La ragione non c’entra col relativismo dei valori

di Roberta De Monticelli
da “il manifesto”, 21 marzo 2009

Come mai la questione del testamento biologico suscita uno scontro così appassionato sull’arena
pubblica? Anzi, perché colpisce la sensibilità di ciascuno di noi al punto da indurre, molto più di
altre questioni, anche le persone solitamente meno coinvolte nel dibattito pubblico o quelle meno
interessate alla politica quotidiana a misurarsi, prendere posizione, e comunque a soffrire? E perché
proprio su questa questione le attuali forze dell’opposizione si sono così tragicamente divise? Credo
che le risposte a queste due domande siano fra loro molto legate. Tanto per cominciare, la questione
tocca quanto c’è di più profondo e prezioso in ciò che ogni persona è. Vale a dire che la posta in
gioco è molto alta, ed è legata a quella che chiamerò la parte più personale dell’esperienza morale,
quella propriamente legata all’identità morale di ciascuno. Inoltre manca – mediamente almeno –
nell’universo culturale pur variegato delle forze d’opposizione, o del progressismo democraticoliberale,
la consapevolezza veramente chiara del fatto che laicità non implica relativismo. Una
consapevolezza che, sola, potrebbe evitare divisioni interne alle forze di opposizione – e la cui
assenza è davvero tragica. Perché un pensiero che sia insieme laico e non relativista in materia di
valore sarebbe la sola base solida e limpida di quel rinnovamento del pensiero sui valori che da
molto tempo è il desiderio ancora mai esaudito (la «questione morale», dai tempi di Enrico
Berlinguer) lasciato in eredità alla sinistra europea – o forse, più semplicemente, all’umanità
europea.
C’è un modo di pensare che il ‘900 ci ha consegnato, e in base a cui ragiona la maggior parte delle
persone che hanno a cuore la libertà di coscienza e la laicità dello Stato. È la tesi che la maggior
conquista della civiltà moderna, l’autonomia della morale fondata sulla coscienza personale e non
sull’autorità di chi si proclama interprete della volontà di Dio o del popolo, o della legge di natura,
comporta, nelle nostre società pluraliste, il relativismo dei valori. Dall’altra parte sembra esserci
soltanto la tendenza autoritaria, oggi approvata da una maggioranza degli italiani, che a
quell’autorità affida la scelta, rigettando ogni responsabilità personale insieme con l’angoscia della
libertà che vi è connessa. E questa angoscia prorompe a volte (caso Englaro) in urla di oscena
violenza («assassino!»).

Ma la ragione non c’entra

La sola cosa che in questo quadro non c’entra è la ragione. La ragione non c’entra nulla col
relativismo che gli uni rivendicano, e dal quale gli altri si sentono abbandonati a se stessi. Non
c’entra con i soggettivismi, gli scetticismi, i nichilismi, i politeismi, i pensieri tragici e i
decostruzionismi – in breve, l’intera neo-sofistica del pensiero pratico – che il secolo scorso ci ha
lasciato in eredità, quando, con pochissime eccezioni, ha decretato che dell’etica, del diritto, della
politica – non ci può essere una base oggettiva.
Musil ha scritto che «ciò che chiamiamo “cultura” non è soggetto al criterio di verità, ma nessuna
grande cultura può fondarsi su una falsa relazione alla verità». Purtroppo, una falsa relazione con la
verità corrode una gran parte della nostra cultura progressista. Questa falsa relazione si rende
evidente già nel linguaggio comune, con espressioni apparentemente innocue e in effetti assurde
come «la mia verità», «la tua verità». Se le si intendesse alla lettera, ogni volta che io e te
sosteniamo posizioni opposte ci sarebbero due proposizioni p e non-p, entrambe vere. Senza il
principio di non contraddizione sarebbe vero tutto e il contrario di tutto, cioè non ci sarebbe alcuna
verità. In particolare nessuna verità in materia di valore, ad esempio su ciò che è giusto o ingiusto. E
in effetti questa è la tesi per eccellenza del nichilista: del buon vecchio Nietzsche ad esempio («non
esistono verità… ma solo interpretazioni»). Purtroppo siamo spesso così sbadati da non accorgerci
che affermare questa tesi è affermare come vera una proposizione, nel momento stesso in cui si
nega che esistano verità. Naturalmente quelle sciocche espressioni, «la mia verità», «la tua verità»
non sono intese alla lettera, ma all’incirca come sinonimi di «la mia opinione», «la tua opinione».
Questo però non è meno imbarazzante, perché senza una distinzione fra opinione e verità non è
possibile credere che esistano conoscenze. La riduzione di ogni pretesa conoscenza in materia di
valori all’opinione di qualcuno coincide con il relativismo. Non c’è dubbio che questo relativismo
sia diffuso, o addirittura teorizzato, fra i progressisti europei e italiani, a volte con l’appoggio di
famosi filosofi che dichiarano «violenta» la verità o che oppongono la verità alla carità. Il
relativismo si presenta come bandiera di tolleranza e di laicità, e come la sola posizione coerente
con il pluralismo culturale e dei valori interno alle nostre società, e si pretenderebbe come la sola
premessa a un ordinamento non teocratico o comunque non illiberale della società civile. Eppure, la
dottrina della verità che Dio vuole e la chiesa rappresenta, e quella delle molte verità relative,
condividono una identica erronea premessa: che il vero e il certo coincidano. Che in questa materia
sia solo questione di fede. Che poi si ragioni come un papa, per il quale la fede è una e dunque è una
anche la verità, o come chi ammette un «politeismo dei valori», in entrambi i casi si esclude il terzo
termine della conoscenza: che ci siano ragioni accessibili a chiunque, indipendentemente dalla sua
fede, per riconoscere una tesi come vera. Il relativista attaccherà «la ragione considerata come
un’autorità oggettiva» (violenza!), e il fondamentalista negherà l’uguale competenza morale del non
credente. Entrambi risponderanno con un no deciso alla questione fondamentale del nostro tempo: è
possibile una fondazione razionale del giudizio di valore nell’epoca della pluralità degli
orientamenti, quindi delle diverse identità morali e ideali delle persone e delle comunità? È
possibile una ragione pratica in un mondo plurale? Come si potrebbe rispondere di sì? Dove va a
finire allora la «questione di vita o di morte» che riguarda ogni scelta seria? Dove va a finire allora
l’identità delle persone, definita per ciascuno dalle sue priorità di valore? Dove va a finire il
pluralismo? Questa è la vera sfida cui dobbiamo rispondere: e possiamo. Dobbiamo imparare a
distinguere fra ethos – cioè l’identità morale di ciascuno, fonte della sua possibile espressione, della
sua identità come della ricchezza o diversità dei beni che ne vengono al mondo – ed etica, cioè
quello che è dovuto da ciascuno a tutti. Non ogni ethos, dunque, può andare, ma solo quelle
compatibili con l’etica. Bene, e chi stabilisce l’etica? Qui non si sfugge: quello che è dovuto da
ciascuno a tutti è il diritto a vivere ed esprimersi secondo il proprio cuore e la propria fede, così
come lo si chiede per se stessi. E proprio per ottemperare a questo dovere abbiamo il diritto: che in
tutti i casi in cui non sia evidente alla ragione di ognuno cosa si debba fare, o perché il caso è troppo
complesso o perché riguarda gli stili di vita personali (la sfera delle libertà civili), serve a tutelare la
libertà di coscienza e scelta di ognuno. E naturalmente, non a sostituirvisi, decidendo per lui.
Quest’ultimo uso della legge non sarebbe un eccesso di etica, ma la perfetta negazione dell’etica.

