La favola del G20

di Giuliano Garavini
da www.aprileonline.info

I risultati del vertice di Londra non sono stati di poco conto. Brown ha annunciato un’immissione fresca liquidità pari a 1100 miliardi di dollari, dei quali 750 tramite il FMI; regole comuni sui compensi e contro i paradisi fiscali; una riforma del peso dei vari Paesi nel FMI; e aiuti per i Paesi più poveri. Rimane però il fatto che, oltre alla totale assenza di coordinamento sul tipo di misure da adottare, tutto ciò che viene discusso non prevede alcuna forma di redistribuzione di risorse nei confronti dei più colpiti dalla crisi

Nel 1964 c’era stato il G77 che raggruppava i Paesi in via sviluppo in ambito ONU, poi il G7 nel 1975 che raggruppava solo i più ricchi, poi tutta una lunga serie di altri GX. Oggi l’economia internazionale vede l’Occidente ridimensionato dall’ascesa di nuove potenze come la Cina, le cui banche sono oggi le prime per capitalizzazione, o l’India, che si è comprata la più grande acciaieria europea l’Arcelor, o il Brasile che ha bloccato i negoziati dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Il primo incontro del G20 risaliva al periodo appena successivo alle crisi finanziare del mondo asiatico. Venne svolto nel novembre 1999 e comprendeva allora, così come comprende oggi: Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Francia, Germania, India, Indonesia, Italia, Giappone, Messico, Russia, Arabia Saudita, Sud Africa, Corea del Sud, Turchia, Regno Unito, Stati Uniti d’America, e… Unione Europea.

Il G20 di Londra è stato organizzato da Gordon Brown, leader di un laburismo che cerca di riemergere dal declino, per offrire una risposta credibile e coordinata alla crisi economica in atto. Per non cadere negli errori degli anni Trenta. Il G20 è sembrato un organismo più al passo con i tempi, rispetto all’elitario G8 dei tempi che furono, e racchiude economie che rappresenterebbero oltre l’85 per cento della produzione globale. Secondo quanto auspicato dai solerti esperti di Gordon, quelli di Chatam House, le decisioni più importanti avrebbe dovuto riguardare: 1) coordinamento dei pacchetti di stimolo all’economia; 2) evitare il protezionismo e le svalutazioni competitive; 3) aumentare le risorse a disposizione del FMI (EU e Giappone hanno messo rispettivamanete 75 di euro e 100 miliardi di dollare); 4) nel medio termine regolare le istituzioni finanziarie private; 5) modificare la composizione del FMi per aumentarne i fondi e ridargli un poco di lustro, ma anche con un seggio unico per l’Unione Europea.
Non sono cose di poco conto, ed alcune sono anche giuste.

Si fronteggiavano a Londra due diverse filosofie, quella americana, più attenta all’espansione della domanda con interventi nelle infrastrutture, nell’educazione in banche e imprese; e quella franco-tedesca più attenta alle regole, anche per non mettere in discussione, incentivando spesa pubblica, la solidità dell’euro, che già sembra traballante. L’Unione Europea, si sa, ha molta più facilità a fare da cane da guardia dei bilanci (L’italia infatti ha potuto spendere solo 7 miliardi in piani di stimolo) che a coordinare politiche economiche visto che non dispone di un Governo dell’Economia.

I risultati del vertice di Londra non sono stati di poco conto. Brown ha annunciato un’immissione fresca liquidità pari a 1100 miliardi di dollari, dei quali 750 tramite il FMI; regole comuni sui compensi e sia contro i paradisi fiscali; una riforma del peso dei vari Paesi nel FMI; ed elemosina per i Paesi più poveri. Sono prevalentemente promesse. La quantità di soldi non è poi certo impressionante se si considera che solo gli Stati Uniti per salvare le banche hanno speso il doppio di quella cifra. Ma comunque il segnale di evitare il protezionismo, e di qualche collaborazione globale, è da accogliere come positivo.

Ma rimane il problema, oltre alla totale assenza di coordinamento sul tipo di misure da adottare (che faranno la Cina e l’India sul fronte dello sviluppo sostenibile?), tutto ciò che viene discusso non prevede alcuna forma di redistribuzione di risorse nei confronti dei più colpiti dalla crisi e cioè i dipendenti, i precari e gli immigrati, nonché i disoccupati; così come prevede interventi risibili per i Paesi più poveri che non sono rappresentati nel G20.

La morale della favola è che solo una battaglia sostenuta e continua da parte dei lavoratori europei, una battaglia sempre più radicale, potrà far si che siano varate misure su tutela dalla disoccupazione e dei salari, su investimenti in sanità e educazione e in tecnologia ecologica. Solo questa battaglia potrà permettere che tutta la crisi economica non si risolva in un rilancio dell’impresa e della finanza privata, e in un nuovo arretramento del peso della classe lavoratrice, ancora più passiva e subordinata, nonché più povera e irrigimentata di prima. Se ci sarà un ridimensionamento dei consumi, e magari anche un’auspicabile razionalizzazione dei consumi energetici, questo non può che andare di pari passo con una maggiore eguaglianza sociale e con innovativi processi di partecipazione. Anche nelle con i sovrani assoluti non si buttavano sacchi di plastica, né si teneva tutto il giorno acceso il riscaldamento, ma non è quel tipo di società cui aspiriamo.

Nemmeno Obama ci salverà sul fronte delle scelte di politica economica, perché scemato il suo capitale di consenso non avrà più autorità sul mondo degli affari. Ma non basterà nemmeno questa battaglia sociale nei paesi europei perché la crisi non renda il mondo peggiore di quanto non lo sia già oggi. La crisi ha aumentato le distanza, non solo all’interno delle società occidentali, ma anche quelle fra i Paesi occidentali ed emergenti, e il resto delle economie che si vanno impoverendo, come è facile consatare dal disperato aumento dei tentativi di sbarco in Europa. I prezzi delle materie prime, sui quali si basano le speranze di molte economie povere, stanno crollando. Servono allora delle misure strutturali, prese attraverso le istituzioni economiche internazionali, che sostengano i prezzi delle materie prime e lo sviluppo di questi paesi, che diano loro voce in capitolo nelle grandi scelte internazionali che si compiono anche sul loro futuro.