Inaugurare il dialogo

di Élisabeth Dufourcq, storica
in “La Croix” del 2 aprile 2009 (traduzione: www.finesettimana.org)

Cercare motivi di speranza non significa cullarsi nelle illusioni. La crisi è solo all’inizio. Bisognerà
tacere molto quando il superfluo crollerà e farsi perdonare quando l’umiliazione o l’apprensione ci
faranno reagire in modo sbagliato.
Ma sperare è un dovere. La storia ci dice che il miracolo non succede mai quando lo si convoca, ma
d’improvviso, quando ci si impegna in prima persona. Sperare significa investirsi. Pensare al gesto
del bambino, nella distribuzione dei pani.
Non c’è nulla da sperare dagli onori. Meno male! Chi, in settembre, non sperava di trovarsi il più
vicino possibile ad un papa incensato? Chi vediamo adesso, in primavera, diffondere battute di
spirito su “una piccola penisola” come se si volesse dividere la Chiesa? In quante consorterie? E per
quanti secoli? Le chance di speranza sono altrove.
Ciò non significa che dobbiamo rinunciare a farci sentire quando pensiamo che le Scritture e i
Vangeli ce ne facciano un dovere. Le chance di speranza non sono in un ritorno al
fondamentalismo. Se non mi sbaglio, né la legge di Cristo né quella di Mosé possono essere trattate
alla stregua delle categorie aristoteliche.
Fin dalla creazione, la vita procede aprendosi la strada tra due rischi: quello di sbagliare e quello di
soffocare ogni progresso. Tra questi due rischi, la vita sceglie il minore, sperando che sia
effettivamente il minore. E Dio sa che questa preoccupazione è buona.
Gesù di Nazareth, di cui Benedetto XVI parla con tanta profondità, porta alla Vita a partire da
questa vita. Non cambia uno jota della Legge, ma ne riconosce i limiti e, per amore, li trascende se
necessario. E Paolo traduce: “Se non ho la carità” (1 Corinti 13). Cristo guarisce in un giorno di
sabato; fa della donna adultera una persona tornata a vivere; si lascia toccare da una donna impura e
riconosce in lei la Vita dello Spirito: “Va, la tua fede ti ha salvata.” Non “Io ti salvo”, ma “La tua
fede ti ha salvata!” Meraviglioso rispetto!
In funzione di questa vita dello Spirito all’opera nell’umanità, Cristo stesso accetta di cambiare
opinione; alle nozze di Cana o sulla strada di Tiro, quando sua madre o una semplice straniera
sperano in lui, contro ogni speranza. Pietro stesso cambia opinione dopo il sogno di Joppe: “Chi
ero io da potermi opporre a Dio?” (Atti, 11,17).
Questo discernimento, che può essere addirittura un cambiamento di rotta, suppone un dialogo tra
gli apostoli e i fedeli. L’imitazione di Cristo si fa a questo prezzo.
Gesù di Nazareth dialoga con i suoi amici, con degli uomini, delle donne, delle folle, dei malati, dei
ricchi, dei poveri, degli esitanti, dei farisei e perfino dei demoni. Ascolta le loro domande e risponde
loro. Di questo, gli Apostoli, da uomini dell’Antichità, capiscono difficilmente il perché. “Si
stupirono”, si dice. Negli Atti degli Apostoli, dimenticano. Con fervore, prendono il cristianesimo
in mano e lo fanno vivere nelle cornici antiche.
Dopo duemila anni di autorità antica, sembra venuto il momento di inaugurare il dialogo tra
apostoli e fedeli. È difficile, è pericoloso, ma è un dovere.
Dove, concretamente, dialogare? Su internet? Su dei blog? Perché no: questi mezzi rompono
l’isolamento. In sinodi diocesani? Non me ne intendo molto, ma mi chiedo: chi viene mobilitato?
Chi decide l’ordine del giorno? Chi trasmette le conclusioni a chi? Chi mette in guardia?
Chi decise i raggruppamenti parrocchiali e le misure di compensazione da attuare? È troppo tardi
per rianimare le chiese vuote, delegare delle funzioni, anche sacramentali, come fu fatto nei periodi
di crisi più amare della nostra? Bisogna ancora trovare la maniera. Non si potrà più disdegnare
l’investimento responsabile di coloro che resteranno fedeli.
Come dialogare? Clero e laici devono impegnarsi in prima persona. Senza retorica e con prudenza,
“con autorità e non come gli scribi”. In momenti difficili, Vincenzo de Paoli insegnava ai suoi
chierici “l’arte di dibattere”. Per armare i futuri preti, è indispensabile investire affinché la maggior
parte di loro possiedano, non la scienza, ma les humanités scientifiques*. Quando un eminente
portavoce si esprime su un rischio di contaminazione con dei preservativi presi in prestito da terzi,
come se quel rischio potesse essere comparato al rischio infinitamente più frequente di aggravare
un’epidemia perché di preservativi non se ne hanno affatto…, si ha un bel fare appello ai tesori di
rispetto di cui si dispone: si soffre intellettualmente e si condivide la sofferenza nel vedere
l’essenziale di un messaggio spirituale rovinato da una protesta generale. Si freme soprattutto
all’idea che un testo sulla legge naturale – termine che ha convalidato tanti abusi di cui le donne
hanno fatto le spese lungo il corso della storia – possa cadere in trabocchetti così evidenti.
Quanto alla formazione teologica di laici bardati di lauree utili a tutti, essa suppone anche un
investimento, quindi una speranza. Quando si sente dire che “noi manchiamo di donne preparate”,
si capisce che, da decenni, almeno una diocesi ha investito in altro che nella formazione delle donne
che vi si dedicano. Dove trovare oggi dei corsi di formazione gratuiti di latino e di greco, se non
nelle strutture, spesso di volontariato, dell’insegnamento laico?
Nell’epoca del bombardamento selettivo di tutto su tutto in tempi rapidissimi, il principio di autorità
che ha cementato la Chiesa a partire dagli Atti degli Apostoli non può più funzionare come prima.
Sta a noi costruire un programma di speranza perché il messaggio di vita portato dal Vangelo ne
esca meglio capito. È una speranza, è un dovere. Anche i non credenti lo aspettano, e abbiamo un
debito grande nei loro confronti.
* ndr.: Conoscenze di storia e filosofia delle scienze e delle tecniche, ma soprattutto capacità di
vedere come le scienze e le tecniche intervengano nelle questioni sociali e politiche.