Medio Oriente. Prima, durante e dopo una tragedia annunciata

di Lucia Cuocci e David Gabrielli
da www.confronti.net

Programmato per Capodanno, il nostro viaggio a Gerusalemme e dintorni è stato dominato dai drammatici eventi di Gaza. Voci, diversificate, di ebrei ed arabi israeliani sulle responsabilità della tremenda guerra e, dopo la fragile tregua, sui modi per giungere ad una pace giusta. E, da Roma, domande sul domani.

La tragedia di Gaza ha naturalmente sconvolto anche ciascuna e ciascuno di noi di Confronti, e quante e quanti seguono il nostro lavoro, le nostre iniziative, e ci onorano della loro fiducia. Un dramma tremendo che pesa sul nostro cuore, e lacera le nostre coscienze. Mille le domande che si siamo fatti, e continuiamo a farci: che possiamo fare, che possiamo dire per dare il nostro – infinitesimale, ma sincero – contributo ad una pace giusta? In questo numero, dall’editoriale alle pagine che seguono, riportiamo voci variegate per tentare una qualche analisi, porre domande a noi stessi, arrischiare brandelli di risposte.

Un «confronto» che naturalmente non può esaurirsi in questo numero, e che continuerà a lungo, arricchito, vogliamo sperare, da interventi di commento, di critica, di sostegno, di analisi da parte di chi ci legge, e che noi caldamente invitiamo ad entrare in questa arena – non per combatterci ma, nel rispetto delle diverse ed appassionate opinioni, per aiutarci tutti a capire e ad aiutare la pace.

Ma, intanto cominciamo qui a fare la cronaca del nostro viaggio a Gerusalemme e dintorni, programmato attorno a Capodanno, perché esso si è intrecciato proprio con gli imprevisti eventi di Gaza. Partiamo lo stesso? Annulliamo? Domande angosciose, che ci siamo scambiati tra noi, e con ciascuna delle persone – provenienti da varie regioni italiane – che si erano iscritte al nostro ennesimo viaggio di studio là dove la pace è più difficile, e che dal 28 dicembre al 5 gennaio ci avrebbe portati in Israele e in Cisgiordania.

L’attacco israeliano è iniziato laggiù alle 11,30 del 27 dicembre – era sabato ma, abbiamo appreso poi, il rabbinato aveva dato il suo consenso al lavoro dell’operazione «Piombo fuso» in quanto considerata una necessaria misura difensiva contro l’aggressione di Hamas. Dopo molte consultazioni e telefonate, abbiamo deciso di partire, anche perché su 31 iscritti solo una persona, già per diversi motivi, aveva dovuto disdire il viaggio. Naturalmente, il nostro itinerario – preparato accuratamente da molte settimane – avrebbe subìto variazioni, da valutarsi in rapporto alla situazione in loco e sentite anche le autorità diplomatiche italiane.

Di fatto, siamo stati costretti ad annullare i previsti incontri con le autorità di Sderot, la città israeliana, quasi confinante con la Striscia, e bersaglio da mesi di razzi lanciati da Hamas; e cancellare la visita alla città di Jenin – al nord della Cisgiordania occupata – dove tra l’altro ci attendevano impazienti le ragazze e i ragazzi che nel giugno scorso erano stati da noi invitati in Italia, nell’àmbito dell’iniziativa Fiori di pace, insieme a coetanei ebrei israeliani. La cancellazione della tappa di Jenin ci ha privati di testimonianze importanti.

Da «Parents circle» a «Breaking the silence»

A Gerusalemme abbiamo incontrato Rami Elhanan, ebreo, uno dei leader di Parents circle in Israele; impedito dalla situazione politica e militare, all’appuntamento non è però arrivato un rappresentante palestinese dell’organizzazione bipartisan che raccoglie circa cinquecento famiglie di ebrei israeliani e di palestinesi che, gli uni a causa dei kamikaze, gli altri a causa dei bombardamenti o degli attacchi delle Idf-Tshal (Forze di difesa israeliane), hanno perso un familiare e che, da questo dramma, non vogliono trarre motivi di vendetta ma motivi per non spargere altro sangue e ricavare dalla rispettiva tragedia il coraggio di riconciliarsi con il nemico e lavorare insieme per una pace giusta.

