DONNE, VITTIME DI UN GENERE DI VIOLENZA

di Rosa Ana De Santis
da www.altrenotizie.org

I numeri, le percentuali, le stime sfilano copiose sulla storia delle donne. Sotto i veli del regime talebano, nelle case delle città metropolitane, nel deserto dell’Africa Subsahariana, sotto il fuoco dei conflitti civili o internazionali, le confessioni e i racconti – disperatamente – si assomigliano. Lo documenta l’ONU, Amnesty International, le ONG impegnate nella cooperazione internazionale, Medici Senza Frontiere, l’Organizzazione Mondiale della Sanità e tante altre sigle eccellenti, tutti gli osservatori internazionali deputati al controllo, alla verifica, al conteggio scrupoloso degli abusi, della discriminazione, della povertà delle madri e delle figlie.

Delle spose bambine e delle ammalate. Dati ONU dicono che il 70% delle persone che vivono in assoluta povertà sono donne. Proprietarie dell’1% delle terre, ne lavorano l’80% arrivando a una differenza di retribuzione salariale con gli uomini di circa il 30, il 40% in meno. Il 57% dei piccoli che sono senza alcuna scolarizzazione sono bambine. Così nasce e si mantiene il dominio e quindi il controllo dei padri e dei mariti. La rappresentanza politica delle donne raggiunge oggi un misero 18,4%, non risparmiando pesanti disparità anche nei Paesi che vantano longeve tradizioni di sovranità parlamentare. E i numeri delle malattie sono ancora più spietati.

In Africa Subsahariana per ogni 2 uomini ci sono 3 donne infette dal virus dell’HIV. Sottratte per egemonia culturale dei maschi a ogni possibilità di tutela e protezione, in particolar modo nei villaggi lontani dai centri urbani, lì dove gli uomini nella promiscuità sessuale, accentuata dai numeri di una crescente prostituzione, vanno a contagiarsi. Queste stesse donne, malate di HIV con al seguito carovane di figli spesso sieropositivi, giovanissime, dedicano circa 40.000 milioni di ore all’anno per procacciarsi acqua. Pochi fortunati villaggi sono dotati di pozzi. Per lo più al mattino, ai margini di quelle poche carreggiate malmesse dove le auto corrono velocissime lasciando spesso uccisi ai margini i bambini che camminano ogni giorno per andare a scuola, lì si vedono spesso le donne procedere instancabili per cercare l’acqua. Sulla schiena, avvolto da stoffe colorate c’è l’ultimo nato, e loro, curve, vanno verso il lago, dove c’è. Verso il deserto, dove non c’è altro.

E poi le donne in guerra, le vittime più numerose delle carneficine. Stuprate come bottino di guerra, in balìa dei vincitori o di chi solo un giorno prima era un pacifico vicino di casa. Nella guerra in Bosnia il conflitto etnico si è consumato non soltanto nei cieli e sotto i bombardamenti. Il marchio dell’etnia era spesso il sangue di una donna. E quasi 50.000,00 sono state violentate per questo. Gli eserciti dei bambini soldato vedono arruolate anche le bambine. Asservite ai desideri dei superiori, possono astenersi dalle operazioni belliche, offrendo in cambio la prigionia del corpo e una vita di abusi.

Denuncia Medici Senza Frontiere che in Sudafrica ogni 26 secondi una donna viene stuprata. La ferita inguaribile della violenza domestica continua a mietere vittime impunemente. Invisibile allo Stato e alle piazze riguarda ben il 75% delle donne che hanno subito violenza. Una donna su tre è vittima di questa guerra innominata, per mano di una familiare o di un agente dello Stato. Il 70% di quelle assassinate, lo sono per mano di mariti o ex o familiari, cifre che superano le morti per cancro o per incidenti stradali. Così è morta Hina Saleem, nel 2006 in Italia, uccisa a colpi di bastone perché colpevole di voler vivere “all’occidentale”.

