PAPUA: RIPRENDE LA LOTTA PER L’INDIPENDENZA

di Eugenio Roscini Vitali
da www.altrenotizie.org

Di solito la Papua occidentale si associa all’immagine di luoghi remoti e selvaggi, aspre montagne ricoperte da una giungla fitta e rigogliosa e grandi isole circondate da straordinari arcipelaghi. Una diversità sopravvissuta all’evoluzione dei tempi, un mondo a parte ricco di simboli e tradizioni, dove la cultura si mescola con la magia e gli spiriti degli antenati influenzano le sorti dell’uomo. In realtà i 421 mila chilometri quadrati che costituiscono il settore occidentale dell’isola della Nuova Guinea, quello diviso nella provincia autonoma di Irian Jaya Barat e nella Papua occidentale, la parte conosciuta come provincia indonesiana di Irian Jaya, sono un territorio prevalentemente montuoso, in gran parte coperto da una folta foresta pluviale che in molte zone arriva addirittura ad essere impenetrabile: habitat ideale per una sorprendente varietà di specie vegetali ed animali ma anche rifugio dei gruppi indipendentisti che da quasi mezzo secolo lottano contro Jakarta per il diritto all’autodeterminazione.

Colonia olandese dal 1895, la Papua occidentale viene invasa dall’esercito indonesiano nel 1962: Jakarta, che non si arrende neanche di fronte al risultato elettorale che l’anno precedente a Jayapura ha sancito il successo dei partiti indipendentisti, chiede da tempo l’annessione della parte ovest dell’isola e per questo è disposta a sfidare l’autorità coloniale della regina Giuliana d’Olanda. Il 1° ottobre 1962 gli olandesi sono costretti a lasciare la Papua occidentale che dal 1° maggio 1963, dopo un periodo di transizione durante il quale viene amministrata dall’ONU, passa sotto il controllo di Jakarta. Per raggiungere il suo scopo il presidente indonesiano Haji Mohammad Suharto promette libere elezioni ed un referendum che permetta ai nativi di definire il futuro status della provincia.

Considerati dal regime indonesiano troppo primitivi per partecipare ad un referendum, gli 800.000 indigene che abitano la regione vengono esclusi dal voto; al loro posto l’amministrazione chiama 1.025 persone che sotto la minaccia e le intimidazione delle forze speciali di Suharto, il 2 agosto 1969, sono costrette ad esprimersi unanimemente in favore dell’annessione; una consultazione che lo stesso rappresentante dell’ONU, Ortiz Sanz, definirà una farsa. Non tutti gli abitanti della Nuova Guinea occidentale si piegano però all’occupazione e molti di loro, forti del fatto che gran parte dei membri delle Nazioni Unite non riconoscono la validità del controverso “Act of Free Choice”, il documento con il quale il governo di Jakarta prende possesso dell’ex colonia olandese, fondano l’Organizzazione Papua Libera (Organisasi Papua Merdeka – OPM), un movimento indipendentista che si oppone all’invasione indonesiana e rivendica il diritto all’autodeterminazione.

Tra il 1966 al 1998 il presidente indonesiano Suharto risponde alle richieste dell’OPM con una politica fortemente repressiva: arresti ingiustificati, soprusi e crudeltà di ogni genere causano la morte o la sparizione di oltre 100 mila persone; una violenta campagna di pulizia etnica che provoga la fuga di migliaia di civili e che porta gli indigeni delle otre 300 tribù al rischio di diventare una minoranza etnica. Tra il 1967 e 1970 i bombardamenti e le operazioni militari colpiscono le montagne di Arfak, il distretto del lago di Wissel e le aree di Ayamaru, Teminabuan, Inanuatan, Paniai ed Enarotali: massacri e rapimenti, sevizie e torture, stupri ed amputazioni ai danni di donne e bambini. Tra il 1974 e il 1978 l’esercito indonesiano attacca quasi 150 villaggi e massacra tutti coloro che vengono sospettati di collaborare con la guerriglia: migliaia i cadaveri rinvenuti nella giungla; colpiti i centri abitati di Arwam, Babuma, Jayawijaya, Rumbin, le comunità a nord di Biak, le regioni di Jayapura e Paniai, i distretti di Dosai, Lereh e Kelila, la zona mineraria di Akimuga, la valle di Baliem e l’area di Merauke. Tra il giugno e l’agosto del 1981 le truppe di Suharto lanciano l’operazione Clean Swee; a dicembre si contano quasi 15.000 vittime. Nel luglio del 1984 Jakarta da il via ad una campagna aero-navale contro i villaggi di Kecil, Taronta, Takar e Masi-Masi. Nel 1985 i distretti di Wissel, Panai, Monemane e Obano diventano teatro di nuovi massacri: in poche settimane quasi 3.000 morti.

