“L’atteggiamento del Vaticano ha del dilettantesco”

intervista a Alphonse Borras, a cura di Josyane Savigneau
in “Le Monde” del 7 marzo 2009 (traduzione: www.finesettimana.org)

Vicario generale della diocesi di Liegi, Alphonse Borras è professore di diritto canonico
all’Università cattolica di Lovanio dal 1996 e insegnante alla facoltà di diritto canonico all’Institut
Catholique di Parigi. A differenza di Hans Küng, che in un’intervista a Le Monde il 25 febbraio ha
espresso la sua opinione sulla revoca della scomunica di quattro vescovi integralisti, tra cui
monsignor Williamson, Alphonse Borras non è un contestatore in seno alla Chiesa cattolica.
Tuttavia analizza senza indulgenza questo caso, nel quale, secondo lui, il diritto penale della Chiesa
è stato “strumentalizzato”, e da cui bisogna “trarre un insegnamento”.
La polemica sorta dopo l’annuncio della revoca della scomunica di quattro vescovi lefebvriani
ha suscitato molte dichiarazioni contraddittorie sulla parola scomunica. È così oscura?
No. Dal XX secolo, la parola scomunica ha un senso tecnico. Appartiene al diritto penale della
Chiesa. Quindi, l’opinione ampiamente diffusa, secondo la quale i cattolici divorziati siano
scomunicati, è errata. La scomunica è una pena a seguito di un delitto grave, pregiudizievole per la
vita della Chiesa. Consiste nella privazione dell’esercizio di diritti e di doveri per l’autore del delitto.
Non è quindi un’esclusione dalla Chiesa, ma un allontanamento temporaneo dalla vita ecclesiale.
Perché temporaneo? Perché, nel momento in cui l’autore del delitto ha manifestato il suo
pentimento, ha, si dice, “messo fine alla sua contumacia” e ha diritto alla remissione della pena.
Ma allora, per quale delitto erano stati scomunicati quei quattro vescovi?
Unicamente per essersi lasciati ordinare all’episcopato senza mandato pontificio – cosa molto grave
per la Chiesa cattolica romana. Benedetto XVI ha tolto loro la scomunica per questi fatti.
Questa revoca di scomunica, che ha suscitato uno scandalo, quale reale interesse aveva? E
poiché si tratta di una faccenda di diritto penale della Chiesa, è veramente fondata dal punto
di vista del diritto?
Come canonista, io presumevo – fino a prova contraria – che ci si fosse assicurati delle condizioni
richieste dal diritto canonico. Non avevo neppure motivo di dubitare che a quel livello della Chiesa
cattolica le conseguenze giuridiche di questa remissione non fossero state prese in considerazione.
La mia prima impressione è quindi stata favorevole. La mia gioia si è presto rivelata molto ingenua
quando le reazioni al Decreto di revoca della scomunica hanno messo in luce ciò che io qualifico di
“dilettantesco” in questa revoca di scomunica.
Dilettantesco? È una parola forte. Eppure lei non è un contestatore…
È chiaro che per “porre fine alla propria contumacia”, bisogna non solo essersi veramente pentiti,
ma inoltre aver riparato in maniera appropriata i danni e lo scandalo o almeno aver promesso
seriamente di farlo. Su questa base, nel caso di cui ci occupiamo, mi stupisco della leggerezza con
la quale si è proceduto, e ogni canonista può legittimamente chiedersi se una scomunica rimessa
senza la garanzia di queste condizioni sia un atto valido nel senso giuridico del termine. Il vero
pentimento deve essere considerato un elemento sostanziale dell’atto di remissione.
Viste le reazioni al Decreto e l’atteggiamento degli scomunicati, ho dei motivi per dubitare di un
vero pentimento di ciascuno di essi. Certo, in una lettera del 15 dicembre 2008, il loro capofila,
monsignor Fellay, diceva di voler “restare cattolico” e “mettere tutte le – sue – forze al servizio
della Chiesa”, “accettare filialmente il suo insegnamento” credendo “fermamente al Primato di
Pietro e delle sue prerogative”. Sono termini sapientemente studiati, che curiosamente evitano
qualsiasi menzione del concilio Vaticano II e, in particolare, delle sue dichiarazioni in materia di
libertà religiosa.
