Lefebvriani: non c’è solo il negazionismo

di Piero Stefani
in “Koinonia-Forum” n. 133 ( http://www.koinonia-online.it )

Ormai autorevoli presuli sussurrano che la curia romana, rispetto alla cancellazione della
scomunica dei quattro vescovi della Fraternità Sacerdotale di S. Pio X, si è comportata con
superficialità. Non si tratta solo del negazionista mons. Williamson. Tutta l’operazione è stata
condotta con molte incertezze persino sul piano canonistico. Quanto è certo è che si tratta di un atto
di misericordia. Parola tra la più alta dell’intero messaggio biblico, qui piegata a un uso improprio.
Con tale termine si intende l’unilateralità della decisione. Essa è stata presa da Benedetto XVI senza
chiedere alcuna condizione a coloro che hanno avuto il beneficio della revoca. È stata una misura
gratuita, senza che i seguaci di Lefebvre ammettessero qualche loro mancanza. Dalla loro c’era stata
soltanto la richiesta della revoca. Perciò se da un lato essa è apparsa misericordia, dall’altra è
suonata come una specie di atto dovuto a motivo del disagio avvertito da chi, reputandosi custode
fedele della tradizione, era da altri giudicato scismatico. Ha affermato papa Ratzinger: «Proprio in
adempimento di questo servizio all’unità, che qualifica in modo specifico il mio ministero di
Successore di Pietro, ho deciso giorni fa di concedere la remissione della scomunica in cui erano
incorsi i quattro Vescovi ordinati nel 1988 da Mons. Lefebvre senza mandato pontificio. Ho
compiuto questo atto di paterna misericordia, perché ripetutamente questi Presuli mi hanno
manifestato la loro viva sofferenza per la situazione in cui si erano venuti a trovare» (Benedetto
XVI). Sofferenza, non pentimento.
Il capo della Fraternità ha stilato una dichiarazione in cui si ringraziava la Madonna per aver già
ottenuto due delle tre richieste a lei fatte: la messa in latino di Pio V e la revoca della scomunica;
ormai manca solo la terza: giudicare il Vaticano II un vulnus nella tradizione. Quest’ultima
condizione potrà essere ottenuta, è ovvio, solo in modo strisciante. Una delle tappe di questa
operazione sono stati i modi di attuazione dei due primi passaggi. Non stupirebbe perciò che si
proponesse ai seguaci di Lefebvre di accogliere il Vaticano II solo quando se ne fosse imposta
un’interpretazione in base alla quale, accanto a esso, può sussistere anche tutto quanto c’era prima.
In quest’ottica il modo in cui è stata reintrodotta la messa latina del 1962 diverrebbe paradigmatico
per l’intera ermeneutica conciliare.
Incalzato dalle polemiche suscitate dalla presenza di un vescovo negazionista, Benedetto XVI ha
precisato: «Auspico che a questo mio gesto [la revoca della scomunica] faccia seguito il sollecito
impegno da parte loro [i quattro vescovi] di compiere gli ulteriori passi necessari per realizzare la
piena comunione con la Chiesa, testimoniando così vera fedeltà e vero riconoscimento del
magistero e dell’autorità del Papa e del Concilio Vaticano II». Da ciò si deduce che i vescovi non
sono più scomunicati, ma non sono neppure riammessi alla piena comunione. La nota della
Segreteria di Stato del 4 febbraio si limita a ribadire questa posizione. I quattro vescovi e il loro
gregge si troverebbero perciò in una specie di limbo: dotati di successione apostolica, non più
scomunicati, quindi non più scismatici, ma non ancora in comunione. Un tempo si insegnava che la
remissione di una colpa si otteneva dimostrando la propria contrizione e manifestando il fermo
proponimento di non commetterla più. I lefebvriani, che hanno già ottenuto tanto solo dicendo di
soffrire, non si ritengono affatto colpevoli; anzi si sentono sempre più accreditati nel ritenere che a
errare siano stati gli altri. Il solo loro evidente imbarazzo è il negazionismo di Williamson.
Con ogni evidenza papa e curia ora si affannano a chiedere dopo quanto bisognava esigere prima.
Per tener fissa la barra del timone, bastava conformarsi alla linea espressa nel 1988 dalla Ecclesia
Dei, il motu proprio che istituiva: «una Commissione, con il compito di collaborare con i Vescovi,
con i Dicasteri della Curia Romana e con gli ambienti interessati, allo scopo di facilitare la piena
comunione ecclesiale dei sacerdoti, seminaristi, comunità o singoli religiosi e religiose finora in
vario modo legati alla Fraternità fondata da Mons. Lefebvre, che desiderino rimanere uniti al
Successore di Pietro nella Chiesa Cattolica». In quel testo di Giovanni Paolo II era, infatti, anche
contenuta una diagnosi di fondo dell’errore della Fraternità. Essa verteva proprio sul termine
giudicato pietra angolare dai seguaci di Lefebvre: «tradizione».
«La radice di questo atto scismatico è individuabile in una incompleta e contraddittoria nozione di
Tradizione. Incompleta, perché non tiene sufficientemente conto del carattere vivo della Tradizione,
“che – come ha insegnato chiaramente il Concilio Vaticano II – trae origine dagli Apostoli,
progredisce nella Chiesa sotto l’assistenza dello Spirito Santo: infatti la comprensione, tanto delle
cose quanto delle parole trasmesse, cresce sia con la riflessione e lo studio dei credenti, i quali le
meditano in cuor loro, sia con la profonda intelligenza che essi provano delle cose spirituali, sia con
la predicazione di coloro i quali, con la successione episcopale, hanno ricevuto un carisma certo di
verità” (Dei Verbum n. 8).
Ma è soprattutto contraddittoria una nozione di Tradizione che si oppone al Magistero universale
della Chiesa, di cui è detentore il Vescovo di Roma e il Corpo dei Vescovi. Non si può rimanere
fedeli alla Tradizione rompendo il legame ecclesiale con colui al quale Cristo stesso, nella persona
dell’apostolo Pietro, ha affidato il ministero dell’unità nella sua Chiesa»
Una delle condizioni che ha portato all’attuale situazione è stata la debolezza con cui, negli scorsi
decenni, si è affermata nella Chiesa cattolica la prima delle due condizioni. In particolare la
presenza di quei tre «sia» nella Dei Verbum definisce un modo autentico di dirsi Chiesa: la
tradizione cresce solo se i credenti studiano la parola, se vi è intelligenza delle cose spirituale e se vi
è la predicazione vescovile. Quando si amputa uno dei tre «sia», o anche quando non li fa interagire
si assiste a quel che effettivamente è avvenuto: una deriva clericale che ha avvilito il senso alto
della tradizione e della comunione ecclesiale e che è divenuta presupposto della decisione odierna.
Quanto al negazionismo esso è soltanto l’aberrante punta di un iceberg, oltre che l’unico palese
motivo di imbarazzo della Fraternità. La parte al di sopra del pelo dell’acqua non deve far
dimenticare che la massa sottostante è, in modo costitutivo, integralmente antigiudaica. Tutti perciò,
persino Fallay, posso prendere le distanze dal ghiaccio emerso. Tuttavia il grosso è quanto è
sommerso. Del resto basta guardare a molte delle decisioni prese da Benedetto XVI per capire
quanta poca capacità di discernimento vi sia in relazione ai temi che si aggrovigliano attorno allo
snodo decisivo dell’antigiudaismo cristiano.