Come si riducono gli spazi di libertà fra le righe di una legge

di Maddalena Gasparini
da www.womenews.net

Il processo del morire fra direttive, disposizioni, “testamento biologico”. Un orrore di disegno di legge: “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento”.

Direttive o dichiarazioni anticipate? La differenza non è da poco, perché le prime esprimono una volontà, le seconde un’opinione; le prime chiedono rispetto, le seconde “vanno tenute in conto”.

Comincia con un conflitto fra parole la distanza dell’Italia dalla comunità scientifica (e giuridica) internazionale. Il Comitato Nazionale di Bioetica infatti nel suo parere sull’argomento adotterà il termine “dichiarazioni” (ripreso nel disegno di legge del governo) quando la letteratura internazionale parla di advance directives, direttive anticipate. Nel linguaggio comune invece, grazie ai media, è prevalso il termine “testamento biologico”. Traduzione impropria dell’inglese living will, testamento sulla vita o sul vivente; che sia perché dalle nostre parti la vita biologica vale più della vita personale?

Ma di cosa si tratta concretamente? Le direttive anticipate (DA) rispondono al desiderio di estendere le preferenze e i valori che hanno indirizzato tutta una vita a una fase in cui non si è più in grado di esprimerle. Immaginare, mentre si è in buona salute trattamenti e cure che possono allungare la vita e valutare se siamo disposti a vivere in condizioni di dipendenza e sofferenza è faticoso in una civiltà che ancora non riconosce la cura come un bisogno di tutti e un’attività cui riconoscere valore, materiale e simbolico e non è facile nemmeno pensare a una malattia che potrebbe portarci alla morte, in una civiltà dove la morte non violenta è rimossa e quella violenta ridotta a icona.

E tuttavia a molti è capitato di essere chiamati dai medici al letto di una persona cara per contribuire a decisioni difficili, anche per gli operatori della salute. Può succedere per un evento acuto, per esempio un ictus o un grave trauma, o per una malattia che –come la demenza- comporta un lento declino della capacità. Per questo molti chiedono di poter dire anticipatamente come affrontare gli ultimi mesi di vita.

Nei paesi sviluppati l’allungamento della vita e la disponibilità di cure adeguate consegna il tempo e il modo del morire (come del nascere) alla medicina; sempre più parliamo di “processo del morire” che può essere sospeso, dilatato, accelerato. Già, ma a chi affidare le decisioni al proposito?

In tempi antichi l’approssimarsi della morte allontanava il medico, che –accettando il limite anche della propria “arte”- lasciava che il processo si concludesse “secondo natura”. Oggi la maggior parte delle morti avviene in ospedale e il loro modo e momento è influenzato da decisioni mediche in non meno del 25% dei pazienti ricoverati nei reparti di degenza ordinaria e nel 70-80% dei casi nei reparti di terapia intensiva.

Se a questo aggiungiamo che all’approssimarsi della fine della vita ben l’85% delle persone perdono la capacità di comprendere le informazioni e di comunicare le proprie preferenze, di dare cioè il proprio consenso informato, si comprende l’importanza di strumenti che possono aiutare medici e famigliari non tanto a decidere “per” il malato quanto “con” il malato, sulla base delle preferenze e dei valori espressi quando è ancora in grado di farlo.

Se partiamo dall’idea infatti che ciascuno è libero di disporre di sé in merito a interventi terapeutici o assistenziali, la possibilità di esprimerle per tempo anche ai propri cari (proprio con ha fatto Eluana) eviterà che vengano fatte (da altri, famigliari o medici) scelte che per eccesso o per difetto sono contrarie al modo di intendere la vita di quella singola persona. In un recente incontro su questo tema, mi ha colpito il racconto di una “figlia” che raccontava come i suoi genitori avessero consegnato a lei volontà opposte: l’uno rifiutava ogni trattamento in caso di malattia terminale (salvo le cure palliative), l’altra chiedeva di “fare tutto il possibile” per mantenerla in vita.

La legge in discussione da oggi (24 marzo) in parlamento può garantire il rispetto di opzioni diverse e tanto distanti?

Il primo articolo (un po’ come nella legge 40) pone le premesse perché ciò non avvenga. Con un’interpretazione discutibile degli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione infatti, dichiara (art 1, comma 4) che “La Repubblica riconosce il diritto alla vita inviolabile ed indisponibile, garantito anche nella fase terminale dell’esistenza e nell’ipotesi in cui il titolare non sia più in grado di intendere e di volere”.

Il corsivo (mio) sottolinea la gravità dell’affermazione: la vita non è disponibile a chi la vive. Tanto che (art 1, comma 5) “La Repubblica … garantisce la partecipazione del paziente all’identificazione delle cure mediche più appropriate, riconoscendo come prioritaria l’alleanza terapeutica tra il medico e il paziente” ma si affretta nei successivi articoli (e in particolare nel quinto – “Contenuti e limiti delle dichiarazioni anticipate di trattamento”)- a elencare le proibizioni a medici e malati.

E’ vero che (art 5, comma 4) “ può essere esplicitata la rinuncia da parte del soggetto ad ogni o ad alcune forme particolari di trattamenti sanitari in quanto di carattere sproporzionato, futili, sperimentali, altamente invasive e invalidanti” ma evita di ricordare che la decisione sui trattamenti (se siano futili o sproporzionati o gravosi) non può prescindere dal coinvolgimento dell’interessato.

