MORTE NATURALE E VITA ARTIFICIALE

di Marcello Vigli

Quando l’incomprensione anche fra coloro che parlano la stessa lingua e professano la stessa fede raggiunge livelli troppo alti c’è qualche difetto nella comunicazione. La questione non riguarda chi volutamente manipola i fatti e usa la lingua per offendere.

Interessa chiarire come possa essere diventato uso comune iscriversi al partito della vita lasciando intendere che esiste un partito della morte al quale sarebbero iscritti d’ufficio quelli che non rispettano la “morte naturale”. Per garantire ”morti naturali”, nelle quali andrebbero comprese anche quelle provocate da alluvioni, terremoti o eruzioni vulcaniche, bisognerebbe non solo evitare cure mediche, ma distruggere sismografi, argini fluviali e vie di fuga.

Gli scampati dallo tsunami per aver risposto alle sirene d’allarme o quelli che si sono lanciati fra le onde per salvare amici o parenti… o sconosciuti , si sono sottratti alla morte naturale? Nessuno lo sosterrebbe. Siamo nell’ovvio. Lo siamo meno se, interrogandoci sulla naturalità della vita, affermiamo che non si può chiamare “naturale” una vita sostenuta artificialmente? Cioè con mezzi non naturali che alterano le funzioni naturali?.

Forse che il sondino per alimentare è “naturale”? È innegabile che resta in-naturale. Si potrà anche stabilire che una terapia a base di certi farmaci non è pari ad un’altra e limitare su questa distinzione il “diritto” al rifiuto di assumerli, ma è innegabile che dal sondino al trapianto tutto è artificiale. Si può discutere, quindi, sul piano legislativo se il sondino è assimilabile ad una terapia o a un intervento chirurgico, ma non che la distinzione si fa sulla base di un principio morale assoluto del rispetto della naturalità della morte da salvaguardare.

Se è così, cardinali e teologi, teodem e teocon ci risparmino l’insulto di volerci convincere che anche per la vita non debba valere il criterio della naturalità. Il rifiuto di ogni “artificio” vale per la vita come per la morte.

Viviamo in un tempo in cui la scienza e le tecnologie hanno reso possibile realizzare quella intuizione che, dopo il terremoto di Lisbona, fece pensare agli illuministi che si dovesse vivere “come se Dio non ci fosse”, per impegnare gli uomini ad assumersi direttamente la responsabilità di limitare i disastri provocati dalla “cecità” della natura. Sembrò loro che nessun peccato originale o rottura del vaso di Pandora potesse giustificarli.

Invece di contrastare questa ovvietà o di arrovellarsi a individuare un confine, ormai impossibile, fra natura e artificio, i teologi di tutte le chiese dovrebbero prendere atto che Dio ha affidato il compito di continuare la sua creazione proprio alla creatività degli uomini.

Ne deriva che il compito di chi crede in un Dio, amante degli uomini fino a riscattarne le colpe con il sacrificio del proprio Figlio, non sta nel porre paletti o imporre regole che il corso della storia sistematicamente abbatte, ma nell’impegnarsi per garantire che quanto di artificiale scienza e tecnologie introducono nella natura sia fruibile a tutte e tutte e che, comunque, serva a dare quanta più “qualità della vita” è possibile al maggior numero di abitanti del pianeta.