La legge della buona morte

di Ignazio Marino
http://espresso.repubblica.it/

Niente eutanasia. Ma no all’accanimento terapeutico. Rispettando il volere del paziente.

Il testo che segue è stato scritto dal chirurgo e senatore Ignazio Marino, all’epoca presidente della commissione Sanità del Senato, nel luglio 2006. da allora e fino alle recentissime polemioche sul caso Englaro, né il Pd né il Pdl hanno voluto discutere la proposta di legge di cui si parla nel pezzo, di cui Marino era il primo firmatario

Nancy Cruzan aveva 25 anni l’11 gennaio del 1983 quando venne sbalzata fuori dall’abitacolo della sua automobile mentre viaggiava su una strada vicino a Carterville, la cittadina del Missouri dove viveva. Un salto di alcuni metri e poi l’impatto con il terreno, e un trauma cranico che la portò a una danno irrimediabile della corteccia cerebrale. Dopo alcuni mesi in coma, Nancy entrò nella stato definito ‘vegetativo permanente’ da cui non si sarebbe più ripresa: manteneva autonomamente alcune funzioni fisiologiche senza avere, però, nessuna consapevolezza di sé e dell’ambiente che la circondava. Per quattro anni il marito e i genitori sperarono in una ripresa, alla fine accettarono la realtà: Nancy non sarebbe più tornata a essere quella che era e non avrebbe desiderato essere tenuta in vita in condizioni simili, per cui le cure di medici e infermieri altro non erano che accanimento terapeutico. Iniziò così una lunga battaglia legale per permettere che Nancy fosse lasciata morire in pace, ovvero venissero interrotte tutte le terapie farmacologiche e le cure mediche che permettevano al corpo della ragazza di continuare a fare funzionare alcune residue attività vitali.

La loro sfida, secondo la legge dello Stato del Missouri, consisteva nel dimostrare al tribunale in maniera chiara e convincente quali sarebbero stati i desideri della ragazza. Dopo sette anni di battaglie e il ricorso alla Corte suprema federale, nel dicembre del 1990 Nancy fu liberata dal tubo che l’alimentava e l’idratava e da tutte le altre terapie di sostegno al suo corpo-vegetale. La ragazza così si spense mentre il Parlamento legiferava. E un anno dopo negli Stati Uniti entrò in vigore il Patient self determination act, con il quale venne riconosciuto il diritto di ogni individuo di decidere sui trattamenti terapeutici che lo riguardano, incluso il diritto a rifiutare trattamenti medico-chirurgici, formulando a tal fine le direttive anticipate di vita o living will.

Il dibattito su questi temi era già vivo da un ventennio anche in Europa. E negli Usa, già negli anni Settanta, vi erano state le prime pronunce giurisprudenziali relative al diritto di morire con dignità, e al ruolo da attribuire alla volontà del soggetto non più capace di intendere e di volere a causa di una malattia. Il primo caso famoso fu quello di Ann Quinlan, una ragazza in coma anche lei in seguito a un incidente stradale, nel 1975. La Corte del New Jersey, alla quale i genitori si rivolsero dato il rifiuto dei medici di spegnere gli apparecchi che la tenevano in vita artificialmente per il timore di essere accusati di omicidio volontario, stabilì che il rifiuto dei trattamenti terapeutici rientrava nel più ampio diritto alla privacy, escludendo l’intromissione dello Stato nelle decisioni del singolo e che, essendo Ann Quinlan non più consapevole, si doveva consentire ai genitori di esercitare tale diritto.

Sono passati più di 30 anni dal quel primo caso che obbligò molti a interrogare la propria coscienza, e oggi ciò di cui dobbiamo prendere atto è che lo sviluppo delle scienze biologiche, delle rispettive applicazioni tecnologiche e delle ricadute sulla medicina, è andato di pari passo con la crescita della coscienza individuale dei malati rispetto alla propria condizione e alla rivendicazioni dei propri diritti, primo fra tutti quello di fornire personalmente al medico il consenso ai trattamenti sanitari. Il consenso informato non è una formalità, ma il segno di un progresso culturale che vede i cittadini sempre più desiderosi di partecipare alle decisioni che riguardano la propria salute e la malattia. Nasce di qui, anche in Italia, la necessità di dotarsi di strumenti legali che tutelino le esigenze di autodeterminazione dei cittadini. Un sentimento giusto e sempre più diffuso nel nostro paese. In Italia il dibattito sul testamento biologico prosegue da molti anni senza che si sia mai arrivati a formulare le riposte che i cittadini attendono, alcuni in modo drammatico.

