UNA NECESSARIA ALLEANZA

di Boaventura Sousa Santos
da www.adistaonline.it

Quanto afferma il Forum Economico Mondiale riunito a Davos presenta inquietanti somiglianze con quello che noi abbiamo sostenuto fino ad ora sulla crisi economica, finanziaria, ambientale ed energetica. Il che significa che o noi abbiamo avuto ragione prima del tempo o il Forum Economico sta avendo ragione troppo tardi. In ogni caso, quello che ci interessa vedere è che queste somiglianze ingannano, sia perché sono incomplete, sia, e soprattutto, perché c’è una divergenza totale a livello di terapia, cioè dei rimedi che vengono proposti per la soluzione della crisi. Per quelli di Davos, ovviamente, la soluzione è nel rilancio del capitalismo. Un capitalismo più differenziato, probabilmente con un altro ruolo dello Stato, ma pur sempre capitalismo. Pertanto essi non affrontano il problema che affrontiamo noi.

E il problema che noi affrontiamo è molto più duro. Il fatto è che noi viviamo una contraddizione molto forte. Soprattutto voi giovani, che guardate il mondo per quello che è, vi rendete conto che c’è una straordinaria urgenza ad agire oggi perché domani può essere troppo tardi: la deforestazione dell’Amazzonia, la crisi economica, lo scempio ambientale, il genocidio degli indigeni, tutto questo crea una sensazione di urgenza, di necessità di fare qualcosa ora. Abbiamo avuto lo strumento della rivoluzione. Ma la rivoluzione era un’idea allo stesso tempo di trasformazione rapida e di trasformazione di civiltà. E questo modello è fallito. La Rivoluzione ha operato cambiamenti rapidi, ma non ha trasformato la civiltà. Noi allora viviamo questa contraddizione: puntiamo a cambiamenti urgenti, ma anche al cambiamento di civiltà. E questo cambiamento di civiltà è molto difficile, perché dobbiamo realizzarlo contro noi stessi. Per esempio, stiamo qui tutti a parlare di cambiamento di civiltà, ma intanto ci beviamo la Coca Cola. Il cambiamento di civiltà è prima di tutto contro i limiti interni e i limiti interni sono nella nostra testa, sono nei nostri corpi, sono nelle relazioni che abbiamo con gli altri, uomini e donne, con persone di altre etnie, bianchi, neri e indigeni, nelle relazioni che abbiamo con la natura. La grande difficoltà è questa.

Prima la pratica

In questo senso, non abbiamo mai assistito a una discrepanza tanto grande tra le teorie e le politiche di sinistra e le pratiche di trasformazione che emergono e di cui abbiamo notizia in questo Forum. Le pratiche che vengono vissute da quegli uomini e da quelle donne a cui la sinistra non ha mai prestato attenzione. Le pratiche che vengono vissute dagli indigeni, dagli invisibili. Pensiamo a quel grande pensatore marxista che fu Mariátegui: si occupò della cultura indigena e venne immediatamente accusato dal Komintern di essere un populista e un romantico. E in quel periodo lanciare certe accuse significava eliminare politicamente una persona. Oggi ci troviamo di fronte al movimento afro, che sta emergendo con forza nel Paese, al movimento quilombola, che lotta per la terra e per una giustizia storica, al movimento delle donne. Sono gli invisibili di quella che io chiamo sociologia delle assenze, coloro che sono stati presenti ma non visibili.

