Una pallottola nel ventre

di Gideon Lévy
da Haaretz, 27 febbraio 2009 Traduzione di Maria Chiara Alba

Un uomo camminava con suo figlio di sette anni. All’improvviso arriva una jeep militare. Scacciano il bambino, portano via il padre. Alcune ore dopo, i vicini raccontano che è stato ucciso. Gli hanno sparato una pallottola nel ventre mentre era seduto per terra, ammanettato. “Ha tentato di prendere l’arma di un soldato dell’esercito israeliano” è la versione ufficiale. Come può un uomo ammanettato prendere un’arma? Forse con i denti. Grottesco. Comunque, la Divisione di Investigazione Criminale conduce l’inchiesta.

All’ombra della guerra a Gaza, i riservisti hanno probabilmente pensato che tutto fosse permesso. Sotto la sua ispirazione si può, e forse anche si deve, uccidere degli innocenti, anche in Cisgiordania. Sotto la copertura della guerra, hanno pensato che fosse anche permesso uccidere un Palestinese con le mani legate da manette in plastica; perché è sempre possibile pretendere che abbia tentato di prendere la loro arma, anche se era impedito da manette dalle quali non c’è quasi alcun modo di liberarsi.

Una pallottola nel ventre, sparata a bruciapelo. Ha messo fine alla vita di Yasser Temeizi, che aveva lavorato in Israele per tutta la sua vita adulta e nell’ultimo anno nella società Charash ad Ashdod. Titolare di un permesso di lavoro in Israele, questo giovane padre non aveva mai avuto a che fare con l’esercito israeliano.

I soldati l’hanno arrestato senza motivo, l’hanno percosso senza motivo sotto gli occhi del suo bambino, e alla fine l’hanno ucciso. Un mese e mezzo dopo questo incidente ripugnante, la Divisione di Investigazione Criminale non ha ancora concluso la sua indagine. Un’investigazione che avrebbe potuto essere chiusa in un’ora e che diventa eterna. Come al solito, non è stato interrogato alcun Palestinese. E come al solito, nessun soldato è stato arrestato, e certamente nessuno lo sarà. Una pallottola sparata a bruciapelo nel ventre, e che uccide.

I riservisti che hanno ucciso Yasser Temeizi sono a quanto pare già stati congedati, forse sono rientrati a casa, a cuor leggero e arricchiti dall’esperienza del loro servizio di riservisti. E’ vero che non hanno partecipato alla guerra a Gaza, ma hanno anch’essi ucciso, eccome! Perché no? Ecco qui, nella storia del loro servizio, il racconto e il bilancio del loro gesto, sul quale gli alti ufficiali dell’esercito israeliano hanno già deciso che si è trattato “di un incidente grave” che comporta “una serie di gravi mancanze”.

Trentacinque anni, abitante della borgata di Idna, ad ovest di Hebron, marito di Haife, padre di Firas, sette anni, ed Hala, due anni, Yasser Temeizi era un lavoratore devoto e diligente. Erano 15 anni che andava ogni mattina a lavorare in Israele. Negli ultimi mesi, lavorava a Ashdod, nella società Charash, che assembla strutture di caricamento per i camion. Sulla sua ultima busta paga è scritto: “Categoria del lavoratore: autonomia”, nella lingua dell’occupazione. Ammontare della paga: 3935,73 shekels.

Quando è scoppiata la guerra a Gaza, i suoi datori di lavoro gli hanno chiesto di non venire a lavorare fino ad un cessate-il-fuoco. Ma bisogna dar da mangiare alla famiglia, così Yasser Temeizi si presentava al “mercato degli schiavi” di Kiryat Gat, con la speranza di trovare un lavoro per uno o due giorni. Ed è ciò che ha fatto anche la mattina del 13 gennaio.

Ehoud Barak tentava, quel giorno, di far promuovere un “cessate-il-fuoco umanitario” di una settimana, i parà avanzavano verso la città di Gaza, un membro, il settimo, di una equipe medica era ucciso dalle nostre forze e Jimmy Carter pubblicava il suo articolo “Una guerra superflua”
Quella mattina, alle cinque e mezza, Yasser Temeizi è partito per Kiryat Gat, col permesso di lavoro in tasca.

Verso le nove e mezza, non avendo trovato lavoro, è tornato. Sua madre, Naife, gli ha preparato uno spuntino, poi lui ha proposto a suo figlio, Firas, di accompagnarlo fino all’oliveto di famiglia, situato a circa tre chilometri ad ovest della loro casa, ad alcune centinaia di metri ad est della barriera di separazione, all’interno dei Territori (occupati).

Hanno caricato l’asino con una bottiglia d’acqua e del cibo e si sono messi in cammino verso il piccolo appezzamento di famiglia. Se non c’è lavoro in Israele, almeno si occuperanno degli ulivi. Arrivati sul posto, si sono messi al lavoro. Improvvisamente, è arrivata una jeep militare e ne sono usciti quattro soldati. Il piccolo Firas li ha visti avvicinarsi a suo padre. Subito, c’è stato un scambio di parole. Firas non capisce l’ebraico, una lingua che suo padre padroneggiava molto bene, quindi non sapeva su quale argomento si discutesse. Poco dopo, ha visto i soldati far cadere suo padre a terra, sulla schiena, e poi legargli le mani dietro la schiena.

