La parola della croce – Venerdì santo

di Giorgio Tourn
da www.chiesavaldese.org

“La parola della croce è follia per quelli che vanno in perdizione, per quelli che saranno salvati è la forza di Dio” (I Corinzi 1:18)

Che quel 14 di Nisan, ricordato annualmente dalla Chiesa il giorno del Venerdì santo, costituisca il cuore della fede cristiana è un dato indiscutibile ed in perfetta coerenza con questo fatto il simbolo della religione cristiana è la croce. A questo fa riferimento l’apostolo Paolo che costruisce il suo pensiero su un enunciato “la parola della croce”, e un paradosso: “la follia della croce-potenza di Dio”.

Nella sua accezione prima, comune, il termine greco qui usato, logos, significa parola, discorso, espressione linguistica; il logos, il discorso della croce equivale a “discorso che si può fare sulla croce di Cristo”, è ciò che Paolo ha predicato e continua a predicare. Egli non vuole sapere altro che Cristo crocifisso.

C’è però un altro aspetto del termine logos che merita attenzione; come il verbo leghein ha la stessa radice di logica. L’avvenimento del 14 Nisan va inteso in questo senso. La croce è un fatto che si può narrare, di cui si deve parlare ma è anche un avvenimento che rientra in una logica, anzi in una duplice logica, quella dell’uomo e quella di Dio. Il “logos della croce”, la logica della rivelazione, sta nella croce e non poteva essere altrimenti dato il carattere di dio biblico così come lo delinea la Scrittura.

Si ha spesso la tendenza a leggere i testi evangelici in chiave di romanzo: come la vicenda di un personaggio,il rabbi Galileo Gesù, che dopo una vita movimentata e sempre in suspense finisce in modo tragico, bisognerebbe invece leggerla nell’ottica della tragedia antica, era inevitabile che accedesse così, non poteva essere altrimenti.

Si è potuto scrivere che il testo evangelico di Marco è sostanzialmente un racconto della passione preceduto da alcuni episodi della vita di Gesù; lettura che contiene del vero nel senso che tutto il racconto non è uniforme ma tende verso il punto finale che sintetizza l’intero messaggio: la crocifissione e la risurrezione.

Gli apostoli hanno sottolineato l’ineluttabilità della croce come realizzazione delle profezie: sta scritto che così deve essere ma l’avvenimento della croce è ancora più di questo, più dell’adempimento delle visioni profetiche è nella necessità.

Il venerdì santo realizza il Natale, l’incarnazione; è il radicamento di Dio nella storia come Natale era stato il suo ingresso. L’assoluto divino deve radicarsi nella morte come si è radicato nella vita. La croce significa anzitutto morte e di questo va subito presa coscienza perché non è fatto secondario. I grandi maestri di spiritualità, i fondatori di religione, quelli che Schuré chiamò nel suo best seller degli anni ‘30 I grandi iniziati, muoiono con notevoli differenze rispetto a Gesù di Nazaret.

Muoiono al termine di una vita operosa per il bene dell’umanità, escono pacificamente dalla storia lasciando ai loro discepoli un patrimonio di insegnamenti sulle realtà divine e sulla strada della perfezione: Mosé vecchio, Muhamad fra i suoi, Buddah circondato da discepoli e sono grandi le comunità religiose che traggono ispirazione da loro, altrettanto quanto il cristianesimo. Ciò che importa in questi grandi personaggi della religione è il loro insegnamento, dato il quale possono ritirarsi; le loro sono morti naturali, quella di Gesù no, nel caso suo conta invece il fatto di morire e soprattutto il tipo di morte.

Si pensa abitualmente che la religione nasca dalla meditazione, dalla preghiera, le visioni, l’ascesi; il cristianesimo nasce dall’omicidio di un innocente. Perché la logica di Dio è connessa non col pensiero, lo spirito, la genialità ma la morte? Perché è l’unica realtà della condizione umana che non ha alcuna relazione con l’Assoluto. Sono possibili infatti raffronti, e la religione li ha sempre fatti, fra Dio e noi parlando di intelligenza, forza, ragione, sapienza possiamo sempre partire da noi e giungere a lui, io sono buono, Lui lo è sommamente, sono intelligente, Lui è intelligenza assoluta, provo amore per le creature, Lui è amore assoluto ma non si può fare questo parallelismo con la morte.