Allora lei pensa che tutto questo sia solo un fatto di strategia. Ma allora qual è la vera
strategia del papa sul problema dei lefebvriani?
La Nota della segreteria di Stato del 4 febbraio dice che il papa “veniva benignamente incontro a
reiterate richieste da parte del superiore generale della Fraternità San Pio X” e aggiunge che “ha
voluto togliere un impedimento che pregiudicava l’apertura di una porta al dialogo”. Non è la
conferma che si trattava più del levare un… ostacolo che di una “remissione” di una pena inflitta in
seguito a un delitto? E la Nota prosegue sullo statuto futuro della Fraternità San Pio X, per la quale
il “pieno riconoscimento del concilio Vaticano II e del magistero dei papi”, da Giovanni XXIII a
Benedetto XVI, è una “condizione indispensabile”. Non si è messo il carro davanti ai buoi? Gli
stretti collaboratori di Benedetto XVI condividevano veramente la sua “fiducia nell’impegno” degli
interessati per un vero dialogo?
Io penso che il papa cerchi, come ha detto, di “consolidare le relazioni reciproche di fiducia,
intensificare e stabilizzare i rapporti” tra i lefebvriani e il Vaticano. Questo atto è presentato come
un “dono di pace” per promuovere l’unità. Lo stesso Decreto esprimeva la speranza del papa del
“vero riconoscimento del magistero e dell’autorità del papa” da parte dei lefebvriani.
L’atteggiamento di monsignor Williamson ha provato che non è affatto così. Del resto, la mancanza
di fermezza di monsignor Fellay, superiore generale della Fraternità San Pio X, ha mostrato la sua
incapacità ad assicurare la coesione tra gli interessati, ed anche il suo atteggiamento equivoco
riguardo alla sua adesione alla Chiesa cattolica e al suo insegnamento, soprattutto quello del
concilio Vaticano II.
Si è spesso sottolineato che Jospeoh Ratzinger, come prefetto della Congregazione della dottrina
della fede, poi come papa, ha sempre voluto la riconciliazione con i dissidenti lefebvriani. Ma
questo non lo si può fare a qualsiasi costo. Questo episodio dà l’impressione che il papa abbia
voluto liquidare il Vaticano II. Inoltre la mancanza di una risposta positiva da parte dei quattro
vescovi di fronte alla sua “mano tesa” fa pensare che il papa avesse sopravvalutato le possibilità di
un ritorno effettivo all’ovile e di un’accettazione sincera del Vaticano II. Benedetto XVI ha
sufficientemente valutato il “pentimento” dei vescovi lefebvriani e preteso la “riparazione
appropriata dei danni e dello scandalo”? La storia lo dirà. Intanto, una remissione abborracciata
mette in luce un’azione strategica pensata male.
Come è stato possibile fare un tale errore? E dire che il papa ignorava le dichiarazioni di
monsignor Williamson?
È proprio una faccenda inconcepibile. Agli occhi del giurista, non verificare la realtà del pentimento
significa strumentalizzare il diritto della Chiesa. In questo dilettantismo con finalità strategica c’è
una attuazione del diritto derivante da quello che la dottrina giuridica tedesca della fine del XIX
secolo chiamava Polizeistaat, ovvero lo Stato di polizia in cui il diritto è al servizio
dell’amministrazione. La maniera in cui questo dossier è stato gestito dalla Curia mostra una certa
confusione, amplificata dall’atteggiamento del vescovo Williamson, con la negazione della Shoah e
l’offesa del popolo ebraico.
Si può riparare?
Da questo episodio desolante bisogna trarre un insegnamento per la Chiesa cattolica del dopo
Vaticano II che, a giusto titolo, ricerca nella sua apertura agli altri – i non cattolici, i non credenti, i
non religiosi – un dialogo “in verità”. Non è la stessa esigenza di verità che dev
e prevalere
nell’accoglienza dei lefebvriani? Essere veri con i lefebvriani significa restare intransigenti sul
Vaticano II, poiché ne va della capacità della Chiesa di essere in ascolto di questo mondo di cui essa
è solidale. Ne va soprattutto dell’onore del Dio di Gesù Cristo e della sua apertura incondizionata
alla nostra umanità.