Vaticano II. Un testamento che turba la Chiesa romana

di David Gabrielli
da www.confronti.net

A cinquant’anni dal primo annunzio del Concilio, che ne è dell’eredità della grande Assemblea voluta da papa Giovanni? Benedetto XVI ha celebrato l’anniversario cancellando la scomunica ai vescovi lefebvriani che pur continuano a sostenere l’antisemitismo teologico. La vergogna di Richard Williamson.

Sono appena trascorsi cinquant’anni da quando, il 25 gennaio 1959, Giovanni XXIII annunciò per la prima volta l’intenzione di convocare il Concilio Vaticano II, che si sarebbe poi celebrato in san Pietro dal 1962 al ‘65, in quattro distinte sessioni autunnali. L’anniversario, per volere di Benedetto XVI che così ha inferto, di fatto, un vulnus alla memoria e all’eredità del Concilio, si è incrociato con la cancellazione della scomunica a quattro vescovi seguaci di monsignor Marcel Lefebvre, acerrimi avversari delle deliberazioni della grande Assemblea. Uno, poi, di tali vescovi, il britannico Richard Williamson, ha sostanzialmente negato la Shoah, e questa ulteriore vicenda – di per sé non legata alla precedente – ha aperto un’altra finestra che, indirettamente, getta una luce sinistra sul mondo dei tradizionalisti ora riabilitati e sulla «politica» d’Oltretevere.

Le quattro stagioni del Vaticano II e del post-Concilio

Il Concilio approvò quattro costituzioni: su liturgia («Sacrosanctum Concilium»), Chiesa («Lumen gentium»), divina rivelazione («Dei verbum») e rapporti Chiesa-mondo («Gaudium et spes»); nove decreti – tra i quali uno sull’ecumenismo («Unitatis redintegratio»); tre dichiarazioni, tra cui una sui rapporti con le religioni non cristiane, in particolare con l’ebraismo («Nostra aetate»), e una sulla libertà religiosa («Dignitatis humanae»). Nell’insieme, questo corpo dottrinale e pastorale ha rappresentato il più grande sforzo, a livello del massimo magistero cattolico, nel secolo ventesimo, per «aggiornare» la Chiesa cattolica romana. Caratteristica del Vaticano II, rispetto agli altri Concili del secondo millennio (ecumenici – salvo alcune voci dissonanti – per la Chiesa di Roma, ma solo generali della Chiesa latina secondo l’Ortodossia), e soprattutto rispetto ai due precedenti – Trento (1545-63) e Vaticano I (1869-70) – fu che le proclamazioni dogmatiche e le indicazioni pastorali non furono seguite dalla famosa espressione anathema sit (sia scomunicato chi non crede che…).

Più forte, spesso, dei suoi documenti, fu l’evento stesso del Concilio, e cioè il fatto che circa duemilacinquecento «padri» – l’idea che ci potessero essere anche le «madri» era totalmente estranea, allora, tanto ai vescovi e teologi «conservatori» che «progressisti» – provenienti da ogni parte del mondo, discutessero liberamente su come scrostare dalla polvere dei secoli l’antico albero della Chiesa romana per farvi scorrere meglio la linfa vitale sì da riuscire ad annunciare in modo credibile l’evangelo, inserendolo nelle diverse culture, e quindi relativizzando la cultura ecclesiastica europea fino ad allora dominante. Il Concilio, insomma, poneva l’intera Chiesa cattolica in stato di Concilio.

