I cervelloni in guerra con i talebani. La lezione della tolleranza

di Pervez Hoodbhoy, Università di Islamabad
da La Stampa

La domanda che voglio porre è la seguente: con una popolazione di oltre un miliardo di individui di fede musulmana e una quantità ragguardevole di risorse materiali, perché il mondo islamico si è allontanato dalla scienza e dal processo di creazione di conoscenza? Non è andata sempre così. L’Età dell’Oro dell’Islam, tra IX e XIII secolo, ispirò grandi progressi nella matematica, nella scienza e nella medicina. La lingua araba era dominante nell’epoca in cui diede i natali all’algebra, formulò i principi di ottica, scoprì la circolazione del sangue, diede i nomi agli astri e fondò molte università. Ma con la fine di quel periodo la scienza si eclissò. Nessuna invenzione o scoperta significativa è emersa per oltre sette secoli. E’ proprio questo progresso interrotto un elemento importante – anche se non l’unico – che contribuisce ad alimentare l’attuale marginalizzazione dei musulmani e il loro crescente senso di ingiustizia.

Oggi, i leader islamici hanno capito che potenza militare e crescita economica derivano entrambi dalla tecnologia e, spesso, auspicano un rapido sviluppo scientifico e la creazione di una società basata sulla conoscenza. Ma spesso questo auspicio è solo retorico, anche se in alcuni Paesi islamici – Qatar, Emirati Arabi Uniti, Pakistan, Malesia, Arabia Saudita, Iran – il patrocinio ufficiale della scienza e dell’educazione, assieme al loro finanziamento, sono cresciuti rapidamente. E tuttavia aumentare i fondi può bastare per rivitalizzare la scienza o, forse, non c’è bisogno di cambiamenti più fondamentali? Alcuni studiosi, come Max Weber, hanno sostenuto che l’Islam mancasse di un «sistema di idee» necessario per sostenere una cultura scientifica basata sull’innovazione e sulla verifica empirica. Fatalismo e orientamento al passato – dicevano – rende il progresso difficoltoso e perfino indesiderabile. Al contrario, nel difendere la compatibilità tra scienza e Islam, i musulmani ribattono che proprio l’Islam ha alimentato una cultura vibrante nei secoli bui dell’Europa e quindi, per analogia, è capace di gestire una cultura scientifica moderna.

Anche se il passo relativamente lento dello sviluppo scientifico nei Paesi islamici è evidente, ci possono essere diverse spiegazioni e alcune di quelle più comuni sono errate. E’ una leggenda, per esempio, il fatto che le donne siano in larga parte escluse dall’istruzione superiore. I numeri, infatti, sono simili a quelli di molti Paesi occidentali. Nel settore delle scienze naturali e dell’ingegneria la proporzione di donne iscritte alle università è quasi la stessa degli Usa. Le restrizioni alla libertà delle donne, d’altra parte, garantiscono possibilità molto minori, sia nella vita privata che nei percorsi professionali. Ma nemmeno la quasi totale mancanza di democrazia nei Paesi islamici costituisce la ragione essenziale di uno sviluppo scientifico rallentato. E’ sicuramente vero che i regimi autoritari non riconoscono la libertà di ricerca o di dissenso, minacciano il funzionamento delle università e limitano i contatti con il mondo esterno. Ma nessun governo islamico, oggi, anche se dittatoriale o imperfettamente democratico, si avvicina solo remotamente al terrore praticato da Hitler o da Stalin, sotto i quali, comunque, la scienza poté sopravvivere e perfino progredire.

Un altro mito sbagliato è quello secondo cui il mondo islamico rigetterebbe le nuove tecnologie. Non è vero. Nonostante una manciata di questi Paesi sia costituita da ricchi produttori di petrolio con redditi esorbitanti, la maggior parte, invece, è piuttosto povera. E’ semmai l’inadeguatezza delle tradizionali lingue islamiche – arabo, persiano, urdu – a costituire un fattore importante. Uno studio dell’Onu rivela che «il mondo arabo traduce circa 330 libri ogni anno, un quinto del numero dei testi tradotti nello stesso arco di tempo dalla Grecia». Ma le ragioni ancora più profonde sono culturali. La scienza è fondamentalmente un sistema di idee cresciuto attorno a una sorta di impalcatura, il metodo scientifico. Il progresso richiede costantemente che i fatti e le ipotesi siano controllati e ri-controllati e per questo non si cura dell’autorità. Ecco perché la scienza trova la strada sbarrata ogni volta che i miracoli sono presi alla lettera e ogni volta che si crede che la parola rivelata fornisca una conoscenza autentica del mondo naturale. Se il metodo scientifico è svilito, nessuna quantità di risorse o nessuna dichiarazione di intenti a favore dello sviluppo possono compensare questa mancanza. Il fondamentalismo è sempre una cattiva notizia per la scienza.

Ma che cosa può spiegare la crescita esponenziale del fondamentalismo nell’ultima metà del secolo? Alla metà degli Anni 50 tutti i leader musulmani erano laici e il secolarismo nel mondo islamico stava crescendo. L’Occidente deve accettare la propria dose di responsabilità nell’aver contribuito a invertire questa tendenza. E allora riuscirà mai la scienza a tornare all’interno dell’universo islamico? Oppure il mondo dovrà continuare a essere diviso tra quelli che coltivano la scienza e quelli che non lo fanno? Per quanto il presente possa apparire desolante, uno scenario del genere è inaccettabile. La storia non conosce la parola «fine» e i musulmani hanno la loro chance. Dobbiamo riuscire ad abbandonare l’agenda che ci viene dettata da strette osservanze nazionalistiche o religiose, in Occidente tanto quanto tra i musulmani. Nel lungo periodo i confini politici dovranno e potranno essere considerati come artificiali e temporanei.

Punto altrettanto fondamentale: la religione dev’essere una questione di libera scelta per l’individuo, non un’imposizione dello Stato. Questo fa sì che l’umanesimo laico, basato sul senso comune e i principi della logica, sia la nostra sola opzione ragionevole per il progresso. Essendo scienziati, lo comprendiamo facilmente. Il nostro compito è persuadere quelli che non lo capiscono.