In questo momento la teoria non deve venire per prima, ma deve restare dietro la pratica, perché la pratica è più trasformatrice e creativa della teoria. Pertanto è da qui che dobbiamo partire ed è qui che entra in gioco quella che io chiamo ecologia dei saperi. Ossia, guardiamo alla nostra conoscenza teorica, alla nostra conoscenza scientifica come appena una delle forme di conoscenza del mondo: pensiamo alla conoscenza popolare, degli indigeni, delle donne, delle comunità urbane. Queste conoscenze sono valide quanto le nostre e devono in qualche modo entrare a far parte della nostra formazione. Ma per far questo dobbiamo disimparare molto di quello che abbiamo appreso all’Università e sforzarci interiormente di aprirci ad altre realtà conoscitive. E su questa base avanzare. E, avanzando, riusciremo a vedere esattamente dove posizionarci. Dobbiamo assumere posizioni forti, ma il Forum Sociale Mondiale, che può vantare un grande sforzo in termini di analisi, è relativamente debole a livello di proposte che siano conosciute dal mondo. Io sono d’accordo che il Forum resti uno spazio aperto, ma penso che su certi temi attorno a cui c’è grande consenso noi dobbiamo adottare una posizione che sia presentata al mondo esattamente come fa il Forum Economico Mondiale. E se non vogliamo farlo all’interno del Forum Sociale Mondiale abbiamo una soluzione molto pratica: possiamo farlo a livello di Assemblea dei movimenti sociali.

Non possiamo continuare a non prendere una posizione forte, perché in questo modo perderemo il treno della storia. Nessuno sa, per esempio, qual è la posizione del Forum sulla riforma delle Nazioni Unite. Eppure abbiamo elaborato un pensiero su questo tema. E abbiamo prodotto una riflessione consistente su molte dimensioni della crisi del neoliberismo. Una crisi che non è dovuta all’attivismo del Forum Sociale Mondiale, all’attivismo dei movimenti sociali. Perché il neoliberismo ha commesso un suicidio. E, allora, quali sono le nostre opzioni?

Cina o Suma Kawsay

Vorrei riferirmi alla Bolivia, dove ho partecipato come osservatore al referendum costituzionale del 25 gennaio. Nella Costituzione di questo Paese è scritto che il modello economico che reggerà la Bolivia è la Suma Qamana (bien vivir, ndt), che è l’equivalente aymara dell’espressione quechua Suma Kawsay, che si trova nella Costituzione dell’E-cuador (è importante che i movimenti progressisti imparino ad utilizzare lingue non coloniali). Vi è allora un altro modello economico, oggi suffragato da circa il 60% dei boliviani. Si tratta di un’altra concezione, di un concetto di comunità in cui nessuno può vincere se anche gli altri non vincono. La nostra concezione capitalista è esattamente l’opposto: perché io vinca un altro deve perdere; se si assegna qualcosa, uno vince e l’altro perde. Dobbiamo immaginare proprio un diverso modello. Da qui l’opzione: la Cina o la Suma Kawsay. In questo momento sentiamo la Banca Mondiale implorare i cinesi: per favore, consumate, per favore, spendete, perché se non lo fate l’economia mondiale va a fondo. Ma se i cinesi avessero lo stesso livello di consumo che si registra negli Stati Uniti o in Europa sarebbero necessari tre pianeti per sostenere l’unico pianeta che abbiamo. Dunque questa è una frode. Ma il capitalismo vede solo a breve termine, non è capace di pensare in altro modo.

Dobbiamo prendere una posizione: la Cina o Suma Kawsay. Ma per farlo dobbiamo operare una rivoluzione interna e portarla nei nostri dipartimenti di sociologia, nelle nostre organizzazioni, nei nostri movimenti, perché inizino a lavorare su tali concetti, passando per i quilombolas, per i movimenti indigeni, per l’economia solidale. Che c’è di comune in tutto questo? Di comune c’è il fatto che è nella pratica che queste donne e questi uomini stanno producendo alternative. Ma devono acquistare forza e soprattutto unirsi, perché l’economia solidale ha il suo angolo, i quilombolas il loro angolo, e così gli indigeni, le donne, gli ecologisti, mentre noi abbiamo bisogno di un’alleanza fondamentale tra i movimenti sociali.

E questa alleanza non è facile, perché non c’è un comitato centrale a indicare quale sia la linea corretta, dobbiamo essere noi a trovarla, usando per questo altri termini. Per esempio gli indigeni non amano la parola socialismo perché la considerano un’imposizione europea, e hanno ragione. Il socialismo o il marxismo li hanno disprezzati sempre esattamente come il neoliberismo. Devo evitare di lavorare con loro solo perché non usano la parola socialismo che piace a me? Essi lottano per un altro mondo possibile, lottan
o per una società più giusta. Dobbiamo cercare di operare quelle che io chiamo traduzioni interculturali: guardare a differenti concezioni della terra, della natura e tentare di tradurle in una piattaforma di azione.