Per spiegare meglio questo concetto ricorrerò a un esempio (che traggo da uno scritto di Defanti sul cosiddetto accanimento terapeutico): “in un paziente operato di un tumore maligno del polmone si manifesta una metastasi a carico della colonna vertebrale che comprime il midollo spinale e provoca la paralisi degli arti inferiori e della vescica oltre ad intensi dolori …

Mettiamo ora che, a seguito di un cateterismo vescicale, reso necessario dalla paralisi, subentri una grave infezione con setticemia. Il malato è altamente febbrile e a rischio di vita. Se non trattato tempestivamente con terapie antibiotiche mirate e a dosi massicce è probabile che vada incontro alla morte. Se viene trattato secondo le regole dell’arte, ha buone probabilità di guarire dall’infezione e di sopravvivere per qualche settimana o magari per qualche mese, ma sempre paralizzato e sopportando intensi dolori e il disagio di altre complicazioni dovute alla paralisi degli arti inferiori.” Come giudicare e soprattutto a chi il compito di giudicare se il ricorso agli antibiotici in un caso di questo genere sia futile o sproporzionato?

Molte persone sarebbero inclini a pensare che la somministrazione degli antibiotici rientri nella categoria dell’accanimento terapeutico, in quanto il suo risultato consente sì di prolungare la vita, ma rischia di aggravare-prolungare la sofferenza del malato; eppure … la terapia antibiotica è molto probabilmente efficace, non è sperimentale,e non è particolarmente gravosa.

Il giudizio sulla sua opportunità non può dunque venire che dalla persona malata, dalle sue preferenze. L’art 3 -“divieto di accanimento terapeutico”- suona pertanto grottesco e infatti al comma 2 precisa: “Il divieto di accanimento terapeutico non può legittimare attività che direttamente o indirettamente, per loro natura o nelle intenzioni di chi li richiede o li pone in essere, configurino pratiche di carattere eutanasico o di abbandono terapeutico”.

Ma non basta (ancora). La Sig.ra Maria che decise di non farsi amputare la gamba pur sapendo di andare incontro alla morte, sulla base di questa legge, una volta incosciente,
sarebbe stata obbligata a subire l’amputazione, intervento efficace ma sproporzionato agli occhi della signora, non a quelli dei medici. Il principio di indisponibilità della vita introdotto nel ddl è così un attentato non solo alle disposizioni anticipate di trattamento ma allo stesso consenso informato cosicchè il diritto alla salute si tradurrà in un obbligo al trattamento.

Con il comma 6 dell’art 5 entriamo nell’assurdo: la discussione sulla natura della nutrizione e idratazione artificiali. Malgrado il diverso avviso delle Società scientifiche italiana e europea di nutrizione (SINPE e ESPEN), i difensori della vita anche contro chi la vive sostengono che siano semplici misure d’assistenza: “Alimentazione ed idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze e non possono formare oggetto di Dichiarazione Anticipata di Trattamento”. Ma questo è sufficiente a dichiarale obbligatorie? L’alimentazione naturale si può rifiutare – lo sciopero della fame è un diritto garantito– e nessuna azione può essere imposta, salvo esplicito ricorso a una forma di violenza.

L’art 6 giunge a imporre una revisione triennale delle direttive anticipate: “Salvo che il soggetto sia divenuto incapace, la Dichiarazione ha validità di tre anni, termine oltre il quale perde ogni efficacia. La DAT può essere indefinitivamente rinnovata, con la forma prescritta nei commi precedenti” cioè dal notaio! Anche se un emendamento fa riferimento al medico curante piuttosto che al notaio e a 5 anni invece di 3, questo genere di obbligo avrà l’effetto di rendere più complicata e improbabile la stesura della direttive.

Il fiduciario (Art 7, comma 4) “in stretta collaborazione con il medico curante con il quale realizza l’alleanza terapeutica, si impegna a garantire che si tenga conto delle indicazioni sottoscritte dalla persona nella Dichiarazione Anticipata di Trattamento”. Un modo elegante per dire che le direttive anticipate non vincolano né il fiduciario e ancor meno il medico che (Art 8, comma 4 e 5): “4. Nel caso in cui le DAT non siano più corrispondenti agli sviluppi delle conoscenze tecnico-scientifiche e terapeutiche … può disattenderle, motivando la decisone nella cartella clinica. 5. Nel caso di controversia tra fiduciario ed il medico curante, la questione è sottoposta alla valutazione di un collegio di medici: medico legale, neurofisiologo, neuroradiologo, medico curante e medico specialista della patologia, designati dalla direzione sanitaria della struttura di ricovero. Tale parere non è vincolante per il medico curante, il quale non sarà tenuto a porre in essere prestazioni contrarie alle sue convinzioni di carattere scientifico e deontologico”.

Insomma questa legge rende le direttive anticipate complicate e inutili. Ma ridurrà gli spazi già esigui di libertà in ossequio agli imperativi Vaticani: “Spetta alla politica approvare e varare senza lungaggini o strumentali tentennamenti un in equivoco dispositivo di legge che preservi il paese da altra analoghe avventure”. L’avventura è quella di Eluana, che ha atteso 17 anni per vedere rispettata la proprie volontà e che ha potuto morire prima dell’approvazione di questa legge.