I rumeni hanno lo stupro scritto nel Dna. Parola di razzista

di Lidia Menapace
in “Liberazione” del 5 marzo 2009

«Tutto rosso è il sangue umano e tutto umano è», scrive un poeta senegalese, e credo valga anche
per il Dna. La storia di cercar di identificare “scientificamente” appartenenze biologiche alle
“razze”, che è un nonsenso scientifico, indica che ci si muove sul terreno dei più puri e pericolosi e
vili pregiudizi. La cosa viene da lontano, come il dire che tutte le donne sono puttane, o “porca
Eva”, così che tutti i Neri sono sporchi, gli Ebrei avari, i Gialli infidi e gli Arabi poi depositari di
ogni crudeltà, sorpassati solo dai Romeni detti anche Rom, che è persino un’altra cultura. Questo è
già razzismo, cioè rendere uno o una sospettabile di qualcosa, non perché ci sono indizi o prove che
l’abbia fatta, ma per quello che è. E se non si vince fino in fondo, non si sradica dalle fondamenta
qualsiasi traccia di pregiudizio legato a ciò che siamo, il pregiudizio riciccia nelle forme più
inverosimili, così gli Italiani migranti erano discriminati e noi discriminiamo gli immigrati, gli
Ebrei furono sottoposti alla Shoà e ripetono lo sterminio a Gaza. Per un certo periodo sembrò che il
furto fosse ignoto in Italia e che ce lo avessero portato gli Albanesi. Adesso si vuol far credere che
lo stupro è caratteristico di un gruppo culturale umano e si cerca di “dimostrarlo” in un modo che fa
fare solo brutti pericolosi inquinanti errori. Si chiama “petizione di principio” ed è uno dei più noti
errori di logica classica: una cosa inventata dagli uomini, che sono campioni “a prescindere” di
razionalità (altro diffuso pregiudizio). Orbene. Lo stupro è in ogni cultura, più in quelle stanziali e
fondate sulla proprietà (anche la donna è merce e deve essere “nuova”), era considerato e persino
sancito come un diritto degli eserciti vittoriosi, e diffuso soprattutto nelle famiglie a motivo del loro
ordinamento patriarcale, col padre investito della patria potesta se arbitro di vita e di morte sui figli.
E’ stato fino a pochi decenni fa coperto dalle leggi: in Italia, “patria del diritto”, era un reato contro
la morale e non contro la persona e comportava indagini sulla moralità della vittima (la donna
provoca, mente e simula!). E per ottenere che il parlamento italiano votasse una legge che lo
definisce un reato contro la persona, ci sono volute un milione di firme raccolte da associazioni di
donne sotto un testo di iniziativa popolare e ben due legislature, con un tenace impegno di donne
parlamentari. Infine il parlamento italiano si sentì “costretto” ad approvare una legge contro la
violenza sessuale che è una delle migliori in Europa. Naturalmente se nella polizia e nella
magistratura permangono i pregiudizi che uno stupratore è per forza romeno e una donna provoca
se gira senza una ronda di scorta, non si fa un passo avanti, anzi si rotola indietro. Considero un
enorme vanto civile che noi donne del Comitato per la legge non abbiamo voluto allora un
inasprimento delle pene, perché abbiamo sempre confidato in e voluto un mutamento di cultura e
non un incrudimento repressivo. La Gelmini, sempre più Beata Ignoranza, presentando la sua
“nuova materia”, da non confondere – dice lei – con la “vecchia educazione civica” perde una
splendida occasione: tra tutte le cose che elenca sotto il titolo della nuova materia scolastica, non
pensa nemmeno per sbaglio di citare l’informazione sessuale e la lotta contro il pregiudizio e il
razzismo. Peccato! l’avrei applaudita, anche col rischio di farmi male (al cuore).