La Costituzione dell’Ecuador riconosce i diritti della natura, il fatto che la natura abbia diritti. Un deputato europeo, mi ha detto: ma sono diventati matti? Diritti della natura? Ma se la natura è un oggetto! La natura è una risorsa, come può avere diritti? Gli ho risposto che la concezione della natura che si trova nella Costituzione dell’Ecuador non è la stessa che la gente ha in testa. La natura è la Pacha Mama, la terra Madre, è qualcosa che appartiene alla loro cosmovisione e alla loro maniera di vivere la vita. Per questo per gli indigeni estrarre il petrolio dalle loro terre è come estrarre il loro sangue: il sangue della terra è legato al sangue delle persone. È un’altra concezione. E allora, affinché, usciti da qui, non trattiate la natura con lo stesso disprezzo con cui l’avete sempre trattata, è importante cominciare a pensare ad una alternativa.

Uno Stato da reinventare

Noi costruiamo il nuovo solo a partire dal vecchio. Basta vedere quello che avviene con le lingue. Una delle cose più importanti in questo momento è che nella crisi del neoliberismo, o frode del neoliberismo, lo Stato è visto come la soluzione. Negli ultimi 30 anni lo Stato costituiva un problema per la Banca Mondiale e per il Fondo Monetario Internazionale: la soluzione veniva indicata nella società civile, che per loro era fondamentalmente il mercato. Per 30 anni i Paesi dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa hanno chiesto le politiche che oggi stanno applicando gli Stati Uniti e l’Europa. Per 30 anni hanno richiesto un maggiore controllo sull’economia, hanno richiesto la nazionalizzazione delle banche. Tutto questo era proibito. Oggi il Portogallo nazionalizza le banche, la Spagna nazionalizza le banche, l’In-ghilterra e gli Stati Uniti nazionalizzano le banche. È il socialismo dei ricchi, ovviamente. Ma quali conclusioni politiche possiamo trarne?

In primo luogo, noi abbiamo sempre sostenuto che lo Stato è chiamato a svolgere un ruolo centrale nella conduzione dell’economia. Che è al livello dello Stato che si costruiscono gli strumenti democratici per lottare contro l’oppressione. Le lotte globali devono partire da questo nucleo duro politico che è lo Stato. Ma nessuno Stato eserciterà questo ruolo se non verrà completamente trasformato. Perché svolga questo compito, deve essere uno Stato profondamente democratizzato. Se lo Stato avrà un controllo sull’economia, ci dovrà essere una democrazia economica.

Non siamo ingenui. La Banca Nazionale di Sviluppo Economico e Sociale del Brasile (Bndes), una delle più grandi banche di investimento del mondo, finanzia solo l’agrobusiness, l’allevamento di bestiame ecc. Le decisioni economiche in Brasile non passano per la via democratica, passano per un piccolo gruppo controllato dalla Banca Mondiale e dal Bndes. Questa non è democrazia. In questo quadro, dobbiamo prendere decisioni molto concrete. Come in Ecuador, come in Bolivia, come in altri Paesi, noi abbiamo bisogno di Consigli nazionali di investimento pubblico. Guardate in quale imbroglio ci troviamo. Abbiamo una democrazia rappresentativa e molto spesso, in questo Continente, una democrazia partecipativa. Ma quest’ultima agisce normalmente a livello locale, il livello dei municipi: guardiamo alle esperienze di bilancio partecipativo, al lavoro notevole dei Consigli municipali e statali di questo Paese. Solo che non vi sono Consigli nazionali con la stessa forza. E pertanto il popolo guadagna nel locale ma perde a livello nazionale. Ossia riceve briciole, niente altro.

