In un mondo che è cambiato, inventare nuove resistenze

colloquio con Liliane Kandel, a cura di Josyane Savigneau
in “Le Monde” dell’8 marzo 2009 (traduzione: www.finesettimana.org)

Il femminismo oggi? Non solo non è morto, ma si può dire che, in un certo senso, ha vinto.
Esattamente come il maggio ’68. E, esattamente come il maggio ’68, ha indotto dei cambiamenti
profondi, forse irreversibili nella società, nelle istituzioni, nei modi di vivere e di essere al mondo –
e insieme delle derive, degli sviamenti e delle perversioni. Resta il fatto che oggi nessuno più
oserebbe rivendicare di essere “sessista” o “misogino”.
Dire “abbiamo vinto” – e bisogna misurare l’immenso cammino percorso dagli anni ’60 – non
significa evidentemente che si è vinto tutto (su questo “tutto”, del resto, le concezioni divergono).
Delle donne muoiono sotto i colpi del loro compagno, la povertà, la disoccupazione sono
soprattutto femminili, i salari restano diseguali, il tempo dedicato al lavoro domestico ancor di più,
e le donne deputato o a capo di un’impresa continuano ad essere troppo rare: tutto ciò è risaputo,
denunciato, combattuto dai gruppi femministi, talvolta invano, talvolta vittoriosamente, e giustifica
il fatto che molte tra le militanti si definiscano “ancora femministe”.
È sufficiente? Siamo sicuri che questo costituisca o continui ciò che fu il Movimento di liberazione
della donna? Mi metterò contro molte persone, ma mi sembra che, se oggi c’è femminismo (o
pseudo-femminismo) ovunque, ci si può chiedere se ci sia ancora un movimento – nel senso del
movimento degli anni ’70. Si dimentica troppo spesso che quello non è stato solo un movimento
sociale: di collera, di rivolta, di solidarietà ritrovata delle donne tra di loro, ma anche, e
indissociabilmente, un movimento di scoperta permanente, di disvelamento, cioè di sovversione e di
rovesciamento dei paradigmi di pensiero dominanti. E questo si sviluppò in tutti i campi, in tutti i
modi di espressione, di intervento, tutte le forme di discorso, dai più profondi ai più
(apparentemente) stravaganti.
Prendiamo tre slogan dell’epoca.
“Lavoratori di tutti i paesi… chi vi lava i calzini?” Faceva ridere. Dei sociologi cercano, ancora
oggi, i complessi modi di articolazione del lavoro salariato e del lavoro domestico, “invisibile”.
“Una donna senza un uomo, è come un pesce senza bicicletta.” Una feroce dissacrazione del
famoso “obbligo all’eterosessualità”, sul quale tante pagine sono state scritte da allora.
E “io sono una donna, perché voi no?”, che fu una delle molte sfaccettature della decostruzione del
discorso, millenario, della differenza dei sessi, della sua naturalità.
Questa fu la straordinaria efficacia simbolica del Movimento. Gli slogan avevano, allora,
esattamente la funzione della battuta di spirito secondo Freud: e il riso delle donne fu senza dubbio
uno dei modi di ridere più politici, più filosofici – e più liberatori – che esistano.
Ma ecco che, oggi, non si ride più tanto. Innanzitutto perché l’effetto di scoperta, di conoscenza, di
sovvertimento dei paradigmi, la sorpresa gioiosa (e/o lo scandalo) che l’accompagnava, c’è stato: il
lavoro è fatto – e fatto bene. E poi, e soprattutto, perché il momento storico del riso è, senza dubbio,
superato. In altre parole: maggio ’68, il Movimento di liberazione della donna, furono dei
movimenti offensivi, di rimessa in discussione delle nostre società, delle loro incoerenze, delle loro
ipocrisie, dei loro vizi nascosti. E le società, in un certo modo, erano pronte ad ascoltarli. Ma
l’offensiva oggi non è più quello che ci vuole. Le sfide, i pericoli mortali per le donne (e non solo
per loro) si sono spostati altrove, in nuovi scenari, con una violenza tutta diversa, inimmaginabile
un tempo. Per esempio, nelle nostre periferie, dove si raccomanda ancora spesso di uscire o con il
velo o in tuta per evitare molestie, insulti, o aggressioni (è stata la forza di Ni putes ni soumises [né
puttane né sottomesse] di rivelare, appunto, il pesante silenzio su queste situazioni). Ma anche ad un
livello più alto della gouvernance internazionale, all’ONU, dove con il pretesto della lotta contro la
“diffamazione delle religioni”, contro la bestemmia, e in nome di una incerta “alleanza delle
civiltà”, si stanno imponendo a poco a poco le mozioni più oscurantiste, più retrograde, più
contrarie alle libertà (innanzitutto a quelle delle donne).
La violenza maschilista si trasforma. Il mondo è diverso. Appaiono nuove strategie, si inventano
altre resistenze, altre analisi vengono alla luce. Daniel Cohn-Bendit ha intitolato il suo libro Forget
68. La fedeltà non sarebbe, in fondo, di dire anche noi: “Forget MLF”?

Liliane Kandel è sociologa e membro del comitato di redazione di “Les Temps modernes”
Autrice di “Féminismes et nazisme” (éd. Odile Jacob) e coautrice delle “Chroniques du sexisme
ordinaire” (“Les temps modernes”, dal 1973 al 1983)