Il catalogo dei reati etnici

di Gad Lerner
in “la Repubblica” del 7 marzo 2009

Per conservare udienza (o meglio: audience), non più solo i politici ma anche gli studiosi ormai
rischiano di assoggettarsi al “clamore” della cronaca.
Così l’inchiesta sul cosiddetto “stupro di San Valentino” nel parco romano della Caffarella ha
scatenato un uso capzioso, falsamente oggettivato, della scienza statistica. Lo scopo? Catalogare la
criminalità in base alla sua matrice etnica, nazionale o religiosa nell’Italia descritta grossolanamente
come la Mecca del crimine. Lo so bene: chi denuncia la divulgazione strumentale di queste ricerche
viene subito accusato di negare l’evidenza al solo scopo di difendere la nefasta ideologia “buonista”.
O peggio viene tacitato come complice degli stupratori, ottuso al punto di ignorare la sofferenza
patita dalle loro vittime innocenti. Eppure bisogna pur dirlo, che si sta passando il limite.
In questa elaborazione di dati “politicamente scorretti” – e dunque di gran moda – consegue un
notevole successo il professor Luca Ricolfi, che su La Stampa non si stanca mai di ribadire la
propria assoluta neutralità di studioso. Da sociologo dotato di competenza tecnica, Ricolfi ha
elaborato le percentuali delle violenze sessuali denunciate nel 2007. Per trarne la seguente
conclusione: i romeni immigrati hanno una «propensione allo stupro circa 17 volte più alta di quella
degli italiani». Un divario, per giunta, in crescita. Sempre i romeni risultano a Ricolfi «2 volte più
pericolosi degli altri stranieri» quanto a rapine, «3-4 volte più pericolosi nei furti», mentre sono
«leggermente meno pericolosi» nel tentato omicidio e nelle lesioni dolose.
Non ho motivo di dubitare dell’esattezza di tali calcoli aritmetici. Semmai fa sorridere che in altri
interventi lo stesso (neutrale) Ricolfi raccomandi di evitare l’allarmismo e l’invenzione di
emergenze. Ma se questa ha da essere l’ispirazione, mi chiedo se l’autore non dovrebbe in futuro
dedicarsi a portare fino in fondo le conseguenze di tale metodologia applicata nella comunicazione
pubblica.
Non siamo forse interessati ad altre scoperte? Per esempio: pubblicare tutte le liste di propensione
reato per reato, magari distinguendo il grado di pericolosità su basi di reddito e mestiere, oltre che
di nazionalità? Altri magari gradirebbero che s’introduca pure un censimento degli italiani pericolosi
regione per regione: perché no? S’annidano più stupratori potenziali in Calabria o in Trentino Alto
Adige? In città o in campagna?
Onde evitare poi spiacevoli discriminazioni, sarà il caso di mettere in guardia l’opinione pubblica
riguardo alle illegalità cui sono più dediti gli stessi professori universitari e i giornalisti: suppongo
non ne manchino.
Naturalmente il sociologo che elabora con cura le sue statistiche (peccato che la grande
maggioranza degli stupri non vengano denunciati, inficiando la validità di quelle cifre suggestive) si
dichiara estraneo all’uso distorto che ne fanno i mass media; cui peraltro ha strizzato l’occhio
sostenendo che «l’Italia è diventata la Mecca del crimine». Definizione, quest’ultima, non proprio
scientifica e peraltro contraddetta dai dati del Viminale. Ma che importa? Giungeranno comunque
applausi scroscianti, e pazienza se fra gli estimatori c’è chi lucra politicamente e finanziariamente
dalla diffusione di falsità grossolane.
Ormai il senso comune è plasmato dalla disinformazione. Molti cittadini in buona fede sono
convinti che nel nostro paese la più parte degli stupri siano commessi da immigrati stranieri. In tv
passa frequentemente la falsa notizia che gli stranieri costituirebbero l’80% della popolazione
carceraria. Nel novembre 2007, dopo l’omicidio della signora Reggiani a Tor di Quinto, circolò sui
giornali la notizia che fossero di nazionalità romena addirittura il 75% delle persone arrestate nella
capitale dall’inizio dell’anno. Marzio Barbagli la definì «un’ondata di panico morale».
Con la scusa di controbattere un’inesistente rimozione (figuriamoci!) del pericolo rappresentato
dalla criminalità straniera, quell’ondata di panico morale si è cronicizzata sotto forma di isteria
collettiva. Fino a condizionare la serenità delle indagini di polizia, oltre che le scelte del governo.
Legittimando l’emotività della folla, o peggio mettendosi al servizio della politica, già in passato la
scienza si ritrovò a giustificare pregiudizi e a certificare la necessità di discriminazioni. Magari
senza accorgersene. Vi furono sociologi che, esibendo cifre all’apparenza inoppugnabili, additarono
la “sproporzione” con cui talune categorie occupavano posti di potere e altri delinquevano in
eccesso. Siamo sicuri che tale pericolo non si ripresenti?
Nessuno chiede di sottacere i problemi, né di censurare la ricerca sulla devianza. Ma la propaganda
degli indici di pericolosità etnici, nazionali o religiosi è robaccia contro cui le società più evolute
della nostra hanno già da tempo preso delle contromisure. Le persone responsabili hanno il dovere
di non rifugiarsi dietro alla falsa neutralità delle cifre, oltretutto elaborate con criteri parziali e
soggette a deformazione.