Un’uccisione meditata, quasi un dovere, consumata senza fretta, intervallata dalla pausa di una sigaretta e di un piatto di carne, per mano di suo padre e di un cognato. E’ così che la scusa della cultura diventa la menzogna di un alibi onorevole per ribadire l’unica categoria che non conosce differenza culturale: il controllo delle donne e la loro sottomissione. In modalità diverse: le più selvagge e le più silenziose. E poi la peste del turismo sessuale che conta i numeri delle nuove schiave. Haiti, un esempio di povertà assoluta, dove la conta della vergogna non si arresta.

La tesi tradizionale è che la violenza sulle donne sia fisiologica nel paradigma della supremazia del patriarcato. Il fine, di preistorica memoria, è di controllare colei che ha facoltà naturale di generare e che nel corpo mostra l’evidenza di una superiorità. Il patriarcato mediante l’utilizzo della forza fisica e dell’anatomia genitale mantiene il dominio, con i mezzi dello stupro, ma non solo con questi. La violenza si articola su un lessico concettuale di simbologie e di azioni solo formalmente non discriminanti che inglobano e vanno oltre la dinamica isolata dell’abuso sessuale. La questione della violenza nelle sue varie manifestazioni non prescinde mai, chiaramente, dal contesto sociale in cui si consuma.

E’ violenza anche quella che ispira il diritto e la legge. Il controllo sul corpo e la limitazione della libertà della madre che ispira tutto l’armamentario paracattolico e paternalistico della legge 40, per fare un esempio di casa nostra. E’ controllo sulle donne l’invito ai blitz delle ronde dei padri e dei mariti. E’ violento l’avvertimento a proteggerle dallo straniero, offrendo un’assoluzione collettiva di fatto per i mariti. Secondo Tamar Pitch, voce del femminismo giuridico, la violenza sulle donne, nel contesto occidentale, sta diventando l’indizio della crisi del patriarcato più che la sua conferma.

Le libertà femminili avanzano e la consapevolezza, sempre più patrimonio femminile, inizia a corrodere dal di dentro anche gli assiomi della presunta neutralità con cui l’uomo ha mantenuto il suo primato. Non è neutro il diritto, né il suo linguaggio, non è neutro il pensiero filosofico, né la scienza medica o la farmacia. Non è neutra la politica, anche per una matematica inferiorità di presenza e per un autoconvicimento generale che vede il pubblico delegato al maschile, in un’esasperazione e distorsione penalizzante del pensiero della differenza di cui spesso sono autrici le stesse donne. Tutte quelle che non votano le altre donne.

Ma il patriarcato trema, a sentire T.Pitch, ed è stato necessario ricorrere alla categoria “dello straniero stupratore” per ogni volta in cui una donna ha smesso di avere paura. E non è un caso che questo cambiamento avvenga ora che il pensiero delle donne ha abbandonato gli argomenti della protesta e della rivendicazione contro o delle tesi anti, diventando pensiero femminile con autonomi sistemi concettuali, libero dalla ricerca ossessiva dell’origine: il pensiero degli uomini ha oscurato quello delle donne? O quello delle donne, anche quando ha costruito la teoria della differenza, è stato comunque costretto a ricorrere alla filosofia degli uomini, mutuando i paradigmi dei maschi, uno su tutti la filosofia di Derrida?

Sia come sia, è certo che il pensiero delle donne offre diversi linguaggi per le diverse battaglie che incontra. Il più capace, perché fondato sulla differenza assoluta, di saltare nel tempo o tra paesi lontani, privo dell’ossessione maschile di universalizzare. Il pensiero delle donne e’ affermazione dei diritti umani nelle scene dei più barbari genocidi. Quelli raccontati nei numeri di una vessazione fisica e di una sudditanza arcaica in tanta parte del mondo. Diventa metodo interpretativo e ricostruttivo di cultura laddove quella barbarie, che pure non è estinta, è stata almeno ufficialmente bandita dalle formule della tentata giustificazione cosiddetta culturale.

E’ un metodo, il cui valore non è tanto in se e come saprà costruire un mondo a parte, ma in quanta giustizia e riconoscimento saprà portare nell’unico mondo che esiste. Quello che finora ha trattato le donne come una deviazione dagli uomini, un