Il nostro amico Rami (che, con il suo «collega» palestinese, avevamo incontrato varie altre volte in precedenti viaggi), oltre a raccontare la sua vicenda – una figlia morta in un attentato kamikaze – e la scelta di Parents circle, ha anche raccontato quello che certamente avrebbe detto l’amico palestinese.

A proposito di Gaza, Rami, giudicando una tragedia la scelta del governo d’Israele, si è chiesto che cosa sarebbe avvenuto quando tutto fosse finito, se Israele sarebbe stato più al sicuro e la pace giusta più vicina. Più o meno lo stesso interrogativo se lo è posto Mikhael Manekin, uno degli esponenti di Breaking the silence, un’organizzazione che raccoglie un piccolissimo gruppo di soldati israeliani che hanno prestato servizio nei check-point della Cisgiordania occupata e che, proprio partendo dalla loro concreta esperienza, hanno deciso appunto di «spezzare il silenzio» raccontando all’opinione pubblica israeliana le ingiustizie inevitabilmente collegate con gli stessi passaggi di controllo disseminati ovunque in Cisgiordania, che sono decine e decine.

Senza voler giudicare nessuno, ma parlando di sé o di ciò che lui ha personalmente constatato, ha ricordato che moltissimi soldati vigilano ai check-point senza sapere una parola di arabo, il che comporta quasi automaticamente incomprensioni con i palestinesi che cercano di passare, e spesso innescano brutalità perché la gente, non comprendendoli, magari disobbedisce a certi ordini. «Sono un ebreo israeliano, amo Israele, soffro per Israele. Proprio perché amo il mio paese ritengo giusto parlare delle cose che non vanno, per cercare di correggerle».

Hand in Hand. Wolfson Center. Ministero israeliano degli Affari sociali. Caritas Baby Hospital

In Israele vi è un’organizzazione, Hand in Hand (mano nella mano) che gestisce quattro scuole – che vanno dalle elementari alla scuola media (14 anni) – nelle quali gli insegnanti parlano in ebraico o in arabo, e gli alunni imparano le due lingue. Queste scuole seguono i normali programmi del Ministero dell’Istruzione, che dunque paga i docenti. Ma il governo paga un solo docente per materia, e quindi l’altro deve essere pagato dall’organizzazione che è dunque impegnata a raccogliere fondi ad hoc sia in patria che all’estero.

Anche i presidi delle scuole Hand in Hand sono due, un ebreo israeliano e un arabo israeliano: Orna Eylat e Taghreed Khatib sono le due presidi della scuola Galil da noi visitata. Anche nel nostro incontro alla scuola Galil non poteva non irrompere la tragedia di Gaza. Molto onestamente, Orna e Taghreed ci hanno detto di non aver direttamente toccato la tematica con i bambini più piccoli, ma di averla invece affrontata con i ragazzi più grandi. I quali, così, hanno potuto sentire due punti di vista: l’uno che sostanzialmente ritiene inevitabile la ferma risposta delle Idf ai lanci di razzi da parte di Hamas, l’altra che ritiene tale risposta, così come attuata, immorale e anche, politicamente parlando, in prospettiva deleteria per Israele.

Le ripercussioni della tragedia di Gaza sulla coraggiosa iniziativa di Hand in Hand hanno toccato anche gli insegnanti e le famiglie della scuola Galil e di Jenin da dove, finora, sono venuti la maggior parte dei ragazzi israeliani e palestinesi coinvolti in Fiori di pace. Noi non sappiamo, ora, se e come potremo portare avanti la nostra iniziativa, che prevedeva una nuova puntata proprio alla metà del prossimo marzo: infatti, se alcune famiglie (di qua e di là del «fronte»), a quanto finora abbiamo potuto apprendere, sono ancor più motivate a continuare l’esperienza iniziata, altre invece pensano che, dopo il dramma di Gaza, non abbia più senso un tale dialogo.