Il cosiddetto periodo delle Riforme, che ha seguito il ritiro di Suharto dalla scena politica indonesiana (21 maggio 1998), garantisce alla regione occidentale della seconda isola più grande al mondo uno status di “autonomia speciale” che per molti aspetti non verrà mai pienamente applicato. Basti pensare alla spartizione del territorio in province, decisione che crea una situazione di forti squilibri socio-economici e che in molti casi da vita ad una forte opposizione. Alla ricerca di presunti militanti indipendentisti e ricorrendo ad un uso eccessivo e spesso brutale della forza, le truppe indonesiane continuano i rastrellamenti indiscriminati nei villaggi: nel 2001 viene rapito e assassinato Theys Eluay, presidente dell’OPM, ucciso dai membri del Kopassus (Komando Pasukan Khusus), unità delle forze speciali addestrate dagli Australiani che nel sud-est asiatico sono conosciute per le azioni di repressione e i massacri perseguiti nella Nuova Guinea Occidentale, in Malaysia e Timor Est. Il mandante dell’omicidio rimane oscuro ma la connivenza del governo è palese: arrestati e processati, nel 2002 i presunti responsabili dell’omicidio verranno condannati a due anni di carcere.

Per Jakarta la provincia separatista rappresenta quello che per il Marocco è il Sahara Occidentale o per la Russia è il Caucaso o per la Cina sono le regioni Himalayane: un enorme bacino di ricchezza. Immense miniere di oro, rame e nickel che l’Indonesia ha dato in concessione alle multinazionali anglo-americane, giacimenti controllati a vista dall’esercito che fa della Papua occidentale una delle zone più militarizzate del mondo. Favolosi profitti che hanno visto Suharto dividere la fetta con il gota del capitalismo mondiale: compagnie statunitensi, giapponesi ed europee che si sono spartite miniere e foreste in cambio di appoggi politici, come il caso dell’invasione di Timor Est, autorizzata da Segretario di Stato americano Henry Kissinger che, guarda caso, ha fatto parte consiglio di amministrazione della compagnia mineraria Freeport-McMoran.

Lontana dall’ottenere un accordo politico, la guerriglia indipendentista ha cercato per più di quarant’anni di fermare con archi, frecce e vecchi fucili, gli abusi e le violenze delle famigerate Brigate Mobili (Brimob) della polizia indonesiana, armate insieme all’esercito dai governi occidentali. Mezzo secolo di lotte che, nonostante gli scarsi risultati e l’indifferenza di gran parte della comunità internazionale, non hanno portato i separatisti a demordere. Dopo alcuni anni di flebile attività, nel 2009 gli attacchi organizzati dall’OPM sono infatti ripresi e dall’inizio dell’anno si sono contate numerose azioni, l’ultima delle quali ha visto i ribelli uccidere un soldato del 754° battaglione durante un agguato sferrato contro un’unità dell’esercito che stava svolgendo un servizio di pattugliamento nell’area di Tigginambut, distretto di Puncak Jaya.

La polizia, che a chiesto l’applicazione del coprifuoco, ritiene che i separatisti siano anche responsabili della morte di due autisti di microtaxi (motocarrozzelle a tre ruote) e dell’attacco avvenuto a gennaio contro un distaccamento delle forze di sicurezza nel quale è rimasta ferita la moglie di un ufficiale e sono state rubate alcune armi e munizioni. Il governo indonesiano è certo che gli attivisti vogliono boicottare le prossime elezioni politiche di aprile e che il leader del movimento, Goliath Tabuni, stia cercando di creare le condizioni per una rivolta. Quello che è certo è che a 3.200 chilometri a sud-est d
i Jakarta c’è ancora qualcuno che lotta perché le tribù della Papua occidentale possano opporsi alle devastazioni delle loro terre e perché possano decidere liberamente del loro futuro.