Chi mette le mani sul denaro degli emigrati. Quando i gestori di fondi speculano sui poveri

di Anne-Cécile Robert e Jean-Christophe Servant

I trasferimenti finanziari degli emigrati verso il paese d’origine rappresentano una manna in costante aumento. In alcuni paesi africani, essi superano di gran lunga l’aiuto allo sviluppo e rappresentano un contributo determinante al reddito nazionale. Perciò le istituzioni finanziarie internazionali sembrano voler fare di queste rimesse la soluzione miracolo per la miseria del continente nero. Un discorso non privo di pensieri reconditi. D’altro canto la crisi finanziaria potrebbe cambiare questa nuova visione strategica.

«In tutti i paesi del continente nero – rileva Ravinder Rena, dell’Istituto eritreo di tecnologia – il capitale umano è necessario allo sviluppo più del capitale finanziario perché solo il primo può trasformarsi in vero sviluppo. Senza un cambio di strategia, potremo sempre mandare in Africa tutto il denaro del mondo, ma l’Africa rimarrà povera» (1). eta! Venti miliardi di dollari (12,5 miliardi di euro) provengono dai soli lavoratori. Oltre 300 miliardi di dollari (190 miliardi di euro) sono mandati ogni anno nei paesi d’origine da 200 milioni di migranti del pianori migranti africani (2). I trasferimenti finanziari verso il continente sono aumentati del 55% dall’inizio del XXI secolo.

Le istituzioni di Bretton Woods e i governi occidentali si mostrano particolarmente interessati a questi miliardi di dollari avviati verso l’Africa. Secondo numerosi rapporti ufficiali (3), questi fondi costituirebbero fonti di finanziamento più sicure e più stabili degli investimenti del settore privato e… dell’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps). Questo flusso finanziario può infatti rappresentare, per alcuni stati africani, fino al 750% dell’Aps! In Capo Verde, ad esempio, il denaro mandato dalla diaspora alimenta un quarto dell’attività economica. La banca nazionale del Ghana valuta che il denaro della diaspora equivalga al 20% dell’ammontare totale delle esportazioni del paese. Talvolta i migranti in questione non sono molto lontani dal proprio paese: il 30% del Pil del Lesotho proviene dai trasferimenti di denaro fatti dai propri migranti che lavorano nel vicino sud-africano, primo ricovero dell’emigrazione inter-africana. Pubblicità tranquillizzanti

Ma è in Nigeria, lente d’ingrandimento del continente nel peggio e nel meglio, che il fenomeno appare più eloquente. Un migrante africano su cinque è infatti nigeriano. Essi sono le teste di ponte di una rete commerciale e imprenditoriale che si estende da São Paulo a Houston, da Londra a Dubai, da New Delhi a Amburgo e da Londra ad Atlanta. Negli ultimi dieci anni, non meno di 29 miliardi di dollari (17 miliardi di euro) sarebbero stati mandati dai nigeriani dell’esterno ai loro fratelli, famiglie e associati dell’interno. Secondo la Banca mondiale, oltre 3 miliardi di dollari (1,89 miliardi di euro) – le rimesse – sarebbero stati trasferiti verso il paese nel solo anno 2007 (4). La Nigeria rappresenta da sola il 30% dei trasferimenti gestiti dalle agenzie Western Union impiantate nell’Africa sub-sahariana.

La First Bank, titolare del franchising Western Union in questo stato, vi ha aperto oltre duecento agenzie, la cui attività principale riguarda la gestione di tali trasferimenti di fondi. «Siamo sotto pressione, dall’apertura alla chiusura delle agenzie – ammette Bola Adebanjo, uno dei responsabili locali. È senza dubbio l’attività principale della nostra banca.» Questa filiera appetitosa induce altre reti bancarie nigeriane a prendere per partner società di trasferimenti di fondi, come la United Bank of Africa con l’american Moneygram nel 2007. Howard Jeter, l’ex ambasciatore degli Stati uniti in Nigeria, è sicuro: «La Nigeria dovrebbe fare da esempio attuando politiche volte ad associare i suoi concittadini residenti all’estero». Infatti, aggiunge, «la diaspora africana è ricchissima di competenze finanziarie, tecniche e intellettuali. L’Africa ha il dovere di sfruttare queste risorse umane e materiali per affrontare le sfide dello sviluppo, del degrado ambientale, della sicurezza alimentare, dell’approvvigionamento energetico, dell’Hiv e dello sviluppo economico equo (5)».

È evidente la morale di questa storia: chi, meglio dell’immigrato, può aiutare il proprio paese d’origine? Ma, nel cercare di inserire il più ampiamente possibile questi lavoratori immigrati nei circuiti bancari, il mondo occidentale si propone semplicemente di «far pagare lo sviluppo agli stessi paesi in via di sviluppo (6)», continuando a intascare la sua percentuale. Un rapporto congiunto della Banca africana per lo sviluppo (Bad) e del ministero francese dell’economia, delle finanze e del lavoro, pubblicato nel gennaio 2008 (7), ha analizzato la situazione di cinque paesi che «hanno in comune legami migratori e storici forti con lo stesso paese sviluppato, la Francia».