Papa Giovanni parlò del Concilio come «fiore di inaspettata primavera». Assumendo questo paragone, potremmo dire che, dopo il lieto inizio, venne poi l’estate con la sua messe, cioè il dibattito e l’approvazione dei sedici documenti finali. E poi arrivò l’autunno, caratterizzato da prevalenti segnali negativi, ma qua e là, come ogni stagione che si rispetti, anche da eventi fecondi. Paolo VI attuò con coraggio la riforma liturgica di cui la «Sacrosanctum Concilium» aveva posto le premesse fondamentali, ma non certo l’intera elaborazione; e proprio a questa riforma si appigliò monsignor Marcel Lefebvre per contrastare le conseguenze del Vaticano II. Però Montini fu anche il papa che sottrasse al Concilio la discussione su due temi caldi: il celibato obbligatorio per i preti latini, e i mezzi moralmente leciti per la regolazione delle nascite. E, dopo il Concilio, confermò la normativa vigente sul primo tema, e con l’enciclica «Humanae vitae» nel 1968 riaffermò – malgrado il diverso parere della grande maggioranza di una commissione consultiva da lui stesso voluta – il no alla contraccezione. Un atto di imperio che provocò vastissimo esplicito o implicito dissenso, portando milioni di cattolici a mettere in questione, in concreto, il senso del magistero ecclesiastico. Si avviò, insomma, quello «scisma sommerso» che da allora, malgrado i tentativi del trionfalismo ecclesiastico di occultarlo, percorre il corpo della Chiesa romana.

Ma fu soprattutto sulla collegialità episcopale e nella concretizzazione della Chiesa come «popolo di Dio» che Montini evase il Vaticano II: infatti, il Sinodo dei vescovi da lui voluto nel ’65 è lontano dall’inverare, a livello teologico e normativo, le intuizioni della Lumen gentium; dunque il potere papale, abbellito da una cosmesi facciale, è rimasto lo stesso – monocratico e, attraverso la Curia romana, accentratore – a scapito delle Chiese locali (diocesi e gruppi di diocesi sparse nel mondo).

Da parte sua, andando a visitare, il 13 aprile ’86, la sinagoga di Roma e, il 27 ottobre successivo, convocando ad Assisi i leader delle varie religioni del mondo a pregare per la pace, Giovanni Paolo II fece due gesti davvero incisivi per attuare la Nostra aetate. E un seme capace di generare, in futuro, frutti inattesi di conversione per l’istituzione ecclesiastica, fu – nel Duemila – la giornata da lui indetta per chiedere perdono a Dio dei peccati dei «figli» della Chiesa. Ma il pontificato di Wojtyla – attraverso la longa manus del cardinale Joseph Ratzinger, da lui nell’81 nominato prefetto della Congregazione per la dottrina della fede – nel contempo si caratterizzò anche per una scientifica e sistematica emarginazione delle teologhe e dei teologi impegnati ad approfondire gli input del Vaticano II, e contro le realtà di base decise ad incarnare l’evangelo nella storia ponendosi dalla parte degli impoveriti. Egli sempre si rifiutò di dare voce deliberativa al Sinodo dei vescovi e, continuando in proposito il silenzio montiniano, ignorò le possibili soluzioni per dare voce, a livello della Chiesa universale, alla partecipazione del «popolo di Dio» alle scelte e decisioni riguardanti tutti e tutte.

L’inverno di Ratzinger

Tutti ben conoscevano le posizioni teologiche di Joseph Ratzinger; e dunque si deve dire che i cardinali (praticamente tutti scelti da Wojtyla, che pilotò la sua successione prevedendo per il conclave un’evidente maggioranza di prelati legati ad un’interpretazione restrittiva del Vaticano II) lo vollero come papa proprio per le sue tesi. E Benedetto XVI, programmaticamente, porta avanti le battaglie fatte da porporato; e, dall’alto del suo soglio, ora spesso impone all’intera Chiesa romana anche le tesi e le scelte che da cardinale non era riuscito del tutto a far passare.

Per limitarci qui al nodo del Concilio, riteniamo che la magna charta del pensiero del nuovo papa sia il suo discorso alla Curia romana il 22 dicembre 2005: un intervento il cui asse, ci sembra, sta nel rifiuto di interpretare il Concilio con la «ermeneutica della discontinuità e della rottura», preferendo invece «l’ermeneutica della continuità e della riforma». Ora (riduciamo in pillole una problematica articolata) è vero che il Vaticano II per molti aspetti è in piena continuità con il magistero papale e conciliare precedente. Ha cambiato però prospettiva nel valutare, nell’insieme e non senza contraddizioni, il modo con cui la Chiesa si pone di fronte a se stessa e al mondo; cioè ha rovesciato l’ottica della Controriforma. Ha posto alcune premesse (spesso poi tradite) per l’uscita dal regime di cristianità che è quello