Un pro
blema fattuale

E con questo possiamo trarre la nostra conclusione sull’attualità. Il nesso fra laicità, anti-relativismo,
etica e diritto che abbiamo abbozzato dovrebbe sgombrare il terreno dall’equivoco grossolano ma
pervasivo che ha gravato sul dibattito pubblico durante e dopo gli sviluppi della vicenda Englaro. Il
fatto che le questioni relative alla fine della vita tocchino l’identità morale delle persone non
significa assolutamente che sia stato giusto, in sede politica, lasciare la decisione a favore o contro il
disegno di legge Calabrò alla cosiddetta «libertà di coscienza» dei singoli parlamentari. Cosiddetta,
perché parlare di «libertà di coscienza», qui, vuol dire mettersi a una supposta equidistanza dal sì e
dal no, cioè accettare la tesi che ci siano in fondo due opposti radicalismi pronti a sfruttare
politicamente una questione eminentemente intima, privata. E questa tesi mi pare del tutto falsa. In
effetti, la sola questione in gioco qui è se una persona abbia o non abbia il diritto di rifiutare un
trattamento di sopravvivenza forzata, (che viola addirittura l’habeas corpus con l’introduzione
violenta di un sondino) come la nostra Costituzione ci assicura. La sola questione è dunque se un
progetto di legge che invece introduce l’obbligatorietà del trattamento di sopravvivenza forzata sia o
non sia anti-costituzionale. Questa a me pare una questione di fatto, e non una questione di
coscienza.
L’altra parte, su questo punto, è più chiara. Ruini ha affermato: «la Chiesa non può consentire che si
rivendichi, nello stesso tempo, l’appartenenza al cattolicesimo e l’autonomia nel decidere sulla
propria vita». Dunque a Ruini è evidente che la legge Calabrò imporrà a tutti, compresi i non
cattolici, un comportamento dettato dall’«appartenenza al cattolicesimo». In conclusione: il Pd
propone «libertà di coscienza» sulla questione se gettare a mare il principio di laicità dello Stato.
D’altra parte, manca a tal punto la chiarezza sul fatto che laicità non implica relativismo –
probabilmente anche nelle persone in buona fede – che quei cattolici i quali ritengono che
l’indisponibilità della propria vita sia una verità morale (e riescono a sorvolare sull’imbarazzo che
dovrebbe suscitare il disporre di quella altrui contro la sua propria volontà), si convincono che è
questo il prezzo da pagare per tutelare dal relativismo la verità morale di cui sono certi. Dico che
può esserci buona fede, in questo, perché è davvero così odiosa la tesi che tutti i giudizi di valore si
equivalgono, (cioè il nichilismo morale) ed è davvero così distruttiva di ogni libera espressione
personale (perché non c’è fioritura personale al di fuori di una ricerca di verità), che alcuni possono
veramente arrivare a credere come, piuttosto di cedere a questa deriva nichilista, sia meglio
accettare che l’anima ci venga salvata per forza. Con mezzi meno cruenti, certo, ma più macabri
ancora di quelli dei missionari che durante la Conquista battezzavano per forza i nativi ribelli prima
che morissero, uccisi dagli Spagnoli. Ma soprattutto con l’esito inconsueto di gettare a mare l’intero
fondamento della tradizione morale cristiana – la libera volontà – e insieme l’intero fondamento della
democrazia liberale – la libertà ed eguaglianza in dignità e diritti. Libertà morale e libertà civile
insieme: ecco la posta in gioco.