Ad esempio sul Senegal, sul Mali e le Comore, la ricerca condotta presso duemila famiglie che vivono in Africa, rileva che, nel 2005, 449 milioni di euro sarebbero stati trasferiti in Senegal (ossia il 19% del Pil e il 218% dell’Aps). Il Mali avrebbe ricevuto 296 milioni di euro (l’11% del Pil, il 70% dell’Aps) e le Comore 70 milioni (il 24% del Pil, il 346% dell’Aps). Secondo questa ricerca, le famiglie beneficiarie dei fondi avrebbero un livello di vita mensile – 855 euro in Mali, 615 nelle Comore, 585 in Senegal – superiore alla media nazionale. I trasferimenti rappresentano il 50% dei loro redditi per il Marocco, i due terzi per il Mali, un po’ meno della metà per il Senegal e le Comore. Ma bisognerebbe almeno che questi trasferimenti avessero un vero impatto a livello macro-economico. Adeguandosi alle pubblicità edificanti della Western Union, il nuovo interesse per il denaro dell’immigrazione africana sembra trascurare il fatto rilevato da Jean-Pierre Garson, specialista delle questioni migratorie all’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico): «Il suo impatto sullo sviluppo non è chiaro, soprattutto se lo si valuta rispetto alla perdita di manodopera legata all’emigrazione per questi paesi». Certo, questi trasferimenti consentono a quanti sono rimasti a casa di uscire dall’estrema povertà, ma generano anche una situazione di dipendenza verso l’esterno.

Inoltre, solo una modesta parte dei fondi sarebbe realmente destinata ad attività generatrici di reddito. Secondo Rena, «i trasferimenti non contribuiscono allo sviluppo perché non sono utilizzati a fini d’investimento. Nella maggior parte dei casi essi servono ad attività improduttive (trasporto, alleggerimento del debito, casa, acquisto di terre). Ma possono anche essere tesaurizzati o sperperati in un consumo ostentato. (8)». Il consumo corrente accaparrerebbe così dal 75 all’80% dei fondi dell’immigrazione. Il resto sarebbe investito in ciò che resta un’esigenza fondamentale, la casa. In Ghana, secondo un gruppo pluridisciplinare di ricercatori, questo fenomeno alimenterebbe la speculazione fondiaria: «Gli acquisti degli emigrati alimentano la spirale di aumento dei costi/minor accesso alla proprietà fondiaria delle popolazioni locali con redditi modesti. (…) I proprietari tendono a vendere a persone residenti all’estero piuttosto che alla gente del posto, tanto più che questi migranti possono pagare in contanti e acquistare a prezzi più alti» (9).

Rendere più sicuri e orientare i trasferimenti verso progetti di investimenti durevoli, favorire un uso «più produttivo» di questi fondi, è questa una delle ambizioni dichiarate della nuovo politica francese di co-sviluppo e di gestione concertata dei flussi migratori.
Parigi ritiene che si debba aiutare i candidati all’immigrazione a rimanere nel proprio paese canalizzando le risorse dei migranti verso progetti nei settori della salute, dell’educazione e della creazione d’imprese. È uno dei punti della legge del 24 luglio 2006 e del decreto del 19 febbraio 2007. Trappole per gli ingenui Secondo questi testi, le Casse di risparmio propongono un conto sp
eciale – il conto di risparmio co-sviluppo – che gode di una deduzione fiscale del 25%. È un conto aperto agli immigrati titolari di un permesso di soggiorno in Francia e che vogliono investire nel paese d’origine

L’investimento può riguardare sia una creazione o una ripresa d’impresa, sia un investimento locativo, la micro-finanza, l’immobiliare aziendale, un riacquisto di fondi di commercio, etc… Un altro prodotto, il libretto di risparmio co-sviluppo, dovrebbe tra poco «consentire al migrante di costituire un risparmio che dia un diritto a un premio ulteriore quando egli contrarrà un prestito con fini d’investimento».

Ma le reali intenzioni degli autori di questi provvedimenti politicamente corretti non sfuggono a certi africani. Sul blog Soninkara (10), il giurista del Benin Armand Adotevi prende in giro il candore e la duplicità degli autori del dispositivo: «Il maestro ha capito che, in materia, c’è una manna finanziaria da catturare e da far fruttare con investimenti sui mercati finanziari a breve o a medio termine a vantaggio dell’economia francese. Dunque egli spiega all’allievo, con arguzie per i tonti, del tipo esonero di tasse, raddoppio o triplicazione degli interessi cumulati del risparmio, ciò che è buono per lui e per il suo paese, aprendo così in modo insidioso le vie di un aggiramento del rispetto dei suoi impegni in materia di aiuto allo sviluppo».
Adotevi alza il tono: «Quando mai abbiamo visto le autorità politiche africane intimare a degli europei, privati e/o persone giuridiche stabilitisi nei paesi africani, a quali fini devono servire i sostanziosi benefici che essi realizzano in Africa e che rimpatriano immediatamente in Europa?».Questi dispositivi lasciano che si perpetuino i meccanismi non ugualitari dell’economia e del commercio mondiale, fornendo anche un alibi a quanti sono restii a finanziare l’aiuto allo sviluppo.
Essi deresponsabilizzano le istituzioni finanziarie internazionali e le potenze dominanti, trasferendo il peso delle sofferenze del mondo su quanti le subiscono. La povertà non sarà sradicata ma semplicemente ridotta con i trasferimenti di fondi dei migranti. Di più, la crisi finanziaria potrebbe rimettere in causa questa nuova «visione strategica» riducendone sostanzialmente il volume.