I soldati hanno ordinato a Firas di andarsene a casa. Anche il padre glielo ha detto e il bambino, atterrito, se ne è andato a piedi verso casa, a più di un’ora di cammino da lì. Per strada, dice, è stato attaccato da cani e sono stati dei pastori, dei vicini, a salvarlo. E’ stata l’ultima volta che Firas ha visto suo padre vivo. A terra e ammanettato, ma vivo.

Testimoni oculari hanno raccontato al padre di Yasser, Saker, un anziano con la kefiah, di aver visto i soldati colpire con i piedi suo figlio, che era ammanettato e aveva gli occhi bendati. I testimoni hanno tentato di intervenire, ma i soldati li hanno scacciati, minacciandoli con i fucili. Moussa Abou-Hashhash, un investigatore di B’Tselem, dispone di testimonianze concordanti. Alla fine, secondo i testimoni, i soldati hanno fatto salire Yasser Temeizi sulla jeep e sono partiti. Era l’ultima volta che dei Palestinesi lo vedevano in vita. Ammanettato, con gli occhi bendati, ma in vita.

Nel frattempo, Firas era arrivato a casa, dove ha raccontato che suo padre era stato arrestato. A casa, non se ne sono preoccupati eccessivamente: un Palestinese che si fa arrestare per niente, è routine. Erano persuasi che Yasser sarebbe stato liberato rapidamente e sarebbe rientrato. Infatti ha tutti i permessi e non è mai stato implicato in alcunché. Le ore passavano, era già pomeriggio e Yasser non era ancora rientrato. Verso le quattro sono arrivati dei vicini, dicendo che Yasser era stato ucciso e il suo corpo si trovava all’ospedale al-Ahli di Hebron.

Moussa Abou-Hashhash è corso all’ospedale, dove ha visto il corpo. Testimonia di aver visto segni di legacci ai polsi. La pallottola era entrata nel ventre e uscita dalla coscia. Secondo gli esperti questo è segno che Yasser Temeizi è stato colpito mentre era seduto. A bruciapelo. Il corpo è stato sottoposto ad autopsia all’istituto di patologia di Abou Dis e Moussa Abou-Hashhash ha avuto i risultati. La morte sarebbe dovuta ad emorragia prolungata. Yasser Temeizi non era morto, al suo arrivo all’ospedale. Sarebbe stato possibile salvarlo se gli fossero state praticate cure mediche per tempo.

Dieci giorni dopo, Youval Azoulay pubblicava su Haaretz un articolo su questo caso. Risulta che, poco tempo dopo questa morte, è stata condotta un’inchiesta dell’esercito, con la partecipazione del comandante di divisione, il brigadiere-generale Noam Tivon e il comandante della brigata, il colonnello Oudi Ben-Moha; l’inchiesta ha condotto a sospettare “una serie di mancanze” da parte dei soldati riservisti che hanno ucciso Yasser Temeizi.

Questi è stato effettivamente condotto al checkpoint di Tarkoumia e di là portato in una base vicina. L’hanno ucciso dentro una stanza, senza testimoni, dopo che egli avrebbe, a loro dire, tentato di prendere la loro arma. Nessuno spiega come un Palestinese ammanettato possa impadronirsi di un’arma né perché la reazione immediata consista nello sparare una pallottola vera e a b
ruciapelo. Responsabili dell’esercito hanno fatto sapere al giornalista Youval Azoulay che “la conduzione di questo caso, in particolare per quanto riguarda la necessità di assistenza ad un ferito, attesta che vi sono state mancanze gravi.

Si tratta di un incidente grave e non ci si può liberare dall’impressione che, se fossero stati sul posto dei soldati in servizio permanente, ciò non sarebbe successo. I riservisti semplicemente non sono competenti né addestrati per scenari di questo genere”. Scenari? Addestrati? Occorre, ed è possibile, essere addestrati per simili situazioni? A cosa deve essere indirizzato l’addestramento? Sul fatto che non si spara su di un uomo ammanettato? E che in presenza di un ferito si fa immediatamente ricorso alle cure essenziali?

Il portavoce dell’esercito ci ha comunicato questa settimana, un mese e mezzo dopo l’incidente: “Il fatto è oggetto di un’inchiesta condotta dalla Divisione di Investigazione Criminale. Dopo che sarà chiusa, le conclusioni saranno sottoposte al parere dell’Avvocato Militare”.

A Idna, il piccolo Firas torna a casa portando in spalla uno zainetto blu dell’UNICEF. Con la sua vocina dolce, racconta la storia dell’ultimo giorno di papà. Il bambino racconta il viaggio a dorso d’asino fino all’oliveto, i soldati che gettano a terra il papà sotto i suoi occhi e il suo ritorno, solo, a casa, con i cani che gli abbaiano contro e la sua paura. “Poi, mi hanno detto che papà era morto”, dice freddamente il bambino; e in lui sono ancora perfettamente riconoscibili i segni del trauma.
Per conoscenza ai soldati che uccidono un uomo ammanettato e per conoscenza ai loro comandanti e ai loro inquirenti.