Nel caso dell’Ecuador e della Bolivia le situazioni sono distinte. Dicevo al leader boliviano Tomás Huanacu, un grande amico con cui lavoro da molto tempo: “Tomás, da qui in avanti, si deve passare dalla Costituzione uno, che è il testo della Carta, alla Costituzione due, che è il modo di applicarla. E pertanto voi dovete avere un piede in strada e uno nel governo. Non pensate di deporre le armi”. I movimenti sociali devono stare in strada, devono continuare a portare avanti le loro proteste e le loro azioni. Anche perché corrono il rischio di tornare ad essere criminalizzati. In questo momento, il Continente vive un processo molto contraddittorio. È il Continente in cui avanzano maggiormente le forme di democrazia partecipativa. Pensiamo alla decisione boliviana di sottomettere alla consultazione popolare una misura politica di importanza straordinaria: volete che la dimensione massima della proprietà della terra sia di 5mila ettari o di 10mila ettari? L’80% dei boliviani ha optato per 5mila ettari. È stato un no alla concentrazione della terra, alla disuguaglianza sociale, alla società escludente, e un sì all’agricoltura familiare, alle energie rinnovabili. I popoli indigeni della Bolivia avranno il controllo totale delle energie rinnovabili. Purtroppo non l’avranno delle energie non rinnovabili. Ma si tratta di un cammino. Un cammino di cui fanno parte le energie rinnovabili, non l’agrobusiness.

Quello che Lula sta facendo in Mozambico è un crimine colonialista. Io sono un compagno di viaggio di questo governo, ma ritengo che sia un crimine andare in Mozambico e dire: africani, voi siete poco produttivi in agricoltura, ma noi abbiamo la soluzione; creiamo piantagioni per produrre etanolo, portiamo qui le nostre imprese, produciamo agrocombustibili, e siamo tutti felici. È così che hanno fatto i colonialisti.

Mente lucida e cuore aperto

Credo che il nostro compito in questo momento sia di esigere molto dal Forum e di esigere molto dallo Stato, in maniera da approfittare di questo momento di destrutturazione del capitalismo neoliberista per presentare alternative. È molto importante la lotta condotta in Venezuela, è molto importante la lotta che si è fatta a Cuba. Cuba è oggi nelle condizioni di poter apprendere dalle altre grandi energie trasformatrici che si registrano nel Continente.

Siamo di fronte ad un nuovo pensiero, ad una nuova pratica e dobbiamo guardare ad essi con entusiasmo e con speranza. Senza speranza non andiamo da nessuna parte. Vorrei terminare ricordando le parole della mia amica Elsa, grande attivista dell’economia solidale, che mi ha detto: “Che gioia essere qui e vedere che, finalmente, tutti cominciano a studiare l’economia solidale. Noi che siamo stati visti come un residuo del passato, noi donne, con le nostre cooperative, invisibili per così tanto tempo, ora recuperiamo visibilità. Che bello!”. E ha pianto, ha pianto perché il Forum le aveva dato questa grande possibilità. Elsa, le ho detto, è con questa emozione che noi possiamo trasformare il mondo, non solo con la fredda ragione, perché la fredda ragione va bene in frigorifero. La ragione deve essere calda, deve essere razionale ma piena di affetto, di emozione e di entusiasmo.

Ci troviamo di fronte al compito di creare questa grande alleanza, senza dogmatismi, senza esclusioni, perché di esclusioni siamo stati noi vittime per molto tempo. Pertanto il messaggio che lascio è questo: abbiamo una nuova opportunità, ma rischiamo di perderla se non cambieremo modo di pensare. Dobbiamo essere consapevoli del fatto che molti di noi appartengono a quel quinto dell’umanità che può permettersi di stare qui. Qui non ci stanno gli oppressi: lavorano 15 ore al giorno e non sanno se lavoreranno domani, sono vivi oggi e non sanno se saranno vivi domani. Noi qui parliamo di diritti umani ma ci dimentichiamo che due terzi della popolazione mondiale è oggetto di diritti umani, non soggetto. E oggetto dei nostri discorsi sui diritti umani.

Teniamo ben a mente che, attraverso uno sforzo molto più ampio di costruzione di alleanze, con la mente lucida e il cuore aperto, possiamo approfittare di
questa opportunità e trasformare il mondo.