La Cina fa la spesa

di Alessandro Ursic
da www.peacereporter.net

Pechino stringe accordi con Russia, Brasile, Australia e Venezuela. Approfittando della crisi per assicurarsi forniture stabili di risorse. In un mondo economicamente in crisi, con la minaccia della bancarotta a incombere su vari Stati e un crollo nella produzione industriale e nel commercio internazionale, la Cina ha abbastanza danaro da parte per iniziare a comprare a basso prezzo, rafforzandosi strategicamente mentre gli altri temono il collasso. Così, Pechino ha appena dato il via a una serie di accordi con aziende straniere in particolare nel settore petrolifero e minerario, carburanti per il suo sviluppo. E con i mercati azionari in caduta libera, le speranze che il motore cinese riprenda a girare prima degli altri – alimentando una prima ripresa dopo la crisi – sono condivise da molti.

Nell’ultimo mese, la Cina ha firmato accordi con aziende di materie prime russe, brasiliane, australiane e venezuelane. In Australia, per 19,5 miliardi di dollari Pechino ha concluso l’acquisto – in attesa del nulla osta delle autorità di Canberra – del 18 percento della Rio Tinto, un colosso minerario appesantito dal debito contratto per l’acquisizione di un’altra compagnia quando i prezzi erano troppo alti; altri 1,7 miliardi sono stati investiti per il controllo di un’altra società australiana, la Oz Minerals, che potrà così cancellare del tutto il suo debito. Con Rosneft e Transneft (Russia), Petrobras (Brasile) e Pdvsa (Venezuela), inoltre, i leader cinesi in persona hanno firmato nelle ultime settimane diversi accordi “loan-for-oil”, cioè prestiti in cambio di forniture di petrolio. Le aziende in questione – scottate dal crollo del prezzo del greggio – riceveranno subito miliardi di dollari da Pechino, che ripagheranno con milioni di tonnellate di petrolio nei prossimi decenni.

Con riserve valutarie stimate in 2.000 miliardi di dollari e un sistema bancario solido, non contaminato dai derivati tossici di cui sono pieni i bilanci delle banche occidentali, Pechino sembra aver deciso che questo sia un buon momento per comprare. Il prezzo del petrolio è sceso da 147 a 40 dollari in otto mesi, le altre materie prime hanno anche visto scoppiare la loro bolla, e il valore in Borsa di molte aziende del settore è sceso di conseguenza. Ma la spesa di Pechino non si esaurisce nel settore delle commodities. Una delegazione commerciale cinese di 300 membri è tuttora in Europa, nel corso di un tour che la porterà a toccare Germania, Svizzera, Spagna e Gran Bretagna. La preoccupazione della Cina è anche quella che il commercio internazionale si blocchi, con gravi ripercussioni sulle sue aziende esportatrici, migliaia delle quali hanno già chiuso a causa della crisi. Anche per questo, Pechino ha usato parole critiche contro le tentazioni protezionistiche europee e americane, in particolare contro la disposizione sul “comprare americano” contenuta – e poi annacquata – nel programma di stimoli fiscali lanciato dall’amministrazione Obama.

Sembra così rafforzarsi l’ascesa “globale” del gigante asiatico. Gli investimenti diretti cinesi all’estero sono passati dai miseri 700 milioni di dollari del 2001 a 40,5 miliardi l’anno scorso, e gli analisti prevedono che la cifrà aumenterà nonostante la crisi. Ma se gli accordi appena firmati sembrano saggi, negli anni Pechino ha comunque commesso clamorosi errori di tempistica. Il fondo sovrano cinese è entrato nel capitale di società finanziarie come Morgan Stanley, Barclays e Blackstone dopo i primi scossoni dell’attuale crisi, vedendo il suo investimento ormai svalutato di circa due terzi. Non sempre, poi, le acquisizioni vanno a buon fine: nel 2005 l’azienda petrolifera Cnooc era sul punto di comprare la californiana Unocal, ma le reazioni anti-cinesi al Congresso di Washington convinsero Pechino a ritirare l’offerta. Con i tempi che corrono, però, dire di no a chi si presenta con denaro contante sembra essere più difficile.