Si tratta di una realtà che gli è del tutto estranea; rispetto a tutto ciò che noi siamo Egli è sempre altro, certo, ma possiamo usare parole per dire approssimativamente come intendiamo la vita ma rispetto alla morte nulla, quando ne parliamo, parliamo solo di noi, Dio non sa cosa sia eppure la logica della croce secondo Paolo implica che Dio si occupi anche del nostro morire perché le coordinate entro cui si colloca l’esistenza umana sono proprio quelle del venerdì santo: la morte e il peccato.

Quel giorno ha luogo infatti l’omicidio di un innocente ad opera della società del suo tempo, la combinazione esemplare paradigmatica di calcolo, interesse, viltà, che unisce un politicante infido come Pilato, preti interessati, intellettuali vigliacchi, popolo ignorante. Si assommano a compiere questo omicidio il diritto rappresentato dal potere romano, l’espressione migliore della cultura antica in quel campo, la religione nella forma compiuta del monoteismo ebraico, la libertà nazionale, l’indipendenza di cui la folla è ossessionata scambiando quel giusto (il primo dei giusti!) col terrorista Barabba.

Il processo per eccellenza dunque che riassume tutti quelli della storia e ne fornisce la chiave: lo Stato, la religione, la libertà sono espressioni del peccato che uccide l’Uomo. Questo l’enunciato della parola della croce, ma è inquadrata in un paradosso. Il radicarsi di Dio nella storia ha carattere paradossale. Questo fu percepito dalla cultura greco-romana all’epoca della prima comunità cristiana in modo chiaro, brutale. Non ce ne rendiamo conto oggi perché il cristianesimo è diventato del tutto logico ed ha perso del tutto quel carattere di “follia” che ebbe allora e di cui parla il nostro testo.

Di come in realtà potesse venire percepito allora il fato di Cristo è documento impressionante quel graffito trovato nel pretorio del Palatino a Roma. Un pretoriano incise sulla parete del posto di guardia un segno di croce ai cui piedi sta inginocchiata una figura con le mani giunte e la scritta, Alexamenos adora il suo dio, sulla croce sta naturalmente un uomo, cosa per noi normale trattandosi di Gesù; il fatto è però che quell’uomo ha una testa d’asino. Così il nostro pretoriano, probabilmente religioso, forse membro di qualche culto orientale, devoto a Mitra o a Cibele, vede il suo commilitone cristiano: un poveretto vittima di una asineria assoluta.

Il fatto significativo però è che alla follia, con cui si può qualificare la parola della croce, Paolo non contrappone la ragionevolezza, l’intelligenza, ma la forza. Il termine è dunamis nel senso di forza dinamica, la forza nel senso di potenza, autorità invece è kratos, per esempio in Efesini 1:19 “secondo la forza del suo potere”. Il contrario della croce non è la potestas, la potenza ma una dinamica esistenziale intrinseca, una forza che viene da dentro.

Quelli che vanno in perdizione vedono nel condannato solo quello che col linguaggio caratteristico dell’Italia pagana si dice un povero cristo, un brav’uomo un po’ ingenuo, in cui solo uno svitato come Alexamenos può vedere il suo Dio. Per quelli che sono sulla via della salvezza è invece il segno della dunamis di Dio, dell’incidenza dell’Essere nella vita, del creato.

Nella parola della croce, secondo la sua logica, è presente la forza di Dio. Nulla dunque nel nostro testo rinvia a quella debolezza di Dio tanto cara alla sensibilità post moderna, alla categoria del debole, fragile, condizionato spesso presentata come chiave di letture del problema di Dio nel mondo. Quasi leggesse in anticipo l’
evoluzione della nostra riflessione teologica Paolo introduce la parola debolezza ma per rovesciala nella tesi paradossale: la debolezza di Dio è più forte di tutte le nostre forze e non nel senso quantitativo, per il fatto che Dio è più grande di noi e di conseguenza la sua forza è maggiore della nostra, ma in dimensione qualitativa, la dunamis della vita sta nell’impotenza del crocifisso.