Il Rubicone dell’uomo

di Gianfranco Ravasi
in “Il Sole 24 Ore” del 1° marzo 2009

«Fede e scienza sono complementari e non opposte e incompatibili». L’ha detto Arno Allan Penzias,
Nobel 1978 per la fisica, dialogando col nostro Riccardo Chiaberge. Questa frase la adotterei
idealmente come motto per il Convegno internazionale sull’evoluzione biologica che si apre martedì
prossimo all’Università Gregoriana e che confesso di aver intensamente sostenuto nella mia
funzione di presidente del Pontificio Consiglio della Cultura. Si deve, infatti, lasciare alle spalle
l’orgogliosa autosufficienza dello scienziato che relegava la teologia nel deposito dei relitti di un
paleolitico intellettuale, superato da chi correva gloriosamente sul luminoso e progressivo viale
della scienza moderna. Ma si deve anche vincere la tentazione del teologo che si illudeva di
perimetrare i campi della ricerca scientifica o di finalizzarne i risultati apologeticamente a sostegno
delle sue tesi.
Come scriveva Schelling, occorre che scienziato e teologo «custodiscano castamente la loro
frontiera», rimanendo aderenti ai loro specifici canoni di ricerca, pronti però anche a rispettare e a
tenere in considerazione i metodi e i risultati degli ultimi approcci alla realtà umana in esame. Un
celebre scienziato come Max Planck (1858-1947), nel suo saggio sulla Conoscenza del mondo
fisico, scriveva che «scienza e religione non sono in contrasto, ma hanno bisogno una dell’altra per
completarsi nella mente di un uomo che pensa seriamente». Tesi ribadita anche da un Papa come
Giovanni Paolo II quando nel discorso conclusivo della «Commissione del Caso Galileo»
affermava: «La distinzione tra i due campi del sapere [scienza e fede] non dev’essere intesa come
un’opposizione. I due settori non sono estranei l’uno all’altro, ma hanno punti di incontro. Le
metodologie proprie di ciascuno permettono di mettere in evidenza aspetti diversi della realtà».
Uno dei più celebrati studiosi di antropologia culturale, Claude Lévi-Strauss, nella sua opera Il
crudo e il cotto, ricordava che «lo scienziato non è l’uomo che fornisce vere risposte, è invece colui
che pone le vere domande». Ebbene, riguardo al tema specifico dell’evoluzione umana, una delle
questioni capitali che la scienza presenta, ma al cui svelamento contribuiscono in modo
determinante sia la filosofia sia la teologia, è quella, delicata e fluida, del segnale o degli indizi che
mostrano l’emergere dell’ominizzazione lungo la grande e complessa traiettoria evolutiva.
In passato ci si appoggiava un po’ “quantitativamente” sullo sviluppo della capacità cranica e si
parlava appunto di un “Rubicone cerebrale”, cioè di una svolta legata alla crescita della massa del
cervello. Poi, però, si è preferito puntare più sui “marcatori” culturali, come il primo apparire del
linguaggio e dell’attività simbolica, con l’affiorare di una primordiale sensibilità estetica. Si
tratterebbe quindi, del superamento della mera fisicità con le sue pulsioni istintuali e meccaniche
per assurgere a espressioni più libere e “gratuite”. Ebbene, è proprio qui c la filosofia e la teologia
possono dare ulteriore contributo di comprensione
Innanzitutto lo può fare la filosofia che ci aiuta a individuare il trapasso dalla pura e semplice
biologia, per cui l’organismo funziona secondo regole obbligatorie, all’elaborazione cosciente che
giustifica, controlla e persino muta quei fenomeni primari. L’uomo riesce, allora, a rendersi ragione
della sua realtà spiegarla e a dominarla, a scoprirne regole che la reggono e a giustificarle. Ma a
questo punto avviene qualcosa più alto che sconfina nell’etica. Per descriverlo vorremmo ricorrere a
quel grande pensatore, scienziato e credente che fu Blaise Pascal. Egli nei suoi Pensieri (n. 829
edizione Chevalier) distingueva un triplice livello progressivo: l’ordine della carne, l’ordine dello
spirito e quello della carità. Quest’ultimo livello con la sua gratuità non solo va oltre il meccanismo
della carne, ossia della corporeità, già superato dall’ordine dello spirito, ma, come scriveva il
filosofo, trascende anche «tutti gli spiriti insieme e tutte le loro produzioni», aprendo l’uomo
all’infinito e all’eterno.
Lo stesso pensatore, in una celebre battuta, ricordava che «l’uomo supera infinitamente l’uomo» e
questo trascendimento lo si scopre, ad esempio, nella gratuità creativa dell’amore, che va oltre ogni
rigida connessione biologica e anche contro la stessa logica dello spirito che riflette e argomenta. Si
pensi alla grandiosa libertà etica esaltata dal Cristianesimo col perdonare le offese, proteggere gli
ultimi, aiutare anche il nemico o l’estraneo, «dare la stessa vita per la persona amata» (Giovanni
15,13). Questo atteggiamento, che fiorisce proprio dall’alta moralità dell’amore e da una scelta
libera, smentisce nettamente quell’applicazione rigida e un po’ caricaturale della teoria evolutiva
nota come «darwinismo sociale»: l’esempio più emblematico di tale concezione è nelle teorie di
Herbert Spencer o di William G. Sumner che giustificarono le disuguaglianze sociali e le ingiustizie
come esiti necessari della selezione naturale e stabilirono un parallelo meccanico tra evoluzione
biologica ed evoluzione sociale.
La gloriosa e drammatica grandezza etica dell’uomo, intessuto di miseria e di splendore, capace di
“bestialità” e di eroismo, è il principale segnale dell'”umanità”, il Rubicone che lo separa dal
primate. Non è possibile ricondurre questa complessità e originalità sconcertante nel bene e nel
male, tipica della creatura umana, questo «ordine della carità», affermata o negata, a una mera
risultanza biologica, fermo restando che tutto questo non esclude i citati dati scientifici della
paleontologia, della sistematica e della biologia molecolare, che confermano l’evoluzione
progressiva delle varie forme strutturali del vivente («l’ordine del corpo», sempre per usare il
linguaggio pascaliano).
Come è evidente, ormai siamo sul terreno teologico e qui iniziano a germogliare altri interrogativi
che ci conducono alla comprensione “simbolica”, cioè unitaria e piena, della persona umana (si
pensi solo al tema della libertà e del peccato). Noi ci fermiamo qui ribadendo che mai come oggi
scienza e teologia, sapere e credere devono incrociare i loro diversi percorsi con serietà e serenità,
senza facili concordismi o istintuali rigetti. Per noi credenti valga, allora, sempre l’appello che ci ha
lasciato in una sua lettera sant’Agostino: Intellectum valde ama! L’amore appassionato per
l’intelligenza, il sapere, il comprendere è fondamentale per la stessa fede che altrimenti si
estinguerebbe in sentimentalismo, nella consapevolezza, però, che la verità è un Oltre che ci
precede e ci supera. E agli scienziati può essere ricordato l’invito che Benedetto XVI proponeva per
travalicare «la limitazione autoimposta alla ragione solo a ciò che è verificabile nell’esperimento»,
dischiudendosi all’orizzonte più ampio della verità. In questa luce – continuava il Papa – «la teologia
vera e propria, come interrogativo sulla ragione della fede e del senso ultimo della realtà, deve avere
il suo posto nell’università e nel vasto dialogo delle scienze».