Ma un particolare tipo di dialogo – se possiamo denominarlo così – continua in una singolare esperienza, che per la prima volt
a abbiamo avvicinato nei nostri viaggi: Save a child’s heart (Sch, Salva il cuore di un bambino). Iniziata nel 1996 per opera del dottor Ami Cohen presso il Wolfson Center, un ospedale di Holon – periferia di Tel Aviv – Sch è specializzato per curare bambini con malattie cardiache. Il che non è nulla di speciale, naturalmente: la particolarità è che tali bambini provengono da paesi «in via di sviluppo» e, in particolare – un terzo – dai Territori palestinesi occupati e dall’Iraq.

I piccoli degenti sono ospitati gratuitamente, insieme ai genitori che li accompagnano, e tutte le spese sono coperte da Sch, che si finanzia con donazioni di privati in Israele e nel mondo (per informazioni: www.saveachildshearth.org). In tredici anni di lavoro Sch ha curato più di duemila bambini, provenienti da trenta paesi asiatici ed africani. Ci dice il dottor Sion Houri – ebreo di origine tunisina e tra i fondatori di Sch– che lavora al Wolfson Center: «Non guardiamo al colore della pelle, né al paese di provenienza. Curiamo tutti i bambini che, nei limiti delle nostre possibilità, riusciamo ad ospitare. Siamo tutti di una sola razza: umana».

Ancora sul versante israeliano, al Ministero degli Affari sociali incontriamo il dottor Avraham Lavine, direttore del Dipartimento degli affari internazionali del Ministero, che ci illustra quello che il suo dicastero ha fatto per i Territori palestinesi fino a che (nel 1994, come applicazione degli accordi di Oslo) la sanità e gli affari sociali sono stati presi in mano dall’Autorità palestinese. Secondo Lavine Israele aveva messo in piedi, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza occupate nel 1967, un’ampia e solida rete che stava dando i suoi frutti e che Israele sperava si sarebbe ulteriormente sviluppata una volta affidata totalmente ai palestinesi.

Purtroppo però – questa la tesi di Lavine – così non è accaduto, e molte delle infrastrutture messe in piedi sono state smantellate o si sono esaurite. Ad esempio, precisa Lavine, quando Israele aveva il controllo dei Territori vi erano solo cinque Ong (organizzazioni non governative) che davano un contributo per il welfare; ma, poi, sotto il governo palestinese esse sono diventate un centinaio.

Sempre nel campo dell’assistenza sanitaria, a Betlemme torniamo a salutare il Caritas Baby Hospital (Cbh), l’unica struttura pediatrica della Cisgiordania: struttura fondata nel 1952 dal sacerdote svizzero Ernst Schnydrig, e dove lavorano da anni anche alcune suore italiane (le elisabettiane di Padova) che danno un apporto preziosissimo per la formazione del personale (tutto palestinese, in maggioranza musulmano) e per la gestione complessiva dell’ospedale – che, anch’esso, vive di donazioni provenienti dall’estero (per informazioni: info@cbh.beth.org).

Suor Donatella, veneta, ci descrive con passione il «suo» ospedale: ci parla delle difficoltà oggettive (molti bambini, in Cisgiordania, nascono con gravi problemi perché spesso i genitori sono tra loro cugini, il che favorisce malattie genetiche; e molte donne subiscono un maschilismo atavico). Naturalmente, le difficoltà che pesano sulla Cisgiordania occupata incombono anche sul Cbh. Il Muro – che Israele ha iniziato a costruire nel 2002 allo scopo dichiarato di impedire il passaggio di kamikaze; Muro il cui tracciato, quasi sempre in territorio palestinese, nel 2004 è stato dichiarato illegale dalla Corte internazionale dell’Aja – si erge per un tratto proprio di fronte al Cbh: «Che possiamo fare? Per dire la nostra silenziosa protesta, e la nostra solidarietà a chi soffre – ci dice suor Donatella – ogni venerdì ci raccogliamo presso il Muro a pregare. Speriamo che Dio ci doni la desiderata, e tanto necessaria, pace nella giustizia».

Arabi israeliani/palestinesi di Israele. Il vescovo melkita Elias Chacour

La popolazione complessiva di Israele è di oltre sette milioni di abitanti, in maggioranza ebrei; ma vi è una forte minoranza di arabi israeliani (ma essi più volentieri si chiamano palestinesi di Israele) di 1,2 milioni di persone circa; vi sono poi centomila drusi e altre piccole comunità. Gli arabi israeliani/palestinesi di Israele sono in gran parte musulmani (il 16% sul totale della popolazione israeliana), ma (e lo stesso accade nei Territori) vi è tra loro un 2% di cristiani, di varie Chiese.

«Dove vuole arrivare, il governo d’Israele, con «Piombo fuso», un’operazione che inevitabilmente comporta e comporterà un altissimo numero di vittime civili, soprattutto di bambini? Nella Striscia, una delle zone del mondo a più alta densità di popolazione, è impossibile distinguere bersagli militari da bersagli civili. Inoltre, tutte queste vittime indeboliranno Hamas – movimento, preciso, con la cui visione politica io sono in disaccordo – o non finiranno piuttosto per rafforzarlo?». A parlarci, a Nazareth, è Mustafa Qossoqsi, arabo israeliano, psicoterapeuta che lavora anche a Jenin, e con il quale abbiamo lavorato insieme fruttuosamente nell’ambito di Semi di pace e Fiori di pace.

Ad Haifa ci riceve monsignor Elias Chacour, da tre anni vescovo melkita (greco-cattolico) di Akko. Parlando di Gaza, egli ci invita a situare l’attuale dramma in un più ampio contesto storico. Egli sottolinea (per il testo integrale, si veda Adista 8/09) che la costituzione, nel 1948, dello Stato di Israele, in quella vicenda che gli ebrei israeliani considerano la loro vittoriosa guerra di indipendenza, e gli arabi palestinesi la naqba, la catastrofe, «la maggioranza dei palestinesi subì una pulizia etnica: sono stati deportati, cacciati da case e villaggi, 460 villaggi palestinesi sono stati completamente svuotati e distrutti, compreso il mio villaggio natale… L’inizio della tragedia palestinese è stata la miopia degli ebrei di non voler vedere che la Palestina non era vuota, ma abitata dagli arabi palestinesi».

Monsignor Chacour ribadisce: «Dio dice chiaramente: Non uccidere! Non dice: non uccidere l’ebreo o il palestinese; dice solo: Non uccidere. Ebrei e palestinesi gridano: “La terra è nostra, la terra ci appartiene”. Hanno dimenticato che la terra non può appartenere né agli ebrei né ai palestinesi, la terra appartiene a Dio, e palestinesi ed ebrei devono imparare che essi appartengono a questa terra e finché non si accetta di appartenere alla terra, finché si vuole controllare la terra esclusivamente, non ci sarà né pace né giustizia».

Infine: «Noi palestinesi abbiamo bisogno della vostra solidarietà; ma chi vi dice che l’amicizia verso di noi debba diventare automaticamente inimicizia verso gli ebrei? Se prendete parte per l’uno contro l’altro, vi riducete ad essere un nemico in più, e oggi non abbiamo bisogno di un nemico in più. Abbiamo bisogno, invece, di un amico comune e perciò io mendico in tutto il mondo per trovare un amico comune. Solo nell’amicizia potremo risolvere i problemi, ma non sarà facile. Del resto non c’è niente di prezioso che può essere raggiunto facilmente. E che c’è di più prezioso della riconciliazione fra ebrei e palestinesi?».