finisca il prima possibile, perché è comunque una tragedia, in qualsiasi modo la si guardi».

Le voci del movimento pacifista israeliano e palestinese arrivano in Italia appannate dalla stanchezza, dallo sconforto e dalla disperazione; sembra che tutti gli sforzi stiano naufragando. Per i pacifisti israeliani anche la sola coerenza dei gesti quotidiani costa ancora più fatica del solito, per i palestinesi annega nella rabbia. Eppure l’unico argine possibile alla disperazione, dicono quando la lucidità lo consente, è continuare a lavorare, a tessere. Piano, con la pazienza delle formichine.

«È importante – prosegue Dviri – che la Diaspora ebraica cerchi di capire che Israele non ha bisogno dell’appoggio totale qualsiasi cosa faccia, Israele ha bisogno di uno sguardo dal di fuori che l’aiuti a costruire ponti con il mondo palestinese e arabo. E per chi vuole aiutare la pace c’è un forum a cui partecipano tutte le organizzazioni israeliane che lavorano per la pace insieme ai palestinesi, basta guardarlo e scegliere chi fa le cose che convincono di più e aiutarlo, sia fisicamente che con dei fondi, anche perché in questo momento non è facile trovare denaro per lavorare su queste cose, invece è sempre più necessario aiutare israeliani e palestinesi a capire che sono destinati a vivere l’uno accanto all’altro. A meno che uno non elimini l’altro… ma sarebbe terribile. Dovremo per forza vivere accanto».

Anche la banalità del bene ha una sua protervia determinata. Non c’è luce che offra garanzie né fede che illumini orizzonti sereni, ma la pace dal basso, quella che può nascere nella società civile, è la sola, sconfortata, scommessa possibile. E oggi si fa anche con piccoli gesti: «Ho portato – racconta – il libro su Omri e Ziaad a scuola di mio nipote e i bambini l’hanno accolto calorosamente, loro si riconoscono in Omri: è raro che una famiglia israeliana o una palestinese non abbia perduto un parente, non abbia un lutto da piangere. Per forza ci si riconoscono.

Il progetto Saving children (finanziato anche da varie Regioni italiane) dal 2003 ha attivato una collaborazione tra ospedali e medici israeliani e palestinesi per curare bimbi palestinesi. Non ha mai smesso di lavorare e sta continuando anche adesso. Questa guerra è una vera tragedia e quello che possiamo fare è curare ed educare i bambini, altrimenti cos
a siamo nati a fare? Qui si spera non perché si sia ottimisti ma perché non c’è scelta. Non puoi fare a meno della speranza».