Essere contrari all’accanimento terapeutico non significa essere favorevoli all’eutanasia: chiunque abbia esperienza di questi malati, sa bene che per mantenere in condizioni vitali un essere umano devastato da una malattia gravemente invalidante, la tecnologia che viene utilizzata è fuori dall’ordinario. Mantenere un paziente libero da infezioni, da embolie polmonari, da decubiti, da alterazioni metaboliche che ne possano determinare la morte, necessita uno sforzo quotidiano straordinario. La sospensione di tutti questi atti porta inevitabilmente alla fine di quella esistenza mantenuta artificialmente in vita, ma è una cosa ben diversa dal procurare la morte volontariamente attraverso l’iniezione di un farmaco letale.

Personalmente, nella mia esperienza di medico in America, sono stato confortato in molte occasioni dal testamento biologico di pazienti che non avevano più una ragionevole speranza di poter tornare a una vita normale: trovarsi nella condizione di staccare la spina, ma sapere che quell’atto corrisponde a quanto avrebbe scelto lo stesso paziente, rappresenta un supporto in più di fronte all’inevitabile sensazione di sconfitta che accompagna ogni medico davanti alla perdita di un malato. I casi di conflitto con i familiari e con il fiduciario del paziente sono stati molto rari, per fortuna, e molto più frequenti invece i casi di accordo. Ma devo ammettere che ho vissuto anche momenti molto difficili e sono stato costretto a fare un passo indietro di fronte al testamento biologico di alcuni pazienti; ci sono stati casi in cui io non avrei interrotto le terapie, ma al contrario avrei con ostinazione continuato a fare tutto il possibile per proseguire le cure, tuttavia chi era delegato di far rispettare il volere del paziente non me lo ha permesso.

In Italia, nel 2003, il Comitato nazionale di bioetica suggeriva che le dichiarazioni anticipate sui trattamenti sanitari dovrebbero essere interpretate come desideri del paziente, che il medico dovrebbe tenere in considerazione pur senza l’obbligo assoluto di rispettarle. Secondo questa visione, se il medico ritiene di dover agire diversamente da quanto indicato nel testamento biologico può farlo, giustificando per iscritto la propria decisione. In circostanze simili sarebbe invece auspicabile coinvolgere anche il comitato etico dell’ospedale con il compito di valutare le motivazioni del medico, gli eventuali contrasti con i familiari o con il fiduciario, interpretare le indicazioni del testamento biologico e giungere a una decisione che salvaguardi il migliore interesse del malato e interpreti la sua volontà. Se infatti ammettiamo che, nonostante un documento ufficiale scritto da una persona nel pieno delle sue facoltà in merito ai trattamenti che desidera o non desidera ricevere nel momento in cui non possa esprimere la sua opinione, la decisione finale spetta al medico, allora non abbiamo fatto nessun passo avanti nell’affermare il diritto all’autodeterminazione dell’individuo e alla necessità di arrestarsi di fronte a quello che può diventare accanimento terapeutico.

L’obiettivo è, infatti, che ognuno maturi individualmente la propria scelta, nella serenità di valutazioni personali, e ciò costituirebbe un notevole passo avanti rispetto a decisioni prese paternalisticamente da medici o familiari. D’altra parte è anche vero che, nello svolgere la propria
professione, ogni medico chiama in causa l’esperienza, la casistica, la letteratura scientifica, ma a volte anche la sua pura intuizione, che non è facile da spiegare, per questo un documento che stabilisca vincoli troppo stretti può non essere utile a scongiurare l’accanimento terapeutico, ma potrebbe addirittura minare la concreta possibilità di recupero di un paziente non spacciato. Proprio per questo, a mio avviso, al di là degli aspetti legali per la stesura di un testamento biologico è fondamentale il rapporto di fiducia fra il paziente e il suo medico curante, che dovrebbe rappresentare un vero punto di riferimento per interrogativi e consigli. Inoltre, se è auspicabile che il nostro paese si doti in tempi rapidi di uno strumento che consenta legalmente di interrompere cure non necessarie o contrarie alla volontà espressa dal paziente, è altrettanto importante che questo non divenga mai un automatismo.

È fondamentale introdurre anche la figura del fiduciario, in grado di adattare e interpretare quanto indicato nel testamento biologico ai tempi e ai continui progressi della medicina. Immaginiamo per esempio una persona che, anni fa, avesse scritto nel suo testamento biologico di non prolungare le cure in caso di coma dovuto a un blocco renale. Una tale indicazione poteva avere senso prima dell’avvento della dialisi, quando il paziente sarebbe morto comunque e a nulla sarebbe servito qualche giorno in più in rianimazione. Ma da quando la dialisi esiste, quelle stesse indicazioni dovrebbero essere interpretate in maniera del tutto diversa, dato che un malato in coma uremico oggi può essere rianimato, disintossicato e restituito a una vita pressoché normale.

Infine, per creare una seria consapevolezza del significato del testamento biologico non basta una buona legge, sono fondamentali campagne di informazione corrette e capillari, che prendano spunto, anche in maniera critica, da operazioni simili promosse in passato. Penso ad esempio alla legge sulla donazione degli organi che non è stata ancora applicata pienamente, dati i complessi meccanismi di notifica della richiesta di consenso alla donazione degli organi e la conseguente mancata informazione dei cittadini. Per evitare di ricadere negli stessi errori, le informazioni sul testamento biologico potrebbero essere distribuite a ogni paziente ricoverato in ospedale, ma dovrebbero essere illustrate da una persona esperta e il testo discusso e redatto assieme a un medico, evitando che le decisioni in merito alla nostra morte vengano ridotte a una formalità o a una firma in calce a un modulo standard.

Il percorso migliore è quello di riconoscere la legittimità di un testamento biologico, lasciando i dettagli tecnici a linee guida, modificabili e adattabili nel tempo ai progressi scientifici e alle nuove opportunità terapeutiche. Al tempo stesso, non bisogna ridurre la medicina a una semplice esecuzione di prestazioni a richiesta. Serve una legge che tuteli innanzitutto la dignità della persona e il rapporto umano tra medico e paziente. Per questo auspico una discussione serena e ragionata in Parlamento al di fuori delle logiche di appartenenza politica, affinché il testamento biologico venga introdotto pensando prima di tutto all’interesse di ogni cittadino italiano libero e responsabile.

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Un testamento lungo 15 anni
di Ignazio Marino

Il Parlamento ne parla da quasi 15 anni, ma forse questa è la volta buona: anche l’Italia potrebbe avere una legge sul testamento biologico. Il condizionale è d’obbligo dato che già nel 2005 la destra riuscì ad approvare, con voto unanime in commissione Sanità al Senato, un testo di legge che, però, non venne considerato abbastanza urgente da approdare in aula. Nel 2006 fu la volta del centro-sinistra e del mio personale impegno, che alcuni definirono addirittura ‘un’ossessione’, per approvare una legge dato il vuoto legislativo catastrofico del nostro Paese, ma il centrodestra ritenne la legge ‘non necessaria’. E i tempi si allungarono. Se volessimo parlare di responsabilità bisognerebbe partire da questi fatti.

Un testo su cui discutere esiste dal 26 gennaio, quando il senatore della maggioranza Raffaele Calabrò lo ha presentato al Senato. Ma i lavori della commissione sono nuovamente inciampati, questa volta sulle interferenze del governo che pretendeva di approvare nottetempo, forzando ogni regola parlamentare, una legge ad personam sull’onda emotiva della drammatica vicenda di Eluana Englaro. Quella norma non avrebbe avuto alcun effetto all’atto pratico perché, dopo ciò che era accaduto, il corpo di Eluana per restare in vita avrebbe richiesto terapie aggiuntive all’alimentazione e idratazione (che il decreto ad personam avrebbe vietato), e per somministrarle si sarebbe dovuto chiedere il consenso del padre. Così quel decreto non avrebbe mantenuto in vita Eluana, ma di certo ha scardinato delicati equilibri istituzionali.

Guardando avanti, la legge che tardivamente il centrodestra oggi propone parte da tre presupposti: le dichiarazioni anticipate di trattamento esprimono l’orientamento del paziente e non hanno valore vincolante; al medico spetta l’ultima parola; e alcune terapie, quali la nutrizione e l’idratazione artificiali, non possono essere oggetto del testamento biologico. Di fatto, quindi, l’autodeterminazione del paziente non è il principio su cui vogliono costruire la legge, che così entra in conflitto con il diritto alla libertà nella scelta delle terapie sancito dall’articolo 32 della Costituzione.

Se la legge della destra entrasse in vigore così come è stata proposta, le volontà dei cittadini avrebbero ben poco valore. Facciamo l’esempio di una persona che scopre di avere un tumore e si preoccupa di come potrebbe vivere le ultime fasi della sua vita. Parla con la sua famiglia, si consulta con il suo medico e decide di lasciare delle indicazioni nel caso in cui un giorno perdesse la capacità di esprimersi. Cosa potrebbe scrivere? “Non voglio che mi venga applicato un sondino naso-gastrico, e non voglio che mi venga inserito chirurgicamente un tubo di plastica nello stomaco per permettere che sostanze nutrienti vengano introdotte artificialmente nel mio corpo”.

Purtroppo le sue volontà non avrebbero alcun valore: nutrizione e idratazione artificiali non rientrano nella disponibilità del paziente per le indicazioni anticipate di trattamento. Il sondino sarà obbligatorio per legge per tutti, e nemmeno il medico potrà valutare se è il caso o meno di posizionarlo.

E lo stesso potrebbe valere anche per la volontà, eventualmente espressa, di essere sottoposto alla dialisi, o attaccato a un respiratore automatico: nemmeno queste indicazioni saranno possibili perché nel disegno di legge del Pdl è scritto chiaramente che “l’attività medica non può in nessun caso essere orientata al prodursi o consentirsi della morte del paziente attraverso la non attivazione o disattivazione di trattamenti sanitari ordinari e proporzionati alla salvaguardia della sua vita o della sua salute da cui, in scienza e coscienza, si possa fondatamente attendere un beneficio per il paziente”.

Va da sé che se il medico non attacca il respiratore automatico il paziente in breve morirà, se invece lo attacca ne avrà sicuro beneficio, anche se solo per prolungare un’agonia, perché la malattia proseguirà inesorabilmente.

Perché non lasciare che sia l’individuo a decidere qual è il momento in cui dire: basta, ho lottato fino ad ora ma ritengo lesivo della mia dignità prolungare delle terapie inutili? Oppure perché non lasciare che sia il cittadino a decidere che desidera andare avanti e non fermare nulla, fino a quando vi sarà una minima possibilità di sperimentare qualunque mezzo messo a disposizione dalla medicina?

La libertà: ecco ciò che si vuole negare con la legge proposta dal ce
ntrodestra. L’autodeterminazione verrà ridotta, limitata, in alcuni casi annullata di fronte a terapie che saranno imposte e non scelte.

Purtroppo se non ci sarà la volontà di dialogare e di ragionare su una legge che sia rispettosa del diritto, dell’operato dei medici, degli orientamenti culturali e religiosi di ognuno, avremo una legge che complicherà le cose.

Ecco quello che, in estrema sintesi, potrà scrivere chiunque di noi: “Caro medico, vedi tu che cosa fare di me, cerca di non andare troppo contro le mie indicazioni, ma capisco che devi anche proteggere te stesso dalle possibili denunce che ti potrebbero essere rivolte se, per rispettare le mie volontà, decidessi di non rispettare la legge”. Così, un altro rischio implicito nella normativa che vuole la maggioranza è quello di mettere il medico di fronte alla scelta di rispettare la legge o rispettare il patto di alleanza terapeutica che ha stretto con il suo paziente. C’è ancora tempo per approvare una legge giusta, che garantisca tutti.

Mi auguro che in Senato si crei un clima di dialogo che fino a questo punto è mancato. Forse dalla triste storia di Eluana dovremmo almeno imparare che il Paese ha le idee più chiare del Parlamento e che tutti, credenti e non credenti, vogliono poter scegliere le terapie alle quali essere sottoposti sulla base delle proprie convinzioni, del proprio modo di vedere la vita e, se ce l’hanno, della propria fede.