Giustizia è sfatta

di Lucia Annunziata
in “La Stampa” del 5 marzo 2009

Francamente non so se bisogna benedire o maledire quello che è successo. Sia ben chiaro: la
scoperta che i due immigrati romeni accusati di essere i colpevoli dello stupro della Caffarella in
realtà non lo sono, è un vero e proprio schiaffo alla nostra coscienza nazionale.
Vogliamo davvero lasciar passare questo episodio come un ennesimo «disguido» delle Istituzioni
del nostro Bel Paese, o vogliamo fermarci un attimo a chiederci come sia stato possibile, e chi ne sia
responsabile? Perché, prima ancora che si sappia bene quel che è accaduto, una cosa è certa: questo
è un tipico caso in cui almeno un responsabile va trovato e deve pagare.
Vediamo intanto perché la vicenda Caffarella si presenta come più grave dei pur molti errori simili.
Le indagini italiane non sono un esempio di efficacia. Questa affermazione si fa molto spesso a
proposito di iniziative «audaci» da parte di magistrati che indagano sulla politica. In questi casi, c’è
un’attenzione quasi parossistica al tema da parte sia dei giornali che del Parlamento.
La verità però è che le indagini italiane sono ampiamente carenti anche quando si tratta di crimini
comuni. La prova? La confusione e le lungaggini in cui si sono insabbiati alcuni grandi delitti, quasi
tutti dati per altro come «chiariti»: ci trasciniamo ancora fra il pigiama e gli zoccoli di Anna Maria
Franzoni nella villetta di Cogne, fra il computer e i pedali della bici di Alberto Stasi, fra le tracce di
Amanda e Raffaele sul reggipetto di Meredith. Quasi tutti i maggiori delitti del Paese, anche quelli
non politici, periodicamente rigurgitano una nuova prova persa, avvilita, trascurata o smarrita. Ad
esempio, Profondo Nero, un recente libro di Giuseppe Bianco e Sandra Rizza (ed. chiarelettere)
riapre l’inchiesta sull’assassinio di Pasolini, collegandolo alla morte di Mattei e del giornalista De
Mauro, proprio in base a nuove testimonianze.
A differenza dei casi che riguardano la politica, però, gli italiani non sembrano indignarsi troppo
degli errori nelle indagini di «nera». Anzi: la confusione è diventata una sorta di nuovo genere di
«soap» giornalistica che si sviluppa nel tempo e con grande godimento di tutti.
Lo stupro della Caffarella presenta una forte novità, figlia di questi nostri tempi: è un fatto di
violenza, dunque di nera, che assume però una fortissima valenza sociale per il contesto in cui
avviene. Un caso «transgender» che scavalca le tradizionali distinzioni fra cronaca e politica.
Della delicatezza della situazione siamo stati consapevoli tutti fin dal primo momento. E ci siamo
fidati. Fidati, sì. Perché in Italia, nonostante si ami dilaniarsi su tutto fra Guelfi e Ghibellini, resiste
una profonda fiducia nelle nostre istituzioni. Ogni volta è come se fosse la prima, per la nostra
opinione pubblica. Ci siamo tanto fidati che quando la polizia ci ha presentato i suoi mirabolanti
risultati, nessuno di noi ha sollevato un dubbio. Nonostante le Amande, gli Alberti, le Annamarie e
gli Azouz, abbiamo applaudito e gridato al miracolo. Se non è fiducia nelle istituzioni questa!
Poi le smentite, e infine la certezza dell’errore. E non si sa se benedire il disvelamento, o se
maledire la nostra stupidità collettiva. Tutti convinti da parole come «materiale organico» e «Dna»,
nonché ammiratori del metodo. La polizia ha avuto anche l’impudenza di presentarci (in una
conferenza stampa!) il racconto di un’inchiesta esemplare, svolta in collaborazione internazionale
con la polizia romena, con foto e pedinamenti, il metodo tradizionale. Approfittando così (tanto per
colorare di più la valenza politica del risultato) per dare una bastonata polemica all’uso delle
intercettazioni.
Ora, di fronte alle smentite, si dice: «La politica ha messo fretta». Ma non è questo lo scandalo: la
politica fa sempre fretta, ha sempre bisogno di presentare, usare, mangiare. Scandalosa è
l’incoscienza dei corpi dello Stato che hanno accettato questa fretta. E scandaloso è soprattutto il
risultato: l’intero Paese si è visto condurre per il naso verso una direzione che conferma il razzismo
più frettoloso e più rozzo. Cui nessuno è riuscito a sottrarsi, nemmeno i democratici più convinti.
Qualcuno dei nostri lettori potrebbe alzare la mano e porre una domanda molto opportuna: ma voi
giornalisti? Perché anche voi vi siete accucciati? È un rimprovero giusto. Troppo spesso noi
giornalisti facciamo da acritica cassa di risonanza delle indagini. Una responsabilità che ci è stata
già rinfacciata. E che ci prendiamo.
Ma come dubitare di un teatrino perfetto, come quello messo in piedi dalle nostre istituzioni? Siamo
di fronte a una vera e propria frode. Qualcuno deve pagare per il clima che l’episodio lascia in tutto
il Paese, di amaro